Zanetto Innocenti compirà 98 anni il prossimo primo gennaio. Quasi un secolo di vita attraverso la guerra in Africa e la prigionia in Gran Bretagna, e poi l’impegno in politica, nella pubblica amministrazione e nel mondo cooperativistico. Ce ne ha parlato qualche giorno fa nel corso di un incontro nella sua casa di Sansepolcro, realizzata interamente in legno. “È stata costruita 15 anni fa e ancora non ci ho fatto niente. Fosse stata di muro avrebbe avuto bisogno per lo meno di essere imbiancata, invece è perfettamente a posto”, dice. Questo è uno dei tanti particolari da cui emerge una coscienza ambientalista ancora forte e attenta alle grosse problematiche planetarie: “È tutto il pianeta che è malato – commenta in relazione alla pandemia – il nostro mondo sta soffrendo travolto dall’inquinamento. La ricchezza è fondamentale, ma forse è solo un’illusione, perché se è nociva era meglio essere un po’ più poveri ma avere l’aria pulita”, commenta. “Oggi abbiamo tutti l’automobile, ma stiamo collaborando insieme per farci del male”. E a proposito di automobili: “Con mia figlia abbiamo comprato un’auto ibrida. Sono cambiamenti che vanno incentivati perché ognuno di noi deve provare a fare qualcosa nel suo piccolo. Magari non significa niente, ma bisogna cominciare a pensare che dobbiamo difendere questo mondo”.
Persona non gradita
“Ho vissuto tante cose – ci dice – alcune belle e alcune brutte, ma ho sempre avuto la fortuna di scamparla”. Per esempio in guerra, in Africa, come furiere. “Mi sono spesso trovato a fare cose più importanti di me, per cui non avevo il calibro – premette con modestia – Il furiere è l’amministratore della compagnia, ma io cosa ne sapevo di come fare il furiere? Io sapevo come mandare le vacche…” Era andata così: “Nel settembre 1942 arrivo a Cremona, nel 9º Bersaglieri. Chiedono se qualcuno sa scrivere a macchina. Io la strimpellavo, avevo fatto un po’ di pratica presso un sindacato fascista. Alzo la mano e vengo mandato al Comando del reggimento, tra tutti quegli ufficiali! Dopo dieci giorni arriva un rapporto dei Carabinieri di Sansepolcro in cui vengo definito persona non gradita e mi mandano via”. Perché persona non gradita? “In quei posti lì ci doveva andare un certo tipo di gente”, risponde. Poi prosegue: “Le famiglie povere erano considerate sovversive, ma io lo ero anche di spirito. Da ragazzi eravamo inquadrati, io andavo a scuola e il maestro arrivava con il fez, i cinturoni e la rivoltella. Entrava in classe e appoggiava tutte queste cose sopra la cattedra. Mi risulta che poi lo abbiano ammazzato i partigiani, anche se non conosco i dettagli perché in quel periodo non c’ero”. Quel periodo Zanetto lo avrebbe infatti passato in prigionia, come vedremo più avanti. “Insomma – ribadisce – facevamo lezione con la rivoltella sopra la cattedra, non so se oggi sarebbe consentito”, ironizza. “Questo per dire che ci veniva insegnato un solo modo di vedere il mondo, ma c’era anche gente che andava a riunioni clandestine e faceva propaganda contro il regime. Io ero un ragazzino ma li vedevo, a volte li sentivo cantare canti sovversivi. Pensavo che erano davvero coraggiosi e cominciavo a capire che c’era anche qualcosa di diverso oltre a quello che ci raccontava il Duce”.
Le donne del capitano
Ma torniamo a Cremona. “Mandato via dal Comando del reggimento rientro in compagnia. Ormai mi conoscevano e mi mandano a fare il furiere. All’inizio non sapevo cosa inventare, arrivavano lettere, la notte spesso non dormivo per lavorare alle risposte. Bombardavano Milano e da noi a Cremona andava via la luce, quindi stavo con una candela a studiare queste carte. Un giorno eravamo in due e facevamo a chi falsificava meglio la firma del capitano. All’improvviso lui entra, io giro il foglio ma se ne accorge. Lo prende, lo guarda. Ero nero dalla paura, mi aspettavo una punizione. Invece mi fa: ‘Bravo, d’ora in avanti firma tutto, tranne gli addebiti, ché di quelli non voglio saperne’. Lui la sera aveva le donne che lo aspettavano fuori, sicché andava via e io lì a firmare i permessi a suo nome”.
In Africa
“Il capitano poi mi portò in Africa. Eravamo in Tunisia, ad Hammamet, dove ora c’è quell’altro. Io ero il furiere, stavo al deposito, in retrovia. Un giorno arrivarono cinque persone del Borgo, tra cui mio fratello Adelmo, che faceva l’autista e andava a Tunisi a fare provviste al mercato. Non so come fecero a trovarmi, ma vennero lì e si fece una bella cena. La offrì Orlando del Lacrimini, che aveva concluso un buon affare vendendo agli arabi un cavo di acciaio per tirare su l’acqua dal pozzo”. Dopo io volli restare qualche giorno in più con mio fratello e quando mi ripresentai fui considerato disertore e spedito al fronte. Lì ho avuto un po’ di paura, perché cadevano le bombe a tappeto. Quando gli Alleati bombardavano, il cielo sereno diventava tutto nero, coperto da 200 apparecchi. Come cannoni loro avevano gli 88 mm che portavano 15 chilometri mentre i nostri 8, quindi ci sparavano senza essere offesi. Comunque la scampai”.
“E la scampai anche quando cercai di tornare al deposito. Mi spararono quattro cannonate, poi con il cannocchiale non mi vedevano più e pensarono di avermi fatto fuori. Invece mi ero buttato in una rovaia. Avevo i calzoncini corti e una camicetta, mi bucai un po’ ma non volevo uscire, sennò mi sarebbe toccato il bis. Continuai allora a camminare tra i rovi e poi trovai una catasta di mine anticarro che avevano messo i nostri per arginare un’eventuale ritirata. Le avevano depositate a bancali, saranno stati 40 o 50 candelotti. Io sapevo che avevano la sicura, però all’idea di montarci sopra ero molto preoccupato, perché se se ne sgancia una poi non mi ritrovano. Ma non c’era alternativa: ci salii sopra, sudavo tantissimo dalla paura. Ma non scoppiarono. Poi dopo 5 o 6 metri nella rovaia ecco un’altra catasta. Intanto si faceva notte e pensavo che stavolta non ce l’avrei fatta, invece riuscii a passare anche questa e poi ancora un’altra. Finalmente la strada girava dietro una collinetta e così potei uscire dalla rovaia e arrivare al deposito. Poi neanche trovai tanto, ma presi una coperta portaferiti che tornava molto comoda: la notte da quelle parti è molto freddo, c’è una grandissima escursione termica. Comunque anche quella volta la fortuna volle che non morissi”.
“Come fanno le pecore”
Nel maggio 1943 arrivò la resa incondizionata delle truppe italiane. “Ci circondarono: le armate americane arrivarono da Est, gli inglesi dall’Egitto. Ci chiusero lì e finì la guerra”. E cominciò la prigionia, dapprima in un campo di concentramento in Tunisia, dove le condizioni di vita non erano le più comode. “Ci davano una pagnottina al giorno da dividere in quattro, quindi cercavamo di romperla per bene per fare i pezzi uguali, ma c’era sempre qualcuno scontento. Alla fine spaccavamo questo pane e poi tiravamo le parti a sorte. La differenza poteva essere una mollica, ma voleva dire anche quella, perché erano panini piccolissimi e quando li dividi in quattro non ci resta niente. Mangiammo anche tutta l’erba che c’era, come fanno le pecore. Poi finì e si trovarono pezzi di legno per scavare la terra e trovare piccole radicine, che erano anche più sostanziose dell’erba. In tre mesi sono calato 30 chili, dieci chili al mese”. Poi il trasferimento in Gran Bretagna. Partenza il 14 agosto da Algeri, arrivo il 24 a Glasgow in Scozia. “I prigionieri erano in due navi in mezzo a cui facevano viaggiare una petroliera. Dopo Gibilterra ci tenemmo molto al largo per evitare attacchi aerei, ma nonostante questo uno Stukas ci raggiunse. Sentii l’allarme e vidi sganciare una bomba che per fortuna finì in acqua. Nella nave comunque si creò il panico, chi era sotto voleva salire fuori, chi era sopra veniva spinto sotto. Io mi trovai in mezzo alla calca e, secco com’ero diventato, riuscii a infilarmi tra i pioli di una scala e rimasi lì sdraiato. Quando mi rialzai da quel sottoscala le cimici le toglievo a manciate”. Poi l’approdo in Scozia: “Alla partenza c’erano 40 gradi, lassù zero. Tra lo sbalzo di temperatura e la debolezza avevamo perso i sentimenti, ce la facevamo addosso. Fu lì che mi accorsi che avevo perso 30 chili, perché ci fecero una visita e ci pesarono: da 76 chili ero diventato 46. Ci tagliarono tutti i peli, che erano pieni di cimici e pidocchi, e ci fecero fare la doccia”. Non era proprio una doccia: “In realtà era un tubo con un buco da cui scendeva acqua gelata. Ci mettevano in testa un qualcosa tipo sapone, ma non lo era, sembrava più gesso ed era molto appiccicoso. Per levarlo si doveva stare sotto quell’acqua fredda un quarto d’ora o venti minuti, così si faceva il bagno per forza. Poi però ci diedero finalmente un piatto. Dopo tre mesi con poca acqua e poco pane, finalmente qualcosa di caldo con un po’ di verza. Eravamo contenti come una pasqua, si riusciva a rimangiare! E in breve tempo mi ripresi”.
Libertà inglese
“Dalla Scozia mi hanno poi trasferito in Inghilterra, a Bristol, dove di fatto ho avuto la libertà. Si poteva decidere se rimanere nei campi di prigionia o andare volontari a lavorare. Avevamo una piccola remunerazione ma non con i soldi normali: era una valuta fatta apposta che potevamo spendere solo dentro il campo, dove c’era una specie di piccolo bar e si potevano comprare anche prodotti per la pulizia e tagliare i capelli. Insieme a un Salimbeni di Sant’Arsa, che ha fatto tutta la guerra con me, andai a lavorare da una famiglia che mi voleva bene, mi avevano anche dato il fucile e le cartucce. Alle cinque ero libero e al paese ci aspettavano sempre per discutere di politica, volevano sapere il nostro pensiero. Avevo trovato anche una bella ragazza. Del resto là gli uomini giovani non c’erano, erano nei possedimenti dell’Impero britannico per tutto il mondo. Insomma in quel modo ho fatto tre anni di vita discreta, e volendo sarei potuto rimanere là, con l’accreditamento della famiglia dov’ero. Ma tutto sommato non ci stavo volentieri in Inghilterra, non si vede mai il sole, c’è sempre la nebbia. Sapevo che a casa c’era la miseria nera, ma volevo tornare lo stesso. Una cosa che ci mancava era la cucina. Gli inglesi hanno davvero tantissimi pregi, ma cucinare non è fra questi. Una volta a caccia presi un coniglio e lo cucinarono lesso, senza condimenti, anche perché l’olio non c’è. Un po’ di sale e una patata. Mangiavamo quelle cose lì ma sognavamo sempre la nostra cucina, un bel piatto di panzanella! La colazione però non era male. Quando si ammazzava il maiale buttavano via tutto, testa, budelli. Poi attaccavano il maiale ai ganci e tutte le mattine ne tagliavano fettine. Ed è il famoso bacon. La mattina facevano due fette di pane e una fetta di bacon fritto in padella, più un uovo sopra”.
Gli anni in Gran Bretagna significarono anche avere a che fare con la lingua inglese. “Trovai una grammatica, non ricordo chi me la procurò, e nel campo di concentramento in due mesi e mezzo imparai a scrivere abbastanza. Ma quando andai a vivere da questa famiglia non ci capivamo per niente, perché la pronuncia è troppo differente. All’inizio comunicavamo scrivendoci le frasi in dei foglietti, poi mi sono abituato a sentire il suono e ho iniziato anche a parlare. Ancora ci scriviamo delle lettere. Molti ormai sono morti ma ho tuttora corrispondenza con due persone”. L’esperienza con l’inglese sarebbe stata utile a Zanetto anche negli anni sessanta, quando nelle vesti di amministratore pubblico ebbe modo di fare da guida ad Anthony Clarke durante la prima visita a Sansepolcro del capitano dell’esercito britannico. Visitando i più importanti luoghi della città ci fu naturalmente la tappa alla Pinacoteca, a vedere quel Piero della Francesca di cui Clarke era appassionato, e anche alla Fortezza: “Il Tosi ci offrì il vin santo della sua fattoria, che faceva il filo”, ricorda Zanetto sottolineando con un’espressione tipica la bontà del prodotto.
Politica e cooperazione
L’agognato ritorno a casa dall’Inghilterra era avvenuto nel luglio 1946, di nuovo in nave via Gibilterra, stavolta senza rischiare attacchi aerei. Lo sbarco a Napoli e poi il ritorno ad Anghiari, alla Casentina. E dopo lavoro e impegno politico, nelle file del Partito comunista. Negli anni cinquanta e sessanta Zanetto fu assessore alle finanze del Comune di Sansepolcro con i sindaci Mario Ugolini e Athos Fiordelli. “L’opposizione mi diceva che facevo bilanci poco coraggiosi. È normale che l’opposizione critichi il bilancio, ma ad andare avanti a suon di mutui tutti sono capaci, poi però bisogna ripagarli. Io sono sempre stato abituato a tenere i piedi per terra”.
Dopo il furiere dell’esercito è quindi l’assessore al bilancio un altro di quei compiti per cui Zanetto sentiva di “non avere il calibro”. Come per quello di amministratore di cooperativa. Eppure alla cooperativa ha lavorato per 30 anni, dal 1947 al 1977, vivendo da protagonista la fase della nascita dell’Unicoop. “Ho sempre fatto cose che non volevo fare, mi sembrava di venire premiato un po’ troppo – ribadisce – Però ce l’ho fatta, ho fatto tanti contratti notarili senza commercialista, ho comprato l’immobile sotto piazza dove c’è ora la Casa del popolo, quello all’autostazione dove si è fatto il supermercato. Ho tenuto la contabilità di un’azienda grossa, ho avuto controlli della Finanza e anche un controllo ministeriale. Venne quest’omino, un dottore dal Ministero dell’interno, che rimase a Sansepolcro 15 giorni. C’era un governo scelbiano orientato a controllare le aziende cooperative che diventavano troppo importanti, e la nostra era entrata nel mirino. Nelle conclusioni del verbale l’ispettore scrisse che ‘l’amministrazione della cooperativa è saggia e oculata e svolge le sue attività nell’interesse dei soci’. L’ho attaccato nella sala riunioni della Coop, nella bacheca”, ricorda con orgoglio.
A quel periodo risalgono aneddoti di un’altra epoca: “Allora c’erano sistemi un po’ così. Una volta due o tre persone mi chiesero se potevo portare damigiane di olio a Santa Fista su prenotazione. Ne portai una a casa del più importante contadino della zona dove si erano ritrovati tutti, si fece il brustichino intorno al focolare con quest’olio e presi le prenotazioni. Andai col camion e lasciai 35-40 damigiane dentro il seccatoio del tabacco, ognuna con un tagliandino con lordo, tara e netto. Era novembre. A marzo, quando riscuotevano il tabacco, mi vennero a pagare tutto con precisione. Erano cose fatte con grande fiducia. Io non conoscevo nessuno: se non avessero pagato, o se quell’olio qualcuno l’avesse rubato (al seccatoio non c’erano neanche le porte) la cooperativa sarebbe andata in crisi”.
Zanetto ci racconta anche della costituzione dell’Unicoop: “Le cooperative in Valtiberina operavano dal 1945 e negli anni sessanta, quando la nostra cambiò nome da Unità proletaria a Rinascita, ce n’erano cinque o sei. Io lavoravo per unirle perché era necessario ridurre le spese. C’erano state conquiste sindacali che riducevano gli orari di lavoro e quindi aumentavano i costi. Non fu semplice perché tutti volevano mantenere il loro ‘seggiolino’, ma nel giro di pochi anni le altre cooperative chiusero tutte. Quella di San Giustino, di Anghiari, di San Leo… Io andavo sempre a Firenze con la mia borsina con dentro bilancio e statuto a cercare di capire come fare un’azienda competitiva. E alla fine quest’azienda competitiva nacque quando si riuscì a creare una grande centrale che riuniva centinaia di cooperative di tutta la Toscana”.
“Mi dichiaro fortunato”
Durante la conversazione vengono fuori altri temi, e per affrontarli tutti un articolo non basterebbe. Parlando del tempo libero, per esempio, Zanetto ci racconta della sua grande passione per il gioco delle bocce e della sua collaborazione che dura tuttora con la Bocciofila Biturgia. Altri spunti nascono da un quadernone ad anelli dove il nostro interlocutore ha raccolto articoli di giornale, fotografie, tanti scritti. Tra questi anche stornelli: per il matrimonio dei vicini di casa, per il pensionamento della figlia Alida, per concorsi letterari. E la raccolta di tutti i vocaboli della Valtiberina. Ne ha ricostruiti circa duecento: “Qualcuno mi sarà sfuggito, non tutti me li ricordo bene”. D’altra parte “ne è passata di acqua sotto a ‘sti ponti”, commenta Zanetto, che ci regala una bella frase per chiudere questo piccolo racconto: “Mi dichiaro fortunato, perché ormai sono 98 e mi diverte ancora correre”.