Abbiamo l’aria di italiani d’Argentina, ormai certa come il tempo che farà. E sono proprio gli italiani d’Argentina a legare in qualche modo il territorio valtiberino a Fernando Solanas, che ci ha purtroppo lasciati in questi giorni. Anghiari, gemellata con la città de La Plata dove molti anghiaresi emigrati hanno sede, è dunque da tanti anni molto legata alle vicende, alle tradizioni e alla cultura argentina. Non è stato un caso, quindi, che nell’inverno del 2004 Fernando Pino Solanas sia approdato nel borgo con il suo laboratorio di formazione cinematografica La Maga, che ho avuto la fortuna di poter seguire per intero e che mi ha fatta appassionare alla sua produzione di film e documentari. E non sono stata l’unica, a giudicare dal ricordo che molti anghiaresi conservano di questo signore imponente, solo apparentemente burbero, pieno di passione.
Definire Solanas un regista sarebbe riduttivo. Pino è sempre stato soprattutto un combattente che ha usato la macchina da presa come uno strumento per denunciare ingiustizie e raccontare storie che, senza di lui, probabilmente non avremmo mai conosciuto. Non con la stessa dovizia di particolari, non con lo stesso sguardo furioso e dolce allo stesso tempo. Il suo modo di fare cinema è molto difficile da raccontare, oggi. Parlare di cinema militante sarebbe davvero troppo, troppo poco. I film e i documentari di Solanas hanno bisogno di essere contestualizzati. Altri tempi, altro modo di fruire la cultura. Tempi in cui con un documentario lunghissimo, molto scomodo, innovativo e difficile da metabolizzare come La hora de los hornos si poteva arrivare a ricevere riconoscimenti a livello internazionale.
Operando sotto il nome di Gruppo Cine Liberación, Fernando Solanas e Octavio Getino girano questo film documentario sulla storia socio-politica dell’Argentina. Finite le riprese, frutto di due anni di lavoro – durante i quali si consumò l’uccisione di Ernesto Guevara, a cui la pellicola è dedicata – i due autori scrissero un manifesto basato sulla loro esperienza intitolato Verso un Terzo Cinema, dove il termine Terzo Cinema fa riferimento a quello di Terzo Mondo coniato durante la conferenza di Bandung del 1955, quando la Cina elaborò la teoria dei tre mondi. Si tratta di un manifesto che ha influenzato tutto il successivo cinema dell’impegno civile, Jodorowsky in primis, e che si è inserito di diritto nel dibattito della sinistra mondiale dell’epoca. Pur intriso di un’ingenua fiducia nel peronismo, La hora de los hornos – profondamente e smaccatamente anti-americano – rappresenta un tassello fondamentale nella storia delle lotte di liberazione dalle dittature militari. il film è però anche un vero e proprio trattato sull’utilizzo e il riutilizzo dell’immagine. È come un caleidoscopio, un enorme esercizio di stile che contiene tecniche pubblicitarie e televisive occidentali – utilizzate nel famoso e toccante montaggio parallelo che le vede contrapposte alle immagini da mattatoio – l’avanguardia sovietica, il cinema di Fernando Birri fino al film-saggio.
La sua filmografia spazia poi dal film storico Los hijos de Fierro al documentario sulla disabilità, Le regard des autres fino ad arrivare nel 1985 al suo lungometraggio probabilmente più famoso, Tangos – El exilio de Gardel, che gli valse un Leone d’Argento e un Premio César. Insieme a Sur, girato tre anni dopo, Tangos racconta la tragedia del popolo argentino durante e subito dopo la dittatura di Videla e lo fa attraverso i sentimenti privati dei protagonisti. Se Tangos è un film girato con il pathos dell’argentino che ha vissuto l’esilio – la storia racconta le vicende di un eterogeneo gruppo di argentini, appunto, esiliati a Parigi che cercano di tenere viva la memoria del paese lontano mettendo in scena uno spettacolo dedicato a Carlos Gardel, tra ansie e paure per le persone lasciate in patria – e restituisce alle immagini un’urgenza creativa e narrativa talmente coinvolgente e tumultuosa da farsi perdonare qualche ingenuità registica, Sur è un film più intimista e riflessivo, che racconta il ritorno – vissuto come un vero e proprio nostos – del protagonista alla propria dimora dopo cinque anni di prigionia. Un film plumbeo, fatto di notte, nebbia, rabbia e disillusione cadenzate dalle struggenti musiche di Astor Piazzolla (il famoso pezzo Vuelvo al Sur, colonna sonora del film, vede la collaborazione dello stesso Solanas nella composizione). Aldilà degli aspetti squisitamente filmici, il valore forse più importante delle due opere sta nella prossimità temporale agli eventi che raccontano. La dittatura finisce nel 1983 e sia Tangos che Sur sono stati girati immediatamente dopo, il che ci restituisce uno sguardo perfettamente in linea con il sentire del tempo, lucido e scevro di retorica. Come l’intellettuale argentino ha vissuto il periodo della dittatura, come si è sentito e quali erano le sue prospettive alla fine di quel periodo. In pratica, una testimonianza nella testimonianza. Entrambi commoventi e indispensabili per comprendere quel preciso momento storico.
E a proposito di testimonianze e comprensione, un documentario che tutti dovrebbero vedere è sicuramente Memoria del saqueo. Nel 2001 anche Solanas scende in piazza con la folla che, affamata, dà l’assalto a banche e supermercati a seguito del crack finanziario che ha appena ridotto il paese sul lastrico. Si mescola tra la gente con la sua telecamera e comincia a filmare cortei, facce, testimonianze e violenze. Queste riprese segneranno il suo ritorno dopo più di trent’anni al genere documentario poiché partirà da esse per poi realizzare, con Memoria del saqueo, un’analisi approfondita dei problemi economici dell’Argentina dalla fine della dittatura fino alla triste rivolta popolare. Il saqueo del titolo è il furto di speranza e denaro che Solanas, parlando di mafiocrazia, imputa principalmente alle politiche del presidente Carlos Menem e Fernando De La Rua. Il documentario non si ferma in piazza ma si addentra nei corridoi del potere e tenta di spiegare – riuscendoci – le dinamiche che avrebbero portato la situazione al collasso. Tra interviste, inchieste e immagini inquietanti girate tra le strade e il Palazzo. Memoria del saqueo non è soltanto un documentario sulle questioni economiche argentine, ma un’opera che aiuta a comprendere percorsi applicabili – sia dal punto di vista umano che socio-politico – a tante altre situazioni simili. Dall’abuso di potere alla sommossa popolare. Film tristemente visto tante altre volte.
C’è da dire che Solanas ha sempre lottato in tutti i modi contro le politiche del suo paese, a partire dalle continue e aspre critiche verso l’allora Presidente Carlos Menem e che, con tutta probabilità, gli costarono un attentato, il primo nell’Argentina democratica, il 22 maggio del 1991. Mentre si stava recando con un amico allo studio cinematografico di Olivos fu colpito da sette colpi di arma da fuoco. L’attentatore si diede subito alla fuga insieme a un compagno. Il regista riportò ferite a entrambi gli arti inferiori. L’attentato avvenne tre giorni dopo la pubblicazione sul quotidiano Página 12 di un lungo intervento del regista in cui puntava il dito contro la corruzione dello stesso presidente Menem e per il quale quest’ultimo lo aveva immediatamente denunciato con l’accusa di calunnia. Solanas ricorda di non aver realizzato che cosa stesse accadendo. L’aggressore, con il volto coperto, l’avrebbe avvicinato ripetendogli più volte Se non chiudi la bocca, la prossima pallottola sarà alla testa. Ricostruendo quei momenti, Solanas parlò di menemismo con la lettera maiuscola, dichiarando pubblicamente: “Ci sono mafia e violenza politica travestita, assassinii legati a traffico d’armi e corruzioni. Non ho dubbi che il mio attentato abbia avuto l’appoggio della polizia di Buenos Aires“.
Questo e molto altro è stato Fernando Pino Solanas, che con la sua dipartita ci lascia un po’ più poveri. E non è retorica dire che effettivamente con lui se ne va davvero un pezzo di storia, un pezzo di un mondo che non esiste più. Averlo conosciuto ed essere potuta stare a contatto con lui per molti giorni è stato un vero privilegio. Mi piace ricordarlo con questa intervista che gli ho fatto nell’ormai lontano inverno del 2004 (proprio in quell’anno aveva ricevuto l’Orso d’Oro alla carriera al Festival di Berlino) e che ho usato per la mia tesi di laurea dedicata alla sua opera. Abbiate misericordia per le domande forse un po’ sempliciotte. Ero molto giovane ed eravamo dalla Doretta a Tavernelle, davanti a un bicchiere di vino e alla sua proverbiale anatra in porchetta che anche il Maestro apprezzò oltremodo.
Cosa rappresenta per un regista sempre in prima linea un riconoscimento come l’Orso d’Oro alla carriera?
“Innanzitutto spero che non sia un punto di arrivo! La riconoscenza mi fa sempre molto piacere, avendo passato gran parte della mia carriera in solitudine. Voglio considerare questo premio come un contributo ai miei numerosi progetti futuri”.
Come è riuscito a conciliare la realizzazione di documentari con quella di film di finzione?
“Io sono un autodidatta. Il documentario è mostrare una parte della realtà. Anche i miei film di finzione sono una rappresentazione della realtà, quella che nasce nella testa dell’autore. Non vi trovo grande differenza se non nella lavorazione. Per un’artista è normale esprimersi in forme diverse, gli viene naturale”.
In Memoria del saqueo e ne La dignidad de los nadies vengono più volte fotografate le repressioni della polizia. Oggi secondo lei è migliorata la situazione?
“Le forze di polizia in Argentina sono un potere mafioso di circa 7.000 uomini che dalla dittatura non è cambiato. Nella provincia di Buenos Aires hanno appena approvato una legge che stabilisce l’elezione popolare dei commissari di polizia. È un segnale positivo, speriamo che serva davvero a fare mutare la situazione”.
Quando ha girato La hora de los hornos era molto giovane. Che aspettative nutriva per il futuro del suo paese, dopo aver denunciato tanti soprusi?
“Era la fine del 1967, eravamo pieni di passione, convinti di lottare per un paese migliore. Non avremmo mai immaginato quello che ci aspettava. Sull’onda del Maggio Francese avevamo un ottimismo e un fervore straordinario che non ho mai più riscontrato in me né in altri”.
Dove trova l’ispirazione per continuare a fare cinema dopo 40 anni di carriera?
“La maggior parte delle idee mi vengono mentre sto lavorando. Fare film è un’esperienza che mi cambia ogni volta. Far vivere l’immagine ti dà un senso di onnipotenza. Si sta un po’ in cielo un po’ in terra, e quando si sta per terra bisogna andare contro tutti, cosa che mi è ancora di enorme stimolo”.
Quando comincia le riprese di un nuovo film qual è lo scopo che si prefigge?
“Cerco di recuperare lo spazio e la voce di coloro che non possono esprimere il loro pensiero. I mezzi di comunicazione di massa annullano l’individuo e allora io cerco di recuperare con la maggior oggettività possibile questa essenza. Cerco di creare un ponte, di stabilire un rapporto con le persone, soprattutto quando mi serve materiale per i documentari. Devo ammettere di godere del vantaggio di essere molto conosciuto, allora uno mi dà fiducia perché conosce la mia storia. Sono stato tra i primi a opporsi a Menem nell’applicazione del piano neoliberale e ho subito nel 1991 un attentato che mi è costato sette pallottole nella gamba. Dopo sono rimasto solo perché tradito da questa forza di sinistra-centrosinistra che si è riversata nel centrodestra. Mi dicevano che ero matto però ora nel precipizio ci siamo finiti per davvero. Nel 1999 la crescita economica era pari a zero. Nel 2001, lo stesso. Il fatto che lo avessi previsto ha fatto però sì che le persone siano state disposte ad aprirmi le loro case e i loro cuori. Io sono uno di loro, uno in più. E con qualche strumento in più per dare loro voce”.
Doloroso, intenso e passionale. Proprio come un tango. Ciao Pino, ora nessun tango mai più ci piacerà.