Nata 40 anni fa nell’omonima tenuta sulle colline di Sansepolcro, Aboca è oggi un gruppo imprenditoriale che opera in numerosi Paesi del mondo unendo coltivazione biologica, ricerca scientifica, produzione e distribuzione nell’ambito dei dispositivi medici e degli integratori alimentari a base di complessi molecolari naturali. Della scelta di puntare su questo settore, del rapporto tra Aboca e territorio e delle sfide del prossimo futuro TeverePost ha parlato con il cavalier Valentino Mercati, fondatore dell’azienda.
Come è nata l’idea di dare vita ad Aboca?
Penso che prima di tutto sia nata dal magma del genius loci: non sono tante le cittadine così piccole che possono vantare una serie di personaggi come ha avuto Sansepolcro nei suoi mille anni di storia. E nell’ottica di un ampliamento dalla visione riduzionistica a una visione sistemica possiamo dire che sia nata da una proprietà emergente. Vuol dire che in quel momento c’era bisogno di una realtà che si rendesse conto di quella che era l’idea di progresso 40 anni fa, una visione stupida che segnava l’inizio dell’estinzione umana, mentre adesso siamo in una fase di decorso accelerato. In quel contesto la mia proposta fu quella di rendere questo territorio un punto di traghettamento per la sopravvivenza dell’umanità. Questo era il pensiero di 40 anni fa e lo è ancora oggi, adesso con evidenza estrema.
Quando decise di intraprendere questo percorso era solo o qualcuno intorno comprendeva questo punto di vista?
Ero completamente solo. All’epoca operavo già con successo nel settore automobilistico e anche a livello imprenditoriale ero assolutamente non capito. Ero visto come uno che aveva fatto i soldi e li voleva buttare alle ortiche, dato che per l’appunto coltivavo le ortiche. Poi ci sono state alcune persone, poche, che mi hanno aiutato. Che forse non capivano bene il progetto però ritenevano che fosse comunque un’evoluzione importante. Partiva in quel periodo tutto ciò che è legato alla biologia dei sistemi, si incominciava a prefigurare un diverso pensiero. La fine degli anni settanta era l’epoca dei movimenti verdi in Germania, si incominciava a parlare dei limiti del riduzionismo e si incominciava a parlare di biotech. Aboca nasce in questa scia di un’evoluzione della tecnologia in termini naturali. Quello che si può definire il mio coraggio è stato dimostrare queste idee a livello imprenditoriale. Cioè “voi lo dite, io lo faccio”.
Immaginava che l’azienda si sarebbe sviluppata come ha fatto?
Pensavo che sarebbe diventata ancora più grande e prima, ho sbagliato forse di 5 o 10 anni. Per me è facile definire cosa avverrà nel futuro, mentre l’arco temporale dipende da tante variabili esterne ed è un po’ più complicato. Secondo la mia ipotesi dell’epoca, Aboca adesso avrebbe dovuto fatturare quasi 2 miliardi, non 250 milioni. Il fatto è che mi trovo solo a dover affrontare certi temi. Prevale la non visione, prevale il qui e ora, la pancia piena. Non c’è più la voglia di sopravvivenza della specie.
Tuttavia oggi rispetto a 40 anni fa tutta una serie di temi ricevono maggiore attenzione.
Oggi molte persone comprano i prodotti Aboca pagandoli anche salati perché è una proposta che condividono. Quelle che dico sono cose che 40 anni fa potevano essere pesanti e non capite, oggi sono più che condivise. Una volta capiva Aboca solo chi aveva un istinto residuo, adesso lo capiscono anche le persone avvertite, perché ne hanno bisogno. Specialmente nel campo delle malattie nel quale io lavoro. Le punte di diamante della ricerca scientifica a livello di medicina si rivolgono a noi perché hanno bisogno di un pensiero diverso.
Quali sono secondo lei gli elementi più importanti nello sviluppo della sua azienda?
Il primo è il rigore intellettuale, il secondo è la decisione nell’arrivare all’obiettivo e il terzo è la condivisione. Questo è sempre stato il mio mantra di imprenditore, la condivisione. Senza condivisione oggi l’azienda può autodistruggersi. Se lavora sul sociale, condividendo, allora ha successo, se invece lavora solo per accumulare soldi avrà un percorso di successo ma solo momentaneo, e dopo crollerà. La condivisione è la prima regola del successo.
Ci sono stati momenti difficili o scelte che non rifarebbe?
Penso di no, tornando indietro farei tutto quello che ho fatto fino adesso, senza se e senza ma. Momenti difficili ci sono stati ma in realtà per certi passaggi potevano essere previste difficoltà ancora maggiori. Comunque sono uno che, fermo restando l’obiettivo, se trova la via sbarrata sa cambiare strada e ne trova una magari più lunga ma che permette di arrivare. Questo fa parte del mio essere imprenditore.
Cosa significa gestire un’azienda di queste dimensioni a livello familiare?
Tutte le aziende, come qualunque organismo, hanno bisogno di una rete che gli consenta di operare e in ogni rete c’è tutta una serie di organi decisionali. Adesso, con la prima generazione che sono i miei figli, la famiglia è perfettamente in condizione di gestire Aboca. Poi vedremo, parleranno i miei figli fra 30 anni quando avremo la seconda generazione, ma in quel momento l’azienda sarà pronta ad andare in borsa, a diventare un’azienda non più familiare ma di capitale. Comunque finché c’è una dinastia familiare con dei valori io mi auguro che funzioni, perché non è che ci sia tanto di meglio della famiglia nel mondo del capitalismo. Se c’è una realtà che riesce a guardare al futuro e non all’immediato, che non punti ad arricchirsi subito, quella è la famiglia, perché pensa a tramandare i valori della società anche alla discendenza. Quindi il modello capitalistico familiare in teoria è quello più valido, intendendo per validità il fatto che un’azienda non sia una meteora ma percorra dei tratti più lunghi possibili.
Quali sono le principali sfide a cui è chiamata Aboca nel prossimo futuro?
Uno degli obiettivi che abbiamo è quello di trovare una condivisione su quello che proponiamo, alzando sempre di più l’asticella. Specificamente a livello farmaceutico puntiamo a un nuovo modo di curare: riuscire cioè a portare sempre più nel modo in cui ci curiamo una visione di quello che è il vivente piuttosto che scegliere l’intelligenza artificiale. Scommettiamo di essere capaci di traghettare verso il futuro almeno una parte dell’homo sapiens. Perché le alternative sono due, o si rimane, per una parte, homo sapiens o l’uomo diventa intelligenza artificiale.
Infine, qual è il rapporto dell’azienda con il nostro territorio?
Noi qui dentro ci siamo, però tutto dipende dalla sintonia con cui ci rapportiamo con il resto della società. In tanti luoghi a livello internazionale ci fanno ponti d’oro mentre qui, specialmente negli ultimi tempi, sentiamo che la comunità ci vive più come una “mucca da mungere” che come un’opportunità di crescita. Quello tra una grande azienda e il territorio è un discorso di coabitazione che può dare delle problematiche, può non dare i frutti che potrebbe dare, si possono creare elementi di rottura.