Nel primo fine settimana di gennaio del 2015 mi trovo a Kiev assieme all’anghiarese Andrea Gnaldi. Siamo in Ucraina per un drive test invernale, ma il passaggio dalla capitale non è affatto casuale. Già in viaggi precedenti, soprattutto d’estate, avevamo in programma di visitare l’area del disastro di Černobyl’, ma la difficoltà a trovare un posto libero per aderire a un tour organizzato si rivelava sempre un’impresa complessa. D’inverno la storia è completamente diversa e la minore presenza di turisti dovuti al clima proibitivo, assieme alle problematiche geopolitiche che caratterizzano il periodo in Ucraina, facilita la possibilità di unirsi ad un gruppo. Non c’è alternativa alla visita organizzata da particolari agenzie turistiche, anche per il necessario bisogno di permessi speciali per potersi avvicinare all’area. Una ventina di giorni prima inviamo per mail tutto il necessario per superare le difficoltà burocratiche, oltre al pagamento di circa cento dollari a testa comprensivi di viaggio, permessi, guida, assistenza, assicurazione e pranzo, quest’ultimo rigorosamente con prodotti non locali.
Verso la zona di alienazione
Eravamo preparati a vivere l’insolita avventura del primo fine settimana dell’anno con temperature polari ed invece possiamo dirci fortunati, dato che la nevicata di giornata è accompagnata da temperature poco sotto lo zero. In qualche momento le bianche nubi lasciano spazio anche al cielo. Se la nostra destinazione è un luogo sicuramente noto in tutto il mondo, simile popolarità è goduta anche da Piazza Majdan, dove abbiamo appuntamento con la nostra guida e il pulmino con cui faremo il viaggio. L’inverno e la guerra che coinvolge parte dell’Ucraina spiegano perché oltre ad Andrea e me, della comitiva fanno parte solamente tre tedeschi, due olandesi, uno svedese e tre ucraini. Tra quest’ultimi l’autista, la guida e la fidanzata di uno degli olandesi. Come dicevamo guerra e inverno non rendono appetibile questo tipo di escursione, ma allo stesso tempo la svalutazione della grivnia, la moneta locale, permette di risparmiare su alloggi e pasti. Grazie alla crisi economica e di turisti, di questi tempi andare a Černobyl’ costa la metà rispetto all’estate dell’anno precedente. Una volta saldato in contanti il prezzo concordato – la caparra pagata online ammontava a circa la metà del costo – si lascia Kiev percorrendo la strada che risale il fiume Dnepr. La cittadina di Dytjatky, situata a poco più di cento chilometri da Kiev, è la porta della Zona di alienazione, un’area creata con il compasso, a trenta chilometri dal reattore 4 della centrale nucleare. Durante il viaggio abbiamo il piacere di guardare dei documentari in lingua inglese su tutto ciò che avvenne il 26 aprile del 1986 e nei giorni successivi. Vista l’epoca non possono mancare anche video di propaganda nazionalista ucraina e anti-russa. Interessante, sempre grazie agli schermi del nostro piccolo autobus, scoprire quanti videoclip musicali sono stati girati dentro quest’area e in particolar modo nella città fantasma di Pripjat’, a due chilometri dal reattore. Il punto di controllo di Dytjatky è del tutto simile ad una stazione di frontiera. Ognuno mostra il proprio passaporto mentre il permesso speciale per poter entrare nella zona interdetta, richiesto dieci giorni prima della visita, è in mano alla nostra guida. Ormai visitare Černobyl’ è diventato un piccolo business ed è veramente improbabile che davanti al pagamento della tassa di ingresso possa esserci la sorpresa di un diniego del passaggio. Con una firma già raccolta dall’agenzia ci siamo assunti la responsabilità di quello che andremo a fare. Le raccomandazioni prima di partire prevedevano di portarsi dietro acqua a sufficienza ed evitare pantaloni o magliette a maniche corte, per ridurre le parti del corpo esposte alle radiazioni. D’altra parte in inverno raramente ci si veste leggeri, anche lontano da qui. Infine più volte ci viene ribadito che appropriarsi di qualsiasi cosa che incontriamo, anche una vite o un sassolino, è considerato un reato penale.
Welcome to the USSR
Il posto di controllo di Dytjatky è come una macchina del tempo. Oltre la sbarra si entra in un mondo quasi del tutto fermo al 1986. La cartellonistica stradale non è quella che si vede nelle strade ucraine, ma quella di epoca sovietica. Non ci sono le immancabili pubblicità lungo la strada e anche la toponomastica è quella risalente a prima del 1991. Pochi sanno che Černobyl’ non è il luogo dove si trova la centrale nucleare, ma essendo un antico insediamento e capoluogo della regione ha legato il suo nome alla stazione atomica. La cittadina nasceva oltre ottocento anni fa, mentre Pripjat’, fondata assieme alla centrale per ospitare i lavoratori, risale al 1970. Contrariamente al resto dell’Ucraina, qui si può ammirare una statua di Lenin e una strada a lui dedicata. Oltre al padre della rivoluzione ci sono viali o stradine che portano il nome di Marx, Kirov o dell’Internazionale. Attorno alle strade prevale l’abbandono, in alcuni casi la vegetazione è riuscita a penetrare all’interno delle izbe in legno. Alcune sono tornate ad essere abitate, dato che il livello di radiazioni a Černobyl’ è ormai lo stesso di Kiev, di Roma o di New York. Ulteriore conferma di questo è nei nostri piccoli contatori geiger affittati per tutta la giornata per la bellezza di dieci dollari. In una delle case di legno, meno fatiscente di altre, c’è un cartello che dice che la casa è abitata, probabilmente per dirottare i curiosi verso quelle abbandonate. Oltre a qualche sporadico abitante tornato di recente, a Černobyl’ ci sono uffici pubblici e alcuni servizi. Nella breve visita alla città abbiamo modo di vedere il parco dedicato ai nomi dei paesi e villaggi abbandonati nell’86 e che oggi si trovano in Ucraina o nella vicina Bielorussia. Qui c’è la caserma, ancora in servizio, dei primi vigili del fuoco che si attivarono in quella terribile notte. Di fronte alla base dei pompieri un monumento ricorda quanti hanno perso la vita nelle settimane successive all’esposizione delle radiazioni. I mezzi militari dell’epoca, parcheggiati nei pressi, attivano i nostri contatori, segnale che ancora oggi hanno un livello di radiazioni sopra quello considerato normale.
L’antenna Duga-3
Tra Černobyl’ e Pripjat’ c’è un altro luogo di forte interesse, protagonista anche di qualche teoria della cospirazione. All’interno di una base militare di epoca sovietica immersa nella vegetazione, anch’essa ferma nel tempo, tenuto conto delle stelle rosse e dei murales a tema rivoluzionario, c’è un enorme ammasso di ferro che un tempo era un’antenna funzionante. Alta 150 metri e larga 400, la stazione di ascolto Duga-3 è figlia della guerra fredda. Doveva servire ad ascoltare tutto quello che passava nell’etere dell’Europa centrale ed in particolare intercettare ordini di lancio di ordigni nucleari verso l’Unione Sovietica. A causa del completamento dell’opera quando la tecnologia era già superata, non entrò mai in funzione come stazione di ascolto. Il segnale che emetteva, simile al battito di un picchio, era però in grado di essere ascoltato in molte parti del mondo oltre che a disturbare stazioni radio e televisive. Un’ipotesi poco accreditata è che la presenza di questa antenna abbia a che fare in qualche modo con il disastro nucleare. Altre dicerie sono legate al fatto che i sovietici volessero manipolare le menti attraverso il segnale radio di Duga-3. Mentre attraversiamo svariati chilometri di foresta la guida ci spiega che l’assenza di attività umane ha permesso il proliferare di una ricchissima selvaggina. In questa specie di parco naturale non ci sono creature mutanti come a volte viene raccontato, ma solo animali di grossa taglia, proprio per l’abbondanza di cibo a disposizione.
Il reattore numero 4
A dieci chilometri dalla centrale nucleare, nel paesino di Leliv, c’è l’ultimo posto di blocco situato al limite di un cerchio con il raggio di dieci chilometri. Da qui in poi non è permesso tornare nelle proprie case e quindi si entra nella vera zona completamente disabitata. A due chilometri dai reattori si torna a superare, seppure di poco, il limite considerato normale di radiazioni presenti attorno a noi. Questo non avviene nella strada asfaltata ma quando ci si avventura in campi o giardini. Siamo a Kopači, dove visitiamo velocemente un’ex scuola materna. Tutto è rimasto come il giorno dell’evacuazione con libri e giochi abbandonati su scaffali, letti o pavimento. Non mancano i manifesti di propaganda dell’epoca.
Siamo ormai alla centrale e come prima cosa incontriamo i reattori 5 e 6 che non sono mai stati completati dopo l’incidente. Il familiare sarcofago di cemento avvolge il reattore numero 4 e lo rende molto diverso dal vicino 3 e dall’1 e il 2, che sono rimasti attivi fino al 2000, quando sono cominciate le azioni di spegnimento dell’intera centrale nucleare. Il sarcofago è a circa duecento metri da noi e lo possiamo osservare dal monumento dedicato ai circa 600.000 liquidatori che dall’intero Paese vennero qui ad effettuare turni di cinque minuti per domare l’incendio ed edificare la gabbia di cemento che vediamo. Ogni città sovietica ha un monumento ai propri liquidatori, perché coloro che morirono o si ammalarono in seguito alla loro eroica azione furono molti. Le cifre sono radicalmente differenti a seconda delle fonti consultabili, da 4.000 a 160.000. Pur essendo esposti a radiazioni superiori alla norma, ci viene spiegato che si rischiano problemi di salute solo superando un certo tempo di esposizione. Se all’epoca erano pochi minuti, oggi si parla di molte ore o addirittura giorni. Vediamo inoltre un nuovo grandissimo sarcofago in costruzione a debita distanza dal vecchio, per la sicurezza degli operai, che dopo la nostra visita sarebbe stato completato e collocato in posizione attraverso enormi binari.
Pripjat’, la città modello
Le città costruite a servizio delle infrastrutture nucleari erano concepite come città modello dotate del massimo comfort, con gli abitanti che godevano di buoni stipendi e servizi di livello superiore alle altre città sovietiche. Il lavoro era pericoloso e servivano incentivi importanti perché la popolazione accettasse volentieri di correre qualche rischio. Pripjat’ era una di queste città, con un tenore di vita molto buono. I filmati dell’epoca la mostrano come una città ideale. Dopo un ennesimo posto di controllo entriamo in quello che resta oggi di questa città. Attorno solo filo spinato per impedire a sciacalli, vandali, ladri o semplici animali di entrare in città. Viale Lenin è diventato un sentiero occupato dalla vegetazione. Nei pressi della piazza principale siamo costretti a lasciare il nostro bus e proseguire a piedi. Condomini di quindici piani, enormi palazzi pubblici, scuole, impianti sportivi e un luna park permanente sono le principali attrazioni. La piazza è dominata da un’enorme falce e martello su un palazzo, forse amministrativo, che assieme al centro culturale e all’ex hotel Polissja cingono tre dei quattro lati dello spazio aperto. Gli alberi un tempo decorativi al centro della piazza hanno preso più spazio del previsto. Dalle finestre del centro culturale si riescono a vedere vecchi ritratti di membri della dirigenza politica dell’epoca. A pochi metri c’è anche lo spettrale luna park immortalato in molte delle fotografie di chi come noi fa questo strano tipo di visita. Abbiamo modo di visitare la piscina pubblica e una scuola con annessa palestra. Nella scuola sono presenti le aule dedicate ognuna alla propria materia. Non manca il deposito delle maschere antigas pronte da usare in caso di scoppio di una guerra. Tutto è fermo al 1986 tranne per alcuni bellissimi murales che compaiono in più angoli della città.
Ancora più degli spazi pubblici è inquietante visitare i condomini di epoca sovietica. Negli appartamenti si trova ancora di tutto e ci colpisce la presenza di un pianoforte. È percepibile a distanza di trent’anni come la città sia stata evacuata in qualche ora garantendo agli abitanti che sarebbero tornati dopo poco tempo. Per salire sugli autobus ognuno dei trentamila abitanti portò con se pochi beni personali, idem altre quasi centomila persone nel resto della regione. Proprio il fatto che gli appartamenti e le scuole sembrano luoghi frequentati fino a poco tempo prima rende Pripjat’ un luogo davvero spettrale. Dal tetto di uno dei palazzoni più alti, dove siamo saliti senza ascensore, si riesce a vedere bene tutta la città e la vicinanza dal reattore 4. Riscendendo le scale osserviamo ancora una volta qualche appartamento dove sono rimasti ricordi di chi lo abitava. Fotografie, lettere, carta da parati personalizzata, vestiti, disegni e i giocattoli della cameretta di bambini che non sono mai più tornati a Pripjat’. Molte di queste famiglie sono state momentaneamente allontanate dalla città per poi essere di nuovo trasferite a Slavutyč, una città nuova dove vivono molti di coloro che lavoravano alla centrale. Ci viene detto che gli abitanti di Slavutyč hanno il tasso di tumore alla tiroide più alto dell’Ucraina, ma allo stesso tempo che le donne di questa città sono quelle con il più alto numero di figli dell’intero Paese. Non è chiaro se quest’ultimo dato dipende dal relativo benessere di cui queste famiglie oggi godono rispetto ad altre città ucraine o se l’esposizione alle radiazioni abbia incrementato il tasso di fertilità. I nostri contatori geiger raccontano che nelle case o sulle strade dove resiste l’asfalto non ci sono livelli di radiazioni preoccupanti. Questo perché la città fu decontaminata con agenti chimici che hanno ottenuto qualche parziale risultato. Se ci si avvicina ad un’aiuola o ai giardini il bip bip si fa sempre più frenetico. All’uscita da Pripjat’ siamo coinvolti in un esperimento a nostra insaputa quando attraversiamo la cosiddetta Foresta Rossa. Qui cadde il “tappo” del reattore riversando un importante quantitativo di materiale nucleare. Il bosco prende il nome dal fatto che a metà degli anni novanta le foglie degli alberi assunsero il colore rosso. Il passaggio in bus dura meno di quindici secondi ma il suono frenetico di tutti i contatori contemporaneamente ci fa percepire come ancora oggi e per altri ventimila anni quest’area continuerà a riservare importanti anomalie. Situazione e tempistiche simili valgono per tutto ciò che è ancora sotto i due sarcofaghi del reattore.
Il test della radioattività
Compreso nel “pacchetto turistico” c’è anche il pranzo a Černobyl’ in una stolòvaja (mensa) di epoca sovietica. In realtà si tratta di una ricostruzione ad uso dei turisti e dei pochi lavoratori che periodicamente sono presenti nella cittadina e anche il pranzo, vista l’ora, è di fatto una grande merenda. Tutto è molto curato, dal cibo della tradizione culinaria russo-ucraina alle bevande disponibili prima degli anni ’90. Più di una volta la nostra guida si diverte a ripeterci che qui nulla è a chilometro zero dato che, seppure meno di un tempo, i terreni coltivabili continuano ad essere contaminati. Prima e subito dopo il nutriente pasto siamo sottoposti nei punti di controllo di Leliv e Dytjatky a quella che si prefigura come un’ennesima emozione. Prima il controllo delle radiazioni beta che in caso di dati anomali potrebbe costringere qualcuno di noi ad effettuare una poco gradevole doccia chimica e nei casi più gravi essere isolati in una specie di quarantena. Nel secondo e ultimo posto di controllo l’esame si rileva più complicato e le procedure molto attente. Passiamo all’interno di strani macchinari che anche in questo caso ci danno il via libera. Sembra che negli ultimi dieci anni ad un solo sfortunato turista sia toccato l’onore di passare qualche giorno in isolamento per aver assorbito un quantitativo di radiazioni sopra la norma. Nell’ora e mezza di viaggio per rientrare a Kiev ci viene fatta una piccola sorpresa. I nostri contatori geiger hanno registrato il quantitativo di radiazioni che abbiamo assorbito durante l’intera giornata e li possiamo comparare con attività della vita quotidiana che causano lo stesso assorbimento. Sugli schermi del bus appaiono una serie di tabelle comparative. Nel nostro caso scopriamo che le radiazioni accumulate in circa dieci ore di gita sono poco inferiori a quelle che avremmo assorbito in un volo aereo da Kiev a Toronto.