Monsignor Giancarlo Rapaccini, valdarnese, 74 anni, è dal 2014 il parroco della Concattedrale di Sansepolcro. In precedenza, in quasi mezzo secolo di sacerdozio, era stato 20 anni a San Giovanni Valdarno, 13 ad Arezzo come rettore del seminario vescovile e altri 8 a Cortona. Nei giorni scorsi, nei locali dell’ufficio parrocchiale del Duomo, abbiamo affrontato con lui una conversazione che ha messo al centro il tema della povertà: “Ancor prima del problema economico esiste un problema di inclusione”, ha fatto presente in primo luogo, con riferimento sia a “quelle persone che sono venute in Italia perché al loro Paese non avevano alcuna prospettiva futura”, sia a gente del posto “che per varie circostanze si è trovata a vivere momenti estremamente difficili”.
Tra queste persone “alcune si sentono nessuno, si sentono anzi guardate con sospetto e con rabbia se vanno a chiedere un lavoro, oppure quando devono affrontare la burocrazia. Alla fine si scoraggiano”. Ecco quindi che “uno dei primi compiti della carità non è tanto quello di frugarsi in tasca, ma quello di accogliere la persona che viene, farla esprimere. Da lì nasce un’empatia, e quando cogli la difficoltà o la solitudine della persona che ti viene a cercare poi sei disposto a tutto, l’aiuto diventa una conseguenza diretta. Spesso siamo diffidenti verso le persone perché non le conosciamo”.
Monsignor Rapaccini ha ricordato anche che “i poveri Gesù li chiama beati, perché Dio guarda soprattutto alle persone più bisognose, le ama intensamente e le mette al primo posto: noi cristiani dovremmo fare così”. I poveri “ci aiutano a entrare in quella dimensione più vera dell’uomo che è la sofferenza, la solitudine. Noi pensiamo all’uomo fortunato, a chi sta bene, è bello, efficiente e ha successo, ma spesso in quella persona c’è vuoto e inconsistenza. D’altra parte – ha commentato Don Giancarlo – non sono i poveri che creano delle difficoltà, tante volte sono proprio i ricchi, tutti presi dai loro guadagni e dai loro interessi, che non sanno vedere il bisogno che c’è nell’altro. Il povero è benedetto da Dio perché sprona il ricco ad aprire il proprio cuore: nella condivisione dei beni anche il ricco si sente contento. Magari è stato fortunato, oppure è stato anche capace con la sua intelligenza, con il suo lavoro, con il suo sacrificio a realizzare a qualcosa di significativo dal punto di vista economico. Ma se i beni non vengono redistribuiti siamo destinati alla sofferenza sociale e alle guerre, che nascono dalle ingiustizie e dalle manie di potenza e di predominio”.
Tra i problemi materiali delle persone bisognose nel nostro territorio, don Giancarlo ha messo al primo posto la carenza di abitazioni: “Qui c’è un gran bisogno di case”, ha detto. “Chi l’ha presa era in condizioni di emergenza e paga affitti esorbitanti, oppure c’è chi vive in dei tuguri, ed è comunque fortunato perché case non si trovano. Questa è una cosa a cui i nostri amministratori dovrebbero pensare, perché ci sono le case popolari ma sono limitate. Si potrebbe almeno facilitare la possibilità di mettere a posto e in regola gli appartamenti per poterli affittare a una cifra compatibile con quello che queste persone guadagnano”. C’è poi il problema dell’assenza di lavoro, con l’unica categoria di fatto richiesta che è quella delle badanti. Ma anche in questo caso non è tutto semplice: “Molti vogliono la badante a 24 ore – puntualizza monsignor Rapaccini – e se una è libera va bene, ma chi ha bambini come fa?”
Un altro tema è quello alimentare, rispetto al quale don Giancarlo ha ricordato il grande impegno della Caritas, con la distribuzione di 160-170 pacchi settimanali alle famiglie. Accanto a questo è sorta anche la necessità di aiutare “persone che alla Caritas non sarebbero andate perché si vergognavano”. Da qui la nascita di un fondo di solidarietà grazie al quale, spiega il parroco, “riusciamo a venire incontro a famiglie che hanno un reale bisogno e che quando escono di qui sono rasserenate, potendo sopperire alle loro necessità. Soprattutto ci rivolgiamo a famiglie con bambini, perché i bambini non devono soffrire le ingiustizie dei grandi”. Questo fondo è stato reso possibile anche con l’aiuto di “persone di Sansepolcro che hanno accolto la proposta e sono state generosissime”. Del resto “a volte siamo un po’ sfiduciati nei confronti della nostra gente, a volte sentiamo persone al bar che maledicono gli altri, gli stranieri, ma quando uno parla a voce alta c’è qualche problema. Invece c’è tutto un mondo silenzioso che non si esprime ma che è molto solidale. Dovremmo avere più coraggio nell’invitare le persone ad essere generose, solidali, aperte, disponibili. Io ho avuto tante tante prove di questa solidarietà presente nell’animo di coloro che ho incontrato”.
“I poveri li avrete sempre con voi”, ha detto ancora don Giancarlo citando Gesù. “Non ci illudiamo di risolvere il problema dei poveri. Però bisogna darsi da fare perché la vita di questa gente sia vissuta in maniera più dignitosa, attraverso l’intervento prima di tutto delle istituzioni, quindi la Chiesa ma anche le istituzioni civili”. E con loro le forze dell’ordine, a cui è richiesto un approccio “attento anche umanamente”. Il tutto per arrivare a “una società che permetta alle persone di vivere insieme, di confrontarsi, di aiutarsi vicendevolmente”. Una società dell’accoglienza che metta da parte i pregiudizi e si impegni anche nel “mettere chi viene nelle condizioni di inserirsi nella nostra realtà”, ad esempio attraverso corsi di lingue: “Imparare la lingua significa comprendere, interagire, fare delle amicizie. Questo vuol dire inclusione”.
Don Giancarlo ha sottolineato inoltre l’esistenza di un “pregiudizio religioso: sembra che gli stranieri vogliano sopprimere la nostra religione, ma non è mica vero, e lo so perché sono amico di tanti musulmani con cui si è stabilito un rapporto di ascolto reciproco. A volte si dice Niente moschee!, eppure noi cattolici quando siamo andati nei loro Paesi abbiamo costruito le nostre chiese”. Monsignor Rapaccini ha qui ricordato la propria esperienza in Costa d’Avorio negli anni ottanta, sia nella popolosa Abidjan che in un villaggio dove “la piccola comunità cristiana aveva bisogno di un luogo dove potersi esprimere nella fede, ed ha avuto a disposizione una vecchia scuola risistemata come piccola chiesa, in cui ritrovarsi per la messa o per incontri di catechesi e di preghiera”. In Africa “ho capito tante cose – ha detto ancora don Giancarlo – come lo sfruttamento del mondo occidentale nei confronti di queste popolazioni”.
Tra le esperienze all’estero anche quella in Albania nei primi anni novanta, con la creazione di un centro giovanile: “C’erano tanti ragazzi e volevamo aiutarli a stare insieme. Questo progetto partito senza niente è ancora attivo, aiutato dalla Provvidenza. Perché la Provvidenza c’è eccome”, ha puntualizzato il parroco del Duomo, ricordando che “tante volte ho dato dei soldi, somme importanti, e mi sono ritornate quasi nella medesima giornata. Questo mi ha sempre incoraggiato a non aver paura. Bisogna vivere fiduciosi nel Signore e non chiuderci nell’egoismo o in paure grette, come se mancasse il respiro o la terra sotto i piedi. Dobbiamo esprimerci con i gesti dell’amore, altrimenti la nostra vita diventa insignificante. Quanta gente muore nella solitudine perché non ha mai fatto niente per gli altri? Alla fine le ricchezze non ti riempiono”.
“Siamo dentro una problematica molto seria e molto drammatica – è stata la considerazione finale – e non possiamo chiudere gli occhi di fronte a questo mondo. Allo stesso tempo dobbiamo aprirli nel modo giusto, non volendo sopprimere o maledire gli altri, ma cercando di leggere nel cuore delle persone. Ne va di mezzo anche l’equilibrio di una città, la sua armonia. Quando una città è accogliente è una città serena. L’accoglienza è ciò che ti permette di essere fiducioso, di non aver paura, perché sai che la gente ti vuole bene e che nei limiti del possibile ti dà anche una mano. Questo è il messaggio che dovremmo dare”.