Trent’anni fa la fine dell’Urss. Parte 3: dalla nascita della CSI alla crisi costituzionale russa

Su Oltre il Tevere una ricostruzione storica in tre puntate dei fatti che portarono alla fine di uno Stato che ha rappresentato un punto di riferimento per una larga parte della popolazione mondiale

La Casa Bianca di Mosca, sede di sanguinosi scontri durante la crisi costituzionale del 1993

Nel tardo pomeriggio della giornata di Natale di 30 anni fa, Michail Gorbačëv formalizzava le sue dimissioni da presidente e la fine di oltre settanta anni di storia dell’Unione Sovietica. Neppure mezz’ora dopo la fine di una diretta televisiva vista in quasi tutto il pianeta, la bandiera rossa veniva ammainata dal pennone del Cremlino e subito sostituita dal tricolore russo. L’evento non era inaspettato e segnali inequivocabili erano arrivati negli ultimi mesi, culminati durante dicembre con una serie di decisioni assunte senza consultare la popolazione. Il Soviet Supremo dell’Urss prese atto dell’accaduto la mattina successiva e avallò la nascita della Comunità degli Stati indipendenti, l’organismo che avrebbe dovuto coordinare il percorso di separazione delle dodici repubbliche ancora facenti parte dell’Unione Sovietica. I tre Paesi baltici erano invece già indipendenti da settembre.

Leggi anche: Parte 1 – Dalla perestrojka al referendum;
Parte 2 – Dal golpe di agosto alle dimissioni di Gorbačëv.

Gli ultimi atti formali

Giovedì 26 dicembre si riunì per l’ultima volta il Soviet Supremo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Lo presiedette il kazako Anuarbek Alimžanov. La versione ridotta del Congresso del Popolo si occupò di compiere gli ultimi passi formali della soppressione dell’Urss. Le deliberazioni di quella giornata furono essenzialmente una serie di atti di dissolvimento del sistema statale sovietico come lo smantellamento del sistema giudiziario in parte soppresso ed in parte trasferito alla Russia, la cessazione delle cariche all’interno della banca di stato sovietica e il trasferimento dei poteri militari del Presidente dell’Urss a quello russo.

Come primo atto della seduta il Soviet adottò una dichiarazione che di fatto è il proprio testamento. Facendo riferimento alle deliberazioni degli organi statali delle undici Repubbliche sovietiche presenti ad Alma-Ata prese atto della nascita della Comunità degli Stati Indipendenti e della cessazione dell’esistenza dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Successivamente raccomandò ai capi di Stato di mantenere un organo parlamentare sovranazionale per continuare a gestire in modo comune un unico spazio giuridico, economico, umanitario e ambientale, di rispettare i patti internazionali sottoscritti dall’Urss ed infine di impegnarsi a rispettare le libertà e i diritti dei cittadini ex sovietici.

I presidenti di Ucraina, Kazakistan, Russia e Bielorussia Kravčuk, Nazarbaev, El’cin e Šuškevič dopo la firma degli accordi di Alma-Ata. Archivio RIA Novosti, #41059 / Dmitrij Donskoj (CC-BY-SA 3.0)

L’ultimo atto di un organo statale sovietico furono le poche righe dell’ultimo verbale del Soviet Supremo dove veniva garantito un rimborso economico a coloro che si erano già abbonati per l’annata 1992 all’equivalente della Gazzetta Ufficiale italiana dove poter leggere gli atti adottati dal Soviet. I deputati furono formalmente liberi da incarichi il 2 gennaio 1992. La Russia, in base anche a quanto stabilito ad Alma-Ata il 21 dicembre, prendeva il posto dell’Unione Sovietica nell’Organizzazione della Nazioni Unite e soprattutto nel Consiglio di Sicurezza, dove manteneva il seggio permanente e il diritto di veto.

Da notare che il Soviet Supremo dell’Urss nella propria deliberazione del 26 dicembre affermò che gli organi deliberativi di tutte le undici Repubbliche firmatarie dei protocolli di Alma-Ata avevano espresso parere positivo relativamente alla istituzione della CSI quando in realtà alcune a quell’epoca non avevano ancora deliberato.

Il controllo dell’arsenale nucleare

Al momento della fine dell’Unione Sovietica erano sparse nel suo territorio circa 30.000 testate nucleari, molte delle quali presto sarebbero state obsolete. Dopo il 26 dicembre la maggior parte delle bombe atomiche erano stipate in Russia, alcune migliaia in Ucraina, oltre mille in Kazakistan e qualche centinaio in Bielorussia. Già il 30 dicembre 1991, durante il primo incontro tra capi di Stato e di governo della Comunità degli Stati Indipendenti, venne stabilito un comando militare unico che avrebbe operato provvisoriamente con la conseguenza che il presidente della Russia sarebbe stato responsabile della gestione dell’eventuale ordine di attacco nucleare. Stati Uniti e Paesi dell’Europa occidentale fecero pressioni perché tutto l’arsenale finisse sotto il controllo di un unico stato. Se Bielorussia e Kazakistan avevano già manifestato l’intenzione di disfarsi di un complicato fardello costituito anche da enormi costi di manutenzione, più difficile fu far cedere l’Ucraina dai propositi di diventare una potenza nucleare. Se Minsk e Alma-Ata erano già denuclearizzate un anno dopo la propria indipendenza, il braccio di ferro con Kiev durò fino al 1996 e passò dalla minaccia di sanzioni degli Stati Uniti, trasformata in ricompensa economica per il disarmo. Si arrivò al Memorandum di Budapest del dicembre 1994 dove Russia, Usa e Gran Bretagna si impegnarono sulla sicurezza e integrità territoriale dell’Ucraina in cambio della rinuncia al controllo del proprio arsenale nucleare. La Comunità degli Stati Indipendenti mantenne un unico comando militare solo per un anno e mezzo dalla fine dell’Unione Sovietica. Il lavoro di chi doveva cercare di mantenere una struttura militare unitaria tra gli Stati membri di fatto fu quello di stabilire come dividersi l’enorme patrimonio militare.

La Comunità degli Stati Indipendenti

Dopo gli eventi di Belaveža e Alma-Ata, le successive dimissioni di Gorbacëv e lo scioglimento formale dell’Urss non restava che far iniziare i lavori della CSI per cominciare a gestire quello che restava del patrimonio comune. Già il 30 dicembre 1991 si tenne la prima riunione a Minsk dove nacque il Consiglio dei presidenti e primi ministri della Comunità, con sede principale proprio la capitale bielorussa. Successivamente prese vita anche un’assemblea interparlamentare con sede a San Pietroburgo con il compito di cercare di armonizzare i provvedimenti legislativi dei singoli Stati. La gestione comune delle forze armate e delle frontiere restò in piedi il tempo necessario per la divisione dell’esercito e degli armamenti. Dal punto di vista sportivo la CSI partecipò ai campionati europei di calcio del 1992 e alle Olimpiadi invernali ed estive dello stesso anno per l’impossibilità di allestire le federazioni indipendenti di ogni singolo Stato. Già nell’anno successivo ogni nazione si era dotata di federazioni e campionati di ogni disciplina sportiva.

Il Palazzo della Tauride di San Pietroburgo, sede dell’assemblea interparlamentare della CSI. A. Savin, WikiCommons (CC BY-SA 3.0)

La CSI in realtà non ha esercitato un ruolo fondamentale nei processi successivi allo scioglimento dell’Unione Sovietica e la creazione di unioni doganali o spazi economici è stata il risultato di contrattazioni di singoli Stati piuttosto che il frutto di politiche comuni stabilite nelle sessioni di lavoro degli organismi collegiali. La presenza di nazioni che hanno scelto di prendere le distanze dall’esperienza unitaria precedente o comunque dalla Russia e di altre che vorrebbero ristabilire spazi di sovranità comune non agevola la capacità della CSI di proporsi come un soggetto protagonista.

Le difficoltà della Russia nel biennio 1992-1993

Una volta legittimato come presidente di uno Stato sovrano, Boris El’cin diede una forte accelerazione alle politiche di riforma economica. Ben presto si trovò in una condizione simile a quella vissuta da Gorbacëv dato che il Soviet Supremo della Russia non era sempre in linea con il presidente e il governo russo. La liberalizzazione completa dell’economia creò una forte inflazione penalizzando tutti coloro che avevano ancora un lavoro con stipendio fisso. Molte aziende impossibilitate a riformarsi chiusero e molte persone rimasero senza lavoro. Due indicatori di cosa successe dal punto di vista sociale nel primo decennio di indipendenza della Russia furono la speranza di vita scesa di circa dieci anni e il numero di aborti che superò in più di un’annata il numero dei nati. Il sistema produttivo era stato pensato per lo stato sovietico che era molto più popoloso e non si riuscì a riconvertirlo in modo rapido alla nuova situazione. Contemporaneamente si sviluppò un enorme mercato nero, dove si trovava tutto ciò che mancava, con prezzi alle stelle. Così diventarono ricchi alcuni dei principali uomini d’affari del dopo-Urss.

Durante il mese di aprile 1992 venne convocato il Congresso del Popolo della Russia, l’organo che avrebbe dovuto ratificare gli accordi di Belaveža e Alma-Ata, ma per ben tre volte la votazione diede esito negativo. Anche le modifiche costituzionali che avrebbero dovuto togliere i riferimenti all’Unione Sovietica e alle precedenti carte costituzionali di epoca sovietica non vennero approvati. Nel corso dell’anno il malcontento sia popolare che dei rappresentanti parlamentari aumentò. Nel mese di novembre la corte costituzionale della Russia cancellò il decreto con cui El’cin proibiva le attività del Partito comunista e fu permessa la riorganizzazione di un nuovo Partito Comunista della Federazione Russa. Tensioni politiche si ebbero anche con alcune regioni della stessa federazione che rifiutarono di sottoscrivere un nuovo trattato federale. In Tatarstan, una delle Repubbliche più ricche all’interno della Russia, che aveva rivendicato la propria sovranità fin dal 1990, si tenne un referendum per dichiarare l’indipendenza. In Cecenia e in altre aree del Caucaso Mosca perse del tutto il controllo politico e la situazione sarebbe poi sfociata in un vero e proprio conflitto armato.

Un altro problema istituzionale riguardò le critiche del vicepresidente russo Aleksandr Ruckoj, eletto in ticket con El’cin nel 1990, allo stesso presidente e alle politiche del governo. Ruckoj fu privato da El’cin di ogni incarico. El’cin e Congresso scesero a patti fissando un referendum per la primavera del 1993 nel quale chiedere al popolo indicazioni su alcune questioni di carattere costituzionale. Le domande furono quattro e l’affluenza complessiva fu poco sopra il 64%:

In ogni caso i risultati evidenziarono un Paese profondamente diviso, non produssero effetti immediati ma contribuirono ad aumentare i toni del confronto tra presidente e parlamento. Quest’ultimo accusava l’amministrazione presidenziale di brogli. L’estate non portò accordi tra presidente e parlamento e il primo di settembre, dopo l’ennesima critica di Ruckoj, El’cin decise di destituirlo senza che Costituzione o alcuna legge gli permettesse di farlo. Ruckoj trasferì il proprio ufficio alla Casa Bianca, all’epoca sede del parlamento russo.

Memoriale dei fatti dell’ottobre 1993 alla Casa Bianca di Mosca

La crisi costituzionale del 1993

Il 21 settembre El’cin, ancora una volta senza alcun potere costituzionale di farlo, sciolse il parlamento durante un diretta televisiva e indisse le elezioni per il mese di dicembre. Il Soviet Supremo rispose il giorno successivo votando la destituzione di El’cin e trasferendo i poteri al suo vice conformemente ai poteri che la Costituzione assegnava al parlamento. Con l’occasione venne convocata una sessione del Congresso del Popolo per gestire la delicata situazione. Tra i due episodi ci fu la dichiarazione di incostituzionalità dell’operato di El’cin da parte della Corte Costituzionale russa. Il 24 settembre il Congresso del Popolo ratificò la rimozione di El’cin e indisse elezioni presidenziali e parlamentari per la primavera 1994. In molti soviet regionali della Russia fu riconosciuto Ruckoj come presidente della Federazione Russa. Attorno alla Casa Bianca si radunarono i sostenitori del Soviet, spesso anche armati, dando l’impressione di una situazione simile a quella avvenuta due anni prima in agosto, seppure a parti invertite. El’cin, supportato dal governo russo, tagliò energia, riscaldamento e telefono all’edificio del Soviet. Tentativi di mediazione tra le parti furono portati avanti anche dal Patriarca Alessio II. Il Soviet propose di effettuare le elezioni parlamentari e presidenziali contemporaneamente in primavera e arrivare a tale data con un primo ministro da scegliere assieme che avrebbe fatto da presidente ad interim. La proposta non venne accettata da El’cin. Le due parti nel frattempo si preparavano al conseguente aumento della tensione. La polizia circondò la Casa Bianca impedendo ai sostenitori del Soviet di unirsi ai parlamentari. La conseguenza furono manifestazioni di piccoli gruppi in tutta Mosca. Fallita la mediazione del patriarcato si arrivò al 3 ottobre, quando i manifestanti a sostegno del parlamento riuscirono ad occupare il comune di Mosca, impossessarsi di armamenti anche pesanti sottratti ad esercito e polizia e attaccare il centro televisivo di Ostankino. Nella notte tra il 3 e 4 ottobre la gran parte dei manifestanti a favore del parlamento ripiegarono attorno alla Casa Bianca. Tra di loro non mancavano membri dell’esercito passati dalla parte parlamentare.

Uno dei monumenti ai difensori del potere sovietico caduti negli scontri dell’ottobre 1993

Il 4 ottobre El’cin ordinò all’esercitò di inviare carri armati e di prendere a cannonate la Casa Bianca, che poi venne assaltata. Sul campo restarono almeno centocinquanta morti, anche se molti considerano sottostimata questa cifra. Molti civili morirono attorno al palazzo cercando di opporre resistenza all’assalto dei gruppi speciali. Il parlamento e molte amministrazioni regionali vennero sciolte. El’cin nel periodo precedente alle elezioni di dicembre governò per decreto e varò una bozza di Costituzione poi approvata in un successivo referendum oggetto di molte contestazioni. Prese parte al voto il 55% della popolazione della quale solo il 58% votò a favore della nuova Costituzione. In molte realtà regionali le autorità invitarono i cittadini a boicottare il voto, in almeno diciassette vinse il no.

Conseguenze legali per i protagonisti del golpe del 1991 e della crisi del 1993

Tutti coloro che presero parte al tentativo di colpo di Stato del 1991 vennero arrestati nelle ore successive al rientro di Gorbacëv a Mosca. Il procuratore generale della Russia sovietica emise gli ordini di cattura, a cui sfuggirono all’arresto solo coloro che si tolsero la vita. Gli altri dopo un anno e mezzo di carcerazione preventiva vennero scarcerati con il divieto di espatrio in attesa del procedimento penale. Nell’aprile 1993 iniziò il processo ai presunti golpisti accusati del reato di tradimento. La difesa degli imputati si concentrò sull’anomalia che un tribunale russo non poteva processare persone che avevano agito in base alle leggi sovietiche, mentre la procura riteneva che essendo la Russia erede legale dell’Urss il processo si potesse compiere. Le cose andarono per le lunghe e nell’autunno dello stesso anno avvenne la crisi costituzionale che portò El’cin a prendere a cannonate il parlamento russo causando molte centinaia di vittime e molti arresti anche di esponenti politici di primo piano. Con le elezioni anticipate di fine 1993 si arrivò alla nascita di un parlamento diviso in molte fazioni politiche che ritenne utile procedere ad approvare un’amnistia che riguardasse sia la crisi costituzionale che i fatti dell’agosto del 1991. Questo interruppe i procedimenti giudiziari contro i componenti del Comitato statale per lo stato di emergenza, contro coloro che difesero il parlamento nella più recente crisi e anche contro gli indagati attorno a El’cin per la strage successiva all’assalto della sede legislativa. Tra i protagonisti del mancato golpe tutti furono ben lieti di accettare l’amnistia tranne Valentin Varennikov che fu tra coloro che nel 1991 si recò a Foros per cercare di convincere Gorbacëv ad aderire al Comitato. Varennikov, che all’epoca dei fatti era viceministro della difesa, volle essere processato per far esprimere i tribunali russi sulla vicenda del presunto golpe. Questo avvenne nell’estate del 1994 con l’assoluzione di Verennikov e implicitamente con l’ammissione che il Comitato operò all’interno della cornice costituzionale e legislativa sovietica. Tra gli arrestati dell’autunno 1993 solo Ruckoj rifiutò l’amnistia, ma nonostante questo non venne mai processato e poté candidarsi a governatore di Kursk nel 1996, venendo eletto.

Leggi anche: Appendice – Sviluppi successivi e nuove prospettive di unione.

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