Trent’anni fa la fine dell’Urss. Parte 1: dalla perestrojka al referendum

Su Oltre il Tevere una ricostruzione storica in tre puntate dei fatti che portarono alla fine di uno Stato che ha rappresentato un punto di riferimento per una larga parte della popolazione mondiale

Gorbačëv in visita in Lituania l'11 gennaio 1990. Archivio centrale di Stato della Lituania (CC BY 4.0)

Nel tardo pomeriggio della giornata di Natale di 30 anni fa, Michail Gorbačëv formalizzava le sue dimissioni da presidente e la fine di oltre settanta anni di storia dell’Unione Sovietica. Neppure mezz’ora dopo la fine di una diretta televisiva vista in quasi tutto il pianeta, la bandiera rossa veniva ammainata dal pennone del Cremlino e subito sostituita dal tricolore russo. L’evento non era inaspettato e segnali inequivocabili erano arrivati negli ultimi mesi, culminati durante dicembre con una serie di decisioni assunte senza consultare la popolazione. Il Soviet Supremo dell’Urss prese atto dell’accaduto la mattina successiva e avallò la nascita della Comunità degli Stati indipendenti, l’organismo che avrebbe dovuto coordinare il percorso di separazione delle dodici repubbliche ancora facenti parte dell’Unione Sovietica. I tre Paesi baltici erano invece già indipendenti da settembre.

Tutto il potere ai soviet

L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nasce il 30 dicembre del 1922 ma fonda le sue origini nella rivoluzione che nell’ottobre del 1917 vide i comunisti prendere il potere. La Russia imperiale era già stata spazzata via dalla rivoluzione del febbraio dello stesso anno, mentre i mesi successivi determinarono gli avvenimenti che portarono alla cacciata anche del governo provvisorio. Anni difficili, con la Russia che usciva da una disastrosa prima guerra mondiale e avrebbe affrontato cinque anni di guerra civile tra i rossi e i bianchi, questi ultimi contrari alla presa del potere da parte dei bolscevichi. L’Unione Sovietica nacque quando le acque si calmarono, come Stato federale per valorizzare le tante diversità presenti nel nuovo Paese e all’interno della stessa Russia, dove il processo federalista era già in attuazione. Il Trattato sulla creazione dell’Urss vide la firma di quattro entità: Russia, Ucraina, Bielorussia e Transcaucasia, che in seguito si dividerà in Georgia, Armenia e Azerbaigian. Il trattato era aperto e permise l’ingresso di altre nazioni successivamente al riordino di alcuni Paesi dopo la guerra civile. Seppure con nomi e confini differenti rispetto ad oggi, sempre negli anni ’20 entrarono a far parte dell’Urss i cinque paesi centroasiatici. Le repubbliche baltiche e la Moldavia si sarebbero unite come conseguenza della divisione dell’Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Poco dopo la nascita della nuova Unione Lenin uscì di scena a causa della propria prematura morte e Stalin, prima alleandosi con le varie componenti del partito e successivamente da solo, sarà protagonista nel bene e nel male del consolidamento dello Stato. Da una parte persecuzioni e culto della personalità, dall’altro la trasformazione di un Paese agricolo in una potenza industriale. La guerra mondiale fa vivere ai popoli sovietici una delle pagine più drammatiche ed eroiche della propria storia. L’invasione tedesca, la resistenza di Stalingrado e l’avanzata fino a Berlino contribuiscono al prestigio internazionale del paese e dell’ideologia che rappresenta.

Nikita Chruščëv tra i cosmonauti German Titov e Jurij Gagarin. Archivio Nazionale dei Paesi Bassi (CC BY-SA 3.0 NL)

La guerra fredda, la cortina di ferro e il mondo diviso in due con il deterrente della bomba atomica contribuiscono ad uno stallo internazionale. Morto Stalin arrivano Chruščëv e lo sviluppo tecnologico ed economico. Il primo satellite e il primo uomo nello spazio segnano una possibile superiorità di Mosca sugli Stati Uniti. Nella realtà si viaggia nello spazio e si ha la potenza militare ma mancano i beni comuni. Il Paese è una locomotiva in folle corsa con conquiste continue, ma non tutti i vagoni sono in grado di sopportare l’alta velocità. A Chruščëv segue Brežnev e il periodo che in Occidente viene chiamato stagnazione, che paradossalmente nel paesi dell’ex Urss è percepito come la fase di migliore qualità della vita e soprattutto con la stabilità sociale recuperata dopo i duri anni dell’industrializzazione e della guerra. Con la vecchiaia di Brežnev anche la nazione sembra rallentare nelle conquiste e perfino nelle certezze.

Glasnost’ e perestrojka

In tre anni si alternano quattro leader. Al morente Brežnev seguono Antropov e Černenko. In Occidente si parlerà di gerontocrazia per l’età dei protagonisti e per la cagionevole salute che porterà all’organizzazione di un funerale di Stato ogni anno. Nella primavera del 1985 inizia l’epoca del primo Segretario del Partito Comunista nato dopo la Rivoluzione del 1917: Michail Gorbačëv, proveniente dal sud della Russia, pupillo di Andropov e insolitamente giovane e carico di energie.

Già nei primi due mesi cominciarono a circolare le nuove parole d’ordine: ricostruzione, accelerazione e trasparenza, che nella versione russa diventeranno termini molto popolari anche in Occidente: perestrojka, uskorenie, glasnost’. Assieme all’enunciazione di nuovi principi avvenivano anche sostituzioni di persone, dagli organismi amministrativi dello stato ai mezzi di comunicazione fino alle realtà più periferiche del Paese. La parte riformista del Partito Comunista stava prendendo in mano il potere ma non tutti erano personaggi preparati e non tutti erano onesti. Nei primi anni di riforme non si percepì alcun risultato economico, anzi il non casuale crollo del prezzo del petrolio, principale elemento di esportazione dell’economia sovietica, e il disastro di Cernobyl’ contribuirono a rendere il paese ancora più fragile. Le aziende statali vennero autorizzate a vendere nel libero mercato la produzione in eccesso, con ricavi che dovevano servire a migliorare i salari e riorganizzare le stesse aziende. In realtà nella maggior parte dei casi questo significò far finta di raggiungere gli obiettivi di produzione e riversare la gran parte dei prodotti nel mercato nero, facendo arricchire quasi unicamente i responsabili dell’azienda. Molti di quelli che saranno i protagonisti della successiva epoca liberista cominceranno ad arricchirsi anche con questo sistema. Il risultato fu la mancanza di beni nei negozi ufficiali dove i prezzi erano calmierati e il fiorire di commercio non ufficiale con prezzi elevati. Per molti divenne impossibile anche trovare le lamette da barba, e nella fase finale della Perestrojka anche il cibo.

Francobollo sovietico del 1988 dedicato alla perestrojka

Sul piano politico si osservò una diminuzione dell’intervento del Partito nelle dinamiche statali. Ci si avvicinò ad una separazione dei poteri tra Stato e Partito culminata con la possibilità nelle elezioni tra il 1989 e 1990 di presentare candidature alternative. Questo portò ad un grande cambiamento nella composizione degli organi statali e allo stesso tempo alla quasi scomparsa della presenza operaia e contadina dai luoghi di governo.

In alcune Repubbliche federate si permise la presentazione di candidati alternativi a quello comunista in occasione delle elezioni presidenziali. Con questo sistema Boris El’cin, con un passato comunista, si presentò, vincendole, alle prime elezioni per il presidente della Russia sovietica. La libertà politica, di espressione e religiosa contribuì alla denuncia di ciò che non funzionava nelle riforme di Gorbačëv e all’accelerazione del paese verso il baratro. Il Presidente sovietico veniva idolatrato in occidente per i passi verso la democrazia e la fine della guerra fredda, mentre in patria era sempre più odiato sia dalle parti conservatrici del Partito che da quelle riformiste.

Il 1989 e il nazionalismo in Urss

Un altro aspetto destinato a cambiare gli equilibri del mondo era relativo alla fine della sovranità limitata nei paesi dell’Europa orientale facenti parte delle organizzazioni economiche e difensive guidate dall’Unione Sovietica. Dopo l’avvento di Gorbačëv anche in molti Paesi comunisti europei si alleggerì il ruolo del partito guida e furono permesse maggiori libertà. Questo portò tra il 1989 e il 1990 al passaggio dal sistema comunista a quello liberale in Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria, Romania e Bulgaria. Ad eccezione della Romania la trasformazione avvenne quasi sempre in modo non traumatico e con la complicità del partito fino ad allora al potere. Seppure non sotto la diretta tutela dell’Urss anche Jugoslavia ed Albania si avviarono nella stessa direzione. In questi ultimi due casi la trasformazione fu preludio di guerre civili continuate negli anni successivi. La Cecoslovacchia si divise in due nazioni ad inizio del 1993 senza alcuna consultazione dei cittadini. La Germania dell’Est venne annessa a quella occidentale nell’ottobre del 1990. Nelle trattative che portarono alla riunificazione tedesca emerse la posizione sovietica di disponibilità a ritirare i propri contingenti dall’Europa orientale chiedendo che gli stessi Paesi rimanessero neutrali e non entrassero nell’organizzazione atlantica. Di fatto nel giro di pochi anni tutti entrarono a far parte della Nato, comprese le tre repubbliche baltiche già parte integrante dell’Unione Sovietica.

Parata per il 40 anni della Repubblica Democratica Tedesca, 7 ottobre 1989. Bundesarchiv, Bild 183-1989-1007-402, Klaus Franke (CC BY-SA 3.0 DE)

Non mancarono sconvolgimenti anche all’interno dei confini sovietici per il riemergere del nazionalismo destinato a creare conflitti tra Mosca e periferia e tra diversi popoli nello stesso territorio. È il caso delle Repubbliche baltiche che rivendicarono la propria sovranità entrando in tensione con le minoranze russofone che vivevano all’interno dei loro confini, della Moldavia divisa tra coloro che sognavano di ricongiungersi alla Romania e quelli che si sentivano ancora legati al mondo slavo, delle minoranze musulmane che in alcuni territori russi erano maggioranza come in Cecenia o Tatarstan, delle ampie zone di Armenia e Azerbaigian abitate dall’altra etnia, in regioni della Georgia abitate da popoli che rivendicavano la propria identità come il caso di Abcasia e Ossezia o nell’Asia centrale, dove storicamente i confini erano stati disegnati con l’obiettivo di fomentare problemi. Alcune di queste situazioni a distanza di oltre trent’anni non sono state risolte.

Il referendum sull’Unione

In mezzo ai cambiamenti che stavano travolgendo il modo ex comunista, in Unione Sovietica ci si chiedeva come cercare di mantenere l’unità del Paese sconvolto dai conflitti politici e militari già in atto in alcune regioni. Nel dicembre del 1990 gli organi legislativi dell’Urss stabilirono a larghissima maggioranza che la volontà di mantenere una forma di unione tra le Repubbliche costituenti l’Unione Sovietica sarebbe dovuta essere ratificata dalla consultazione del popolo.

Il 17 marzo del 1991, fu votato un referendum finalizzato ad impedire lo scioglimento dell’Urss e la proposta di costruire una nuova unione con poteri più decentralizzati. Il quesito presente nella scheda elettorale era il seguente:

Considerate necessario preservare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche come una rinnovata federazione di Repubbliche uguali e sovrane in cui saranno pienamente garantiti i diritti e la libertà dell’individuo di ogni nazionalità?”

Le leadership di sei delle quindici repubbliche che componevano l’Unione Sovietica rifiutarono di partecipare al referendum, ma organizzazioni locali, regionali e talvolta sindacati e associazioni istituirono seggi per permettere a chi volesse di votare. A volte le autorità locali intervennero per tentare di impedire le operazioni elettorali o stabilirono per date precedenti altri referendum, non riconosciuti da Mosca, per legittimare le proprie dichiarazioni di sovranità. Nonostante questo, per il referendum per la conservazione dell’Unione in Lituania, Lettonia ed Estonia andarono comunque a votare oltre un milione di cittadini, quasi settecentomila in Moldavia, con la futura Transnistria e la Gagauzia presenti in modo compatto, duecentomila in Georgia, dei quali gran parte erano abcasi e osseti, ed infine meno di tremila in Armenia, dove si votò solo in una cittadina.

Complessivamente fu impedito di partecipare al voto a circa sette milioni di aventi diritto su un totale di 185 milioni. Il dato non avrebbe cambiato gli equilibri del risultato complessivo, ma se localmente avesse votato tutta la popolazione delle sei repubbliche probabilmente, almeno lì, avrebbe vinto la risposta negativa.

Il risultato complessivo vide un’affluenza dell’80% con il 77,8% dei votanti a favore della nuova unione e il 22,2% contrario. Azerbaigian e Repubbliche centroasiatiche votarono a favore con dati oltre il 90%. Più tiepide Russia (71%) ed Ucraina (70%), mentre la Bielorussia si tenne più alta rispetto alla media nazionale (83%). Interessante che nelle Repubbliche federate all’interno della Russia i dati di consenso alla nuova ipotesi federale furono molto più alti rispetto ai dati delle aree prevalentemente abitate da russi.

Un Paese fuori controllo

Dopo il risultato del referendum si costituì una commissione che lavorò sull’ipotesi di un nuovo stato unitario che si sarebbe dovuto chiamare Unione delle repubbliche sovrane sovietiche, per poi togliere successivamente il riferimento ai soviet. Nel frattempo terminava la storia del Patto di Varsavia e del Comecon, rispettivamente patto difensivo ed economico dell’Urss con i paesi dell’Europa orientale. I tre Baltici affermavano la propria indipendenza già dal 1990, le guerre civili continuavano nel Caucaso e vedevano i primi morti tra Moldavia e Transnistria, in Russia il 12 giugno El’cin vinceva le elezioni presidenziali contro il candidato comunista appoggiato da Gorbačëv mentre un anno prima nello stesso giorno la Russia aveva affermato la propria sovranità e la precedenza delle proprie leggi su quelle federali.

Boris El’cin durante un’iniziativa elettorale a Mosca nel febbraio 1989. Itar-Tass (CC BY 3.0)

Gorbačëv si sposta in Crimea per alcuni giorni di riposo prima del 20 agosto quando a Mosca è prevista la firma del nuovo patto federale al quale dovrebbero aderire almeno undici delle quindici repubbliche. Baltici e Georgia al momento restano fuori, mentre Ucraina e Moldavia firmerebbero con dei distinguo. Proprio in questo clima di caos matura l’idea del golpe da parte dell’area conservatrice del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

Leggi anche: Parte 2 – Dal golpe di agosto alle dimissioni di Gorbačëv;
Parte 3 – Dalla nascita della CSI alla crisi costituzionale russa;
Appendice – Sviluppi successivi e nuove prospettive di unione.

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