Nel tardo pomeriggio della giornata di Natale di 30 anni fa, Michail Gorbačëv formalizzava le sue dimissioni da presidente e la fine di oltre settanta anni di storia dell’Unione Sovietica. Neppure mezz’ora dopo la fine di una diretta televisiva vista in quasi tutto il pianeta, la bandiera rossa veniva ammainata dal pennone del Cremlino e subito sostituita dal tricolore russo. L’evento non era inaspettato e segnali inequivocabili erano arrivati negli ultimi mesi, culminati durante dicembre con una serie di decisioni assunte senza consultare la popolazione. Il Soviet Supremo dell’Urss prese atto dell’accaduto la mattina successiva e avallò la nascita della Comunità degli Stati indipendenti, l’organismo che avrebbe dovuto coordinare il percorso di separazione delle dodici repubbliche ancora facenti parte dell’Unione Sovietica. I tre Paesi baltici erano invece già indipendenti da settembre.
Leggi anche: Parte 1 – Dalla perestrojka al referendum;
Parte 2 – Dal golpe di agosto alle dimissioni di Gorbačëv;
Parte 3 – Dalla nascita della CSI alla crisi costituzionale russa.
Il curioso caso di simboli e bandiere
Neppure oggi, a trent’anni di distanza, si è riusciti a familiarizzare con le nuove bandiere degli Stati sorti dal collasso sovietico. Ad Alma-Ata, durante la conferenza del 21 dicembre 1991, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan parteciparono all’incontro utilizzando le bandiere delle Repubbliche in seno all’Urss. Servirà tutto il 1992 e parte del 1993 per riuscire ad arrivare ai vessilli che oggi conosciamo. Se alcune Repubbliche avevano fatto le loro scelte già prima dello scioglimento dell’Unione Sovietica, andando a recuperare antiche simbologie patrimonio della propria storia, alcuni Stati non avevano una storia precedente alla loro creazione in epoca sovietica.
Stesso discorso, ancora più complicato, per gli emblemi di Stato, che sopravviveranno molto più a lungo delle bandiere sovietiche. La Bielorussia, che per quattro anni ha utilizzato il vessillo bianco-rosso-bianco che riprendeva una bandiera pre-Urss, nel 1994 ritornò ad usare bandiera e simbolo di Stato che erano stati della Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia, seppure senza la falce e martello. La Transnistria, ovvero l’area orientale della Moldavia che rivendica la propria indipendenza, usa tuttora il vessillo della Moldavia sovietica con falce e martello.
Le dinamiche che coinvolsero la Russia tennero in scacco il Paese per oltre due anni. arrivando ad una lunga convivenza tra il noto tricolore e l’emblema di Stato con i simboli comunisti e il motto “Lavoratori di tutto il mondo unitevi”. Per anni il parlamento di Mosca non riuscì a deliberare la scelta del nuovo simbolo fino a quando sopperì alla cosa un decreto di El’cin dopo lo scioglimento e il cannoneggiamento del parlamento a fine 1993. Gli stemmi della maggior parte delle Repubbliche furono sostituiti nel 1991 o 1992, con l’eccezione russa e quella del Kirghizistan dove i simboli di epoca sovietica sopravvissero fino all’inizio del 1994.
Guerre e dispute di confine nate durante o successivamente alla fine dell’Unione Sovietica
Il caos istituzionale degli anni della perestrojka portò alcune aree dell’Unione Sovietica a guerre civili. In altre zone le problematiche, non sempre risolte in modo cruento, portarono a problemi nello stabilire esatti confini tra quelle che in precedenza erano parti dello stesso Stato. Nel corso di trent’anni non tutte le dispute sono state risolte e abbondano i territori che di fatto sono indipendenti da tre decenni.
Principali conflitti armati:
- guerra tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh (articolo di TeverePost) e alcune enclavi occupate reciprocamente (1992-1994 e 2020);
- guerre tra Georgia e Russia per il controllo di Abcasia e Ossezia del Sud, che di fatto sono Stati indipendenti supportati e riconosciuti dalla Russia (1991-1992 e 2008);
- guerra in Cecenia e aree limitrofe, risolta con occupazione russa e accordi di autonomia (1994-1996 e 1999-2009);
- occupazione della Crimea da parte della Russia (2014);
- guerra e autoproclamazione di indipendenza delle Repubbliche popolari di Doneck e Lugansk (articolo di TeverePost) in Ucraina orientale (2014-in corso);
- guerra e indipendenza di fatto della regione della Transnistria (articolo di TeverePost) in Moldavia orientale (1990-1992);
- guerra civile in Tagikistan (1992-1997);
- scontri armati al confine tra Tagikistan e Kirghizistan (2021);
- rivolte popolari nelle aree di confine tra Uzbekistan e Kirghizistan nella Valle di Fergana (2005 e 2010).
Contenziosi sui confini non risolti:
- Valle di Fergana tra Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan e rispettive enclavi;
- confine tra Kirghizistan e Uzbekistan;
- confine tra Estonia e Russia.
Inoltre sono migliaia i chilometri di confine tra varie Repubbliche ex sovietiche dove non esistono confini tracciati, oltre a intere città che si sono trovate improvvisamente divise in due. Stessa situazione per alcune infrastrutture stradali e ferroviarie non sempre percorribili poiché toccano il territorio di un altro Stato.
Infine di grande rilevanza la situazione etnica di molti Stati che contengono al proprio interno importanti minoranze di altre Repubbliche ex sovietiche. Oltre ai russi presenti principalmente nei Paesi baltici, in Ucraina e Kazakistan, la situazione è particolarmente complicata nel Centroasia.
Il dibattito legale sui procedimenti formali di scioglimento dell’Urss
Dopo le tre mancate deliberazioni nel 1992 da parte del Congresso del Popolo della Federazione Russa che avrebbero dovuto legittimare i passaggi burocratici che segnarono la fine dell’Unione Sovietica, il tema tornò a prendere spazio politico successivamente. A seguito delle elezioni parlamentari del dicembre 1995 dove i partiti anti-El’cin ottennero la maggioranza dei deputati, la Duma russa deliberò nella primavera del 1996 alcune risoluzioni che sono ancora oggi presenti nei dibattiti storici e politici relativi alla fase di dissoluzione dell’Urss. Il parlamento russo dichiarò che le procedure di scioglimento dell’Unione Sovietica furono illegali per mancanza di rispetto verso la Costituzione e le leggi in vigore all’epoca e per aver tradito il referendum sul mantenimento dell’Unione del marzo 1991. Addirittura venne revocata la deliberazione del dicembre 1991 che avallava gli accordi di Belaveža.
Sul piano pratico e politico le indicazioni del parlamento russo non ebbero alcun effetto e naturalmente non servirono a ricostituire l’Urss. Diedero però una spinta a riprendere una politica tendente a costruire rapporti con le altre ex Repubbliche sovietiche per cercare di incrementare i settori di cooperazione economica e politica. Questo nuovo corso politico che vedeva la Russia tornare sui propri passi incontrò la freddezza di alcune Repubbliche e l’entusiasmo di altre, tra cui la Bielorussia, che si affrettò a concludere un accordo per ristabilire alcuni spazi di sovranità condivisi. Nacque l’Unione Russia-Bielorussia, anche favorita da un cambio di leadership e posizioni politiche a Minsk con Aleksandr Lukašenko che prevalse sull’ex presidente riformatore Šuškevič.
Dall’Unione Russia-Bielorussia alla Comunità economica eurasiatica
Tra il 1996 e l’anno successivo prese vita un soggetto sovranazionale destinato ad avvicinare Mosca e Minsk. Uno dei primi passi concreti fu la creazione di uno spazio doganale unico e l’eliminazione di frontiere fisiche tra Russia e Bielorussia. I cittadini di entrambi i Paesi possono così vivere e lavorare in entrambe le nazioni. Le frontiere esterne sono controllate da uno dei due Stati per conto dell’Unione. Nell’idea iniziale veniva immaginata la creazione di un nuovo soggetto sovranazionale con proprie istituzioni, esercito, bandiera ed inno: una riproposizione dell’Unione Sovietica composta inizialmente da due sole Repubbliche. Anche l’armonizzazione delle economie e del sistema di tassazione è realmente avvenuto, mentre è stata rinviata a data da destinarsi la creazione di una moneta unica. Sistemi giuridici e cooperazione militare sono oggetto di interventi in essere. In apparenza restano tra le attuali leadership delle due entità diversi modi di vedere gli sviluppi futuri. Secondo molti analisti la Russia cercherebbe di inglobare la Bielorussia all’interno della federazione già esistente, mentre Minsk vorrebbe un nuovo soggetto federale con pari legittimità per i componenti. Di fatto nel 2021 nel corso di più incontri tra Putin e Lukasenko sono stati individuati ulteriori temi di integrazione.
L’ex presidente kazako Nursultan Nazarbaev, non tra i più entusiasti della fine dell’Unione Sovietica, propose già nel 1994 di mettere in piedi un’unione economica e doganale tra tutti gli Stati ex sovietici e non solo che fossero interessati ad aderire. Agli accordi doganali tra Russia e Bielorussia ha preso parte anche il Kazakistan. I tre Paesi hanno costituito l’embrione di una nuova comunità economica nata formalmente nel 2014 con l’ulteriore adesione di Armenia e Kirghizistan, arrivando quindi a cinque Repubbliche ex sovietiche che coprono gran parte della popolazione e del territorio dell’ex Urss. Seppure non ancora membri dell’unione, hanno stretti rapporti di cooperazione e collaborazione anche Uzbekistan, Tagikistan e formalmente, nonostante il recente arrivo di un governo europeista, Moldavia. Anche i territori non riconosciuti di Transnistria, Abcasia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh hanno manifestato l’intenzione di collaborare nella cornice eurasiatica o nell’Unione Russia-Bielorussia.
L’Unione economica eurasiatica a livello di integrazione marcia molto più rapidamente di quella tra Russia e Bielorussia, per quanto limitatamente all’aspetto dell’integrazione economica e del lavoro. La questione dello status dei lavoratori porterà l’Uzbekistan, che ha molti emigrati in Russia, ad avvicinarsi ulteriormente all’Unione superando lo status di osservatore. Anche dal punto di vista doganale i controlli per i cittadini dell’unione sono semplificati. Nei principali aeroporti è possibile osservare speciali corsie del tutto simili a quelle per i cittadini dell’Unione Europea negli aeroporti del vecchio continente. Non sembra prendere il via, per il momento, la possibilità di creazione di istituzioni parlamentari comuni, cosa invece prevista nell’Unione Russia-Bielorussia. Essenzialmente è questo il motivo dell’impegno della Russia in entrambi i soggetti unitari.
A trent’anni di distanza
“Chi non rimpiange l’Urss non ha cuore, chi la rivorrebbe così com’era non ha cervello”: è una celebre frase del presidente russo Vladimir Putin pronunciata nel 2010. Cinque anni prima aveva definito il crollo dell’Urss la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo, per quanto la frase fosse connessa al fatto che almeno venti milioni di russi erano rimasti al di fuori della Russia. Sostanzialmente la maggior parte dei russi e una buona parte degli abitanti degli altri stati post sovietici concordano con entrambe le frasi. Il presidente bielorusso Lukašenko ha più volte ribadito di essere stato l’unico deputato a votare contro gli accordi di Belaveža nel parlamento di Minsk e di ritenere che la speranza apertasi di una demilitarizzazione del mondo con la fine dell’Unione Sovietica si è rivelata fasulla.
Per molti la fine dell’Urss è stata improvvisata e senza che il popolo avesse modo di esprimersi direttamente. Gorbacev in molte interviste ha continuato a ribadire di aver lottato con tutte le proprie forze per impedire la fine dello stato unitario, ha detto di aver sbagliato a scegliere i propri collaboratori e ha definito il suo più grande errore non aver mandato Boris El’cin “a cogliere banane” piuttosto che tollerarlo alla guida della Russia. Un anno prima di morire El’cin affermò che non tutto quello che era legato all’Urss era per forza negativo, sebbene i cittadini russi tendessero a scordare i problemi che c’erano in quel Paese, e che non comprendeva il perché esistessero ancora nostalgici di quell’esperienza. L’ex presidente bielorusso Šuškevič è sempre stato dello stesso parere di El’cin e non si è mai pentito di aver contribuito a demolire lo Stato sovietico. L’ex presidente ucraino Kravčuk ha ribadito in interviste successive che quanto stabilito a Belaveža fu un azzardo e che tutti erano consapevoli di stare rischiando nell’andare contro le leggi. Il fatto che non avvenne alcuna forte reazione incoraggiò i protagonisti ad andare avanti.
Ruckoj e Chasbulatov, tra i protagonisti della crisi costituzione del 1993, ricordano in ogni occasione come le decisioni di El’cin venissero prese assieme ad agenti stranieri, soprattutto americani, che lo affiancavano e che furono determinanti nei delicati passaggi che gli permisero di prendere il potere e conservarlo. Questa interpretazione è quella largamente diffusa in gran parte dell’opinione pubblica russa. Ogni sondaggio, almeno in Russia, rivela una crescente nostalgia per il periodo sovietico. Andando ad esaminare ulteriormente le opinioni emerge che ci sono nostalgici del sistema comunista, ma anche dell’imperialismo e la grandezza che l’Unione Sovietica rappresentava. Per altri prevale – più degli aspetti ideologici – la semplice constatazione che la vita precedente era meno problematica rispetto a tutto quello che è arrivato dopo, soprattutto negli anni ‘90.