Stefano Rosso: libero pensatore della chitarra (e dello spinello)

Libertà; in una sola parola si può condensare l’esperienza musicale e di vita di Stefano Rosso, virtuoso della chitarra, stornellatore, ironico critico del perbenismo della sua epoca, con la voglia di cantare versi e motivi non solo gradevoli ed orecchiabili ma che sono rimasti nella storia della canzone popolare italiana

Stefano Rosso

Parlando di Stefano Rosso non è facile distinguere il vero dall’affabulazione, intorno a lui fin dal suo esordio musicale sono nate vere e proprie leggende, alcune alimentate da lui stesso, sulle sue vicissitudini vere o inventate ma verosimili e funzionali alla presentazione del personaggio. Perché personaggio Stefano lo era davvero; in un momento “cantautorale”, quello di metà anni 70 nel quale agli artisti bastava strimpellare un paio di accordi per accompagnare il proprio canto, lui arricchiva i suoi brani con virtuosismi chitarristici  e già a quel tempo circolavano voci sul fatto che ne avesse passate di tutti i colori. Ricorda una delle figlie: “A 30 anni si era già fatto molto male, a 40 era pieno di lividi, a 50 cominciava a risentirne, a 59 era un saggio, a 60 purtroppo non c’è arrivato”

Musica, testi e carattere

Nato a Trastevere nel 1948, Stefano Rosso, vero “romano de Roma” per nascita, per indole, per disincanto, caratteristiche del popolino della capitale, freak nel senso più nobile della parola, alla ricerca di libertà ma nello stesso tempo ancorato ai fatti concreti sia come osservatore critico della società della sua epoca che nelle situazioni personali, argomenti che lui tratta con una scrittura dei testi molto particolare. A dispetto del suo cognome (si chiamava Rossi, che mutò in Rosso) e della chiara appartenenza alla sinistra radicale, egli non fa canzoni politiche in senso stretto, sebbene fra i temi trattati ci siano quelli di impegno civile, in alcune canzoni davvero di forte impatto. Tuttavia la sua è una scrittura funambolica che parte dal dato reale per sboccare spesso nel paradosso, nel nonsense e sovente utilizza la tecnica dell’accumulo;: parole, concetti che ne richiamano altri per libera associazione. Una scrittura abbastanza surreale, con citazioni di cultura popolare, vicina per certi aspetti a quella di Rino Gaetano, che, non a caso, fu suo grande amico. Rosso amava frequentare il cantautore calabrese col quale si erano incontrati al Folk Studio. I temi dei suoi testi sono riconducibili principalmente a due filoni, quello sociale e quello autobiografico, quest’ultimo trattando sia delle sue delusioni amorose che del suo desiderio di libertà e del ricordo dei tempi passati.  A volte i due temi sono sintetizzati nello stesso pezzo dimostrando, al di là dell’ironia e del disincanto, una sensibilità ai sentimenti tale che proprio una delusione amorosa lo porterà, nei primi anni 80, così almeno si vocifera, ad arruolarsi nella legione straniera dove resterà per due anni, anche se qualche suo amico sostiene che sia stato lo stesso artista a mettere in giro tale voce e che il suo silenzio di quel periodo fosse dovuto alla delusione per lo scarso seguito delle sue ultime prove discografiche unito alle sue intemperanze caratteriali.

La costruzione musicale dei suoi brani è semplice, ha l’andamento degli stornelli, delle canzoni romanesche da osteria, (d’altra parte lui ha iniziato da lì), nobilitata dall’accompagnamento di chitarra, suonata in fingerpicking, modo tipico delle musiche country e bluegrass americane, genere del quale lui è un maestro al punto di incidere alcuni suoi album solo strumentali in quello stile e addirittura scrivere un manuale dedicato alla spiegazione della sua tecnica chitarristica. Ci sono colleghi come Mimmo Locasciulli i quali ricordano che, ai tempi del Folkstudio, era un vero spettacolo vederlo anche solo accordare lo strumento.  E pensare che aveva imparato a suonare la chitarra da autodidatta prendendo lezioni nel retrobottega di un fruttivendolo del suo quartiere.

Stefano Rosso – La chitarra fingerpicking

Il primo successo composto sul lettino dell’obitorio

Ed è il fingerpicking che introduce il suo primo brano conosciuto. Era il 1976 quando uscì “Letto 26” caratterizzato oltre che da quello stile chitarristico, dalla sua erre moscia, dal tono colloquiale e accompagnato da un battage pubblicitario che definiva Stefano come: “il cantautore che ha visto più stupri di ogni altro”; ed in effetti sulla copertina del 45 giri la faccia da trucido sembrava averla. Ma il brano era autobiografico, lui abitava davvero in Via della Scala e nel letto 26 dell’ospedale c’era stato a lungo a causa di una complicata operazione alle tonsille; era ne più e ne meno che la descrizione della sua vita a Trastevere.

La copertina di “Letto 26”

Durante i suoi concerti Stefano ha spesso fornito numerosi aneddoti riguardo questa canzone, ad esempio che fu scritta materialmente sopra un letto su cui di solito mettevano le persone decedute in attesa di essere portate all’obitorio!

Un altro aneddoto riguarda il medico che curò Stefano, che dopo ben due mesi di ricovero disse: “Visto Sig.Rossi (vero nome del nostro Stefano), ce l’abbiamo fatta, ora può tornare a casa” e Rosso di rimando: “Ma ho ancora la febbre dottore” e il dottore: “Ma quella l’aveva anche prima di ricoverarsi“. Stefano parlerà molto più tardi di “cattivi medici burloni” nel brano “Canzoni per un Anno” riferendosi a questa situazione.

Musicalmente come abbiamo detto il pezzo è suonato in stile fingerpicking e al riguardo Stefano spesso diceva che, dopo tanti anni dalla scrittura della canzone, non aveva ancora sentito nessuno suonarla nel modo corretto.

: La canzone ha anche un seguito, infatti nel suo secondo album “E allora senti cosa fo’” Stefano incide “Letto 26 (seconda parte). Il pezzo ha la stessa melodia di “Letto 26” ma un testo diverso, come diverso è l’arrangiamento:

Quando viene pubblicato “letto 26” Stefano Rosso è già attivo da vari anni nel mondo musicale; il suo primo 45 giri, per l’etichetta Vedette, ”Io e il Vagabondo/La Bambina di Piazza Cairoli”, inciso insieme al fratello Ugo, col quale nel 1969, fa la sua prima apparizione televisiva a “Speciale per Voi” condotto da Renzo Arbore. In seguito, approdato al “Folkstudio”,vera fucina di cantautori, aveva pubblicato altri brani nei primi anni 70, tutti passati sotto silenzio e aveva avuto varie collaborazioni con artisti come Gianni Morandi da lui accompagnato alla chitarra in una serie di trasmissioni tv, Mia Martini per la quale aveva scritto il brano “Preghiera” e Claudio Baglioni ed è proprio quest’ultimo a portare Stefano alla RCA italiana che gli propone un contratto per tre album e gli affianca Antonio Coggio come produttore. A tal proposito c’è un aneddoto legato alla degenza di Rosso; fu proprio mentre stava in ospedale che Stefano vide la trasmissione Rai “Ritratto di un giovane qualsiasi” in cui Claudio Baglioni suonò due sue composizioni, “Valentina” e “C’è un Vecchio Bar Nella mia Città” senza però specificare che erano di Rosso, anzi, nei titoli di coda della trasmissione c’era la scritta che recitava: “Tutti i pezzi  a cura di Baglioni e Coggio”. Ovviamente Stefano non la prese bene e, appena dimesso, si recò alla RCA per mettere i puntini sulle “i”.  Col tempo il rapporto tra Baglioni e Rosso si è ricucito e nel 2005 è lo stesso Baglioni ad invitarlo a Firenze sul palco per eseguire insieme “Una Storia Disonesta” e “Valentina” davanti al raduno annuale del suo fan club, esibizione rintracciabile su You Tube.

Quello dello Spinello

Nell’autunno di quel 1976 registra il suo primo album “Una Storia Disonesta” che esce nei negozi di dischi nel gennaio dell’anno successivo. Tutte le canzoni sono scritte testi e musica dal cantautore che però si firma col suo vero nome, Stefano Rossi. Il disco ottiene un buon successo, come del resto il 45 giri che ne viene tratto, Una storia disonesta / Anche se fosse peggio”, certamente per merito della title track, molto programmata dalle radio libere dell’epoca ed entrata nella storia della canzone italiana per il riferimento allo spinello nei versi del ritornello “Che bello, due amici una chitarra e uno spinello …”, che gli porta anche un servizio a lui dedicato dal programma “Odeon Tutto Quanto fa Spettacolo”. Inizialmente la canzone avrebbe dovuto chiamarsi “L’arte di far politica” e dal testo si capisce il perché, ma la casa discografica consigliò a Rosso di cambiare titolo.

Con questa canzone Stefano si prende gioco della società degli anni’70, troppo seriosa ed impegnata di facciata ma pronta a lasciare ogni regola ed inibizione quando le luci dei riflettori si spengono, ma per tutti lui diventa “quello dello spinello”. Stefano Rosso, sicuramente, ha fatto uso di sostanze stupefacenti: è lui stesso a raccontare, che quando scriveva canzoni, alla luce di un lampione, nella piazza di Santa Maria in Trastevere, insieme ai randagi, capitava che si addormentasse e poi svegliandosi scopriva di avere erba nelle tasche. Ma nel brano la droga è soltanto un pretesto per affrontare una tematica sottile come il perbenismo interessato.

In realtà anche le altre canzoni dell’album sono rappresentative del suo stile e uniscono alla tradizione popolare romanesca il suo modo particolare di accompagnamento mettendone in evidenza l’abilità chitarristica mentre i testi spaziano dall’ironia e dal sarcasmo a toni più intimi e autobiografici. Alcune di loro avrebbero meritato di uscire come 45 giri successivo al successo di Una Storia Disonesta; ad esempio “Pane e Latte” amara riflessione e sogno di riscatto riguardo le condizioni della sua famiglia d’origine e su quella che aveva creato sposandosi precocemente, ma la casa discografica pensò che il brano sullo spinello bastava per trainare l’intero album e fu così che l’anno successivo uscì la seconda prova a 33 giri di Stefano.

Senti cosa fa Stefano

In pezzo “E Allora Senti Cosa Fo” che dava il titolo alla raccolta era l’evoluzione di quel Pane e Latte di cui sopra, non più sogni per la propria famiglia ma disincanto e disperazione perché la strofa descriveva con amarezza la propria situazione coniugale a dir poco insostenibile, contrapposta ad un ritornello nel quale illustrava ironicamente il comportamento di alcuni gruppi sociali e politici dell’epoca. Una perfetta sintesi fra impegno morale e autobiografia .nella quale si mescolano sentimento e sarcasmo in ugual misura.

Il brano, in tempo di tre quarti, una specie di valzer moderno, uscito come singolo, fece finalmente tornare Stefano alla Rai da protagonista. Nella trasmissione Discoring e in altre apparizioni televisive presentò la canzone edulcorata nel finale (recitato) delle prime due lettere riferite al sesso femminile nel gergo popolare. L’intero album fu un buon successo anche perché oltre alla title track conteneva canzoni come “Colpo di Stato”, “Odio Chi” e “Reichiana” nella quale esprime tutta la sua filosofia di vita. E poi “Bologna 77” sulle uccisioni di giovani che partecipavano alle manifestazioni di quell’anno. C’è anche la seconda parte di “Letto 26”, ideale aggiornamento sulla descrizione della propria vita alla luce di quello che gli era accaduto dalla stesura della prima versione..

https://www.youtube.com/watch?v=QIiv8fuwFkY

Radiografia di un uomo libero

In definitiva un gran bell’album che ottiene buoni riscontri di critica e di vendite a cui segue  nel 1879  “Bioradiografie” terzo album per la RCA  con la collaborazione di Gianni Marchetti, musicista che aveva composto musiche per Piero Ciampi, vinile che contiene finalmente la sua versione di “Valentina” oltre a “Ragazza Sola” (e a quella “o” si dovrebbe mettere l’accento pronunciandola con la vocale aperta, visto che in romanesco “sòla” vuol dire fregatura, come recita il testo della canzone) brano in stile Brassens al quale Stefano può essere accostato per tematiche affrontate, per quelle atmosfere di paese (nel caso di Rosso di quartiere) e per uso di musica popolare. La “sòla” gliela tirano alla casa discografica, boicottando il disco, fatto questo che provoca la sua ira e la rescissione del contratto. Il fatto era che Stefano risultava scomodo perché si rifiutava di fare marchette politiche tipo partecipazioni a feste di partito. Lui stesso ha dichiarato:nel 2003: ”Ho appeso la chitarra al chiodo, appena ieri ho rifiutato due partecipazioni alle feste dell’ Unità a Roma e tre giorni fa mi sono esibito a Trastevere, davanti a un pubblico come sempre molto affettuoso che da sempre mi segue e che probabilmente prenderà male questa mia decisione”. Saranno molte le volte nelle quali dichiarerà di voler smettere con la musica ma tornerà sempre ad esibirsi.

L’anno successivo nuova etichetta, la Ciao Record  nuovo album “Io e il Signor Rosso” e con un brano di quel 33 giri partecipazione al festival di Sanremo dove, sentendosi fuori posto, si distingue per…aver dimenticato le parole della canzone che presenta, “L’Italiano” con testo fustigatore dei vizi di casa nostra, (altro che il testo ruffiano presentato alla stessa manifestazione solo tre anni dopo con lo stesso titolo da Toto Cutugno!).. Il favore del pubblico va però scemando e malgrado altri due album, entrambi “concept” cioè dedicati ad un singolo argomento ed entrambi registrati nell’amato stile country, “Vado Prendo I’America e torno” del 1981 che contiene la registrazioni di un paio di brani solo strumentali e “Lilly del West”, per alcuni la sua canzone migliore. e nel 1982 “Donne” con “Via del Tempo”, ennesimo aggiornamento sulla vita nel suo amato quartiere,.il successo non torna ed è a quel punto che lui, dopo aver registrato nel 1983 il suo primo album interamente strumentale: “La Chitarra Fingerpicking di Stefano Rosso”, scompare per due anni e nasce la storia dell’arruolamento nella legione straniera. Ci sono molti dubbi sulla veridicità di tale avvenimento anche perché ritroviamo il suo nome (e la sua inconfondibile voce) come piccolo “cameo” inserito nella canzone Maracanà di Edoardo de Angelis del 1984!!

Comunque Stefano si ripresenta nel 1985 con “Stefano Rosso” album che non ottiene riscontri malgrado la sua partecipazione al Disco per l’Estate con “Bella è l’Età” tratto dallo stesso LP, così come passano sotto silenzio le sue successive prove di quegli anni. Da qui il prolungato silenzio degli anni 90 durante i quali appende la chitarra al chiodo  ma in fondo lo fa solo per brevi tratti della sua vita. Così, dopo una lunga pausa, negli anni duemila, ricomincia, o forse continua a scrivere piccoli capolavori, come la bohemienne  “I Fiori del Male” o la sarcastica “Amerika e Alì Babà”, rispettivamente negli album “Mortacci” e “Piccolo Mondo Antico”.

Negli ultimi anni Stefano Rosso riprende a fare concerti e a pubblicare dischi, spesso live o strumentali per chitarra acustica. Da segnalare la particolarità del cd “Live at the station” registrato nel 1999 in una sala d’aspetto di una stazione. Stefano incide per l’etichetta della sua compagna di vita, Antonella Orsaja, “praticamente vado a letto col produttore”  afferma, e questo gli permette di registrare quel che piace a lui senza tener conto del mercato. Resosi conto del tumore che lo divora, senza divulgare la sua malattia scrive nel suo diario:”Il cancro è come il mal di denti, arriva quando meno te lo aspetti” Stefano ci lascia nel 2008.

Stefano Rosso è stato un personaggio scomodo, sensibile, poeta, difficile, divertente, non irreggimentato, colto, inaffidabile, lunatico, piantagrane, fragile, una roccia, gran bevitore, solo, ottimo suonatore di chitarra, divertente con una malinconia di fondo, tipica di chi usa lo sberleffo come arma di difesa contro l’angoscia esistenziale un po’ alla Massimo Troisi (per il quale ha scritto “Quando Partì Noè”, inserito in una celebre scena della Smorfia).

Ma è ricordato solo come “quello dello spinello” . Triste riduttivo finale.. Chi volesse approfondire può visionare il documentario:”Stefano Rosso, l’ultimo romano”, a cura di Simone Avincola:

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