Il 16 ottobre 1943 le SS circondarono il ghetto di Roma, entrarono in tutte le case del quartiere spesso sfondando le porte. Portarono via tutti: sani, malati, vecchi vicino al traguardo della vita, neonati. Poi i veicoli della razzia si spostarono in altri quartieri della città, avevano precisi elenchi alla mano e arrestarono tutti quelli che trovarono. Non arrestarono Lucia Tabet che aveva 92 anni e alla vista delle SS morì d’infarto. […] Gli ebrei arrestati nella razzia del 16 ottobre 1943 furono 1015; due morirono durante l’arresto, uno nacque al collegio militare dove Marcella Perugia diede alla luce un bambino. Alcuni arrestati non risultarono essere di razza ebraica e furono rilasciati. Altri ebrei furono arrestati nei giorni successivi al 16 ottobre pertanto il totale degli ebrei romani deportati, il giorno 18 ottobre, fu di 1020; stipati dentro carri bestiame, partirono dalla stazione Tiburtina di Roma per ignota destinazione. Arrivarono ad Auschwitz/Birkenau il 23 ottobre ed iniziò subito il massacro. Superarono la selezione dell’arrivo 149 uomini e 47 donne, quindi uno scarso 20%. Tutti gli altri, compreso il bambino senza nome nato al Collegio Militare e la sua mamma, furono assassinati per gas e divorati dalle fiamme dei forni crematori il giorno stesso dell’arrivo. Alla fine della guerra dei deportati del 16 ottobre 1943 fecero ritorno a Roma 15 uomini e una sola donna.
Il 16 ottobre la mia famiglia riuscì a scampare alla cattura. Qualcuno ci aveva telefonato per informarci di quello che stava accadendo. Io ero in coda dal tabaccaio perché era stata annunciata la distribuzione delle sigarette. Papà mi aveva chiesto di andare a mettermi in coda in attesa che iniziasse la vendita: “Poi vengo io e ti do il cambio.” Pioveva quel giorno e avevo l’ombrello aperto quando vidi arrivare papà prima del previsto. Camminava a passo svelto e appena mi fu vicino disse: “Vieni via, vieni via”. Non capivo perché dovessi lasciare il posto nella fila ma obbedii e mentre ci incamminavamo verso casa mi disse che le SS stavano arrestando tutti gli ebrei, avevano portato via zia Eleonora (una sua cugina) che abitava a piazza San Cosimato non molto lontano da noi. Sotto casa trovammo il resto della famiglia; pioveva e non sapevamo dove andare. Ci dirigemmo verso Villa Sciarra, una villa comunale poco distante, e riparammo dalla pioggia sotto un gazebo. Nessuno di noi parlava; non sapevamo cosa fare, dove andare. Poi mio padre e i miei fratelli si misero alla ricerca di un rifugio. Invano. Era difficile trovare un rifugio per 8 persone.
Questo drammatico brano del diario di Piero Terracina – nato a Roma nel 1928 e infine sopravvissuto, a differenza di molti suoi familiari, alla deportazione – è tra quelli che verranno letti oggi durante “Staffetta della Resistenza”, l’iniziativa online promossa dall’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, in programma dalle ore 16 sui canali Facebook e YouTube dell’Archivio e sulla pagina Facebook del Piccolo Museo del Diario. “Ventitré studiosi – spiegano gli organizzatori – si passeranno il testimone per tracciare una panoramica della articolata produzione storica e letteraria sul Secondo conflitto mondiale e sulla Resistenza, scandita da letture dei testi più significativi sul tema custoditi dall’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano”.
Ci sarà anche la testimonianza di Margherita Ianelli, nata a Marzabotto nel 1922, orfana di contadini poverissimi, che a cinquant’anni è tornata a scuola per imparare a scrivere e tra il 1991 e il 1994 ha raccontato la propria vita.
Quella triste mattina del 29 settembre 1944, era un’alba senza stelle il cielo coperto di nubi una fitta pioggerella cadeva ma non impediva di andare senza ombrello. Mentre le altre donne impastavano la farina per fare il pane, io usci di casa per portare le fascine accanto al forno. Mentre attraversavo l’aia, nella zona di là dal fiume di fronte alla nostra, si vedevano grandi falò, ancora non era giorno i falò sembravano più luminosi, mi fermai un attimo per accertarmi capii che erano case che stavano bruciando […] oltre i fuochi si udivano raffiche di mitra e urli di persone. Allora non ebbi più dubbi dissi “Povera gente; Speriamo che i nazisti abbiano un pò di pietà. Lasciai le fascine a terra, andai in casa ero molto agitata, dissi con le donne: “Di là del fiume stanno bruciando le case, si sentono raffiche e urla di persone”. […]
Ormai stava calando la sera di quel terribile giorno, nonostante le cannonate che si udiva dalla parte del fronte, sulle alture si vedevano gruppi di persone che guardavano in quella zona, poi calò la sera tutti andarono in rifugio senza potere avere nessuna notizia.
La mattina seguente, in lontananza si vedevano ancora case in fiamme si udivano colpi di fucile, nessuno, avevamo il coraggio di andare in fondo alle Murazze per saperne di più. La strada era piena di camion tedeschi che transitavano verso nord, anche il secondo giorno nulla di nuovo. Il terzo giorno primo del mese di ottobre, di mattino a casa nostra arrivarono due superstiti, Filippo Pirini e suo nipote. Erano bagnati dalla testa ai piedi, li invitammo accanto al fuoco, io volevo sapere, quello ch’era successo, ma bastava guardarli per capire la gravità del caso. Volevamo dargli indumenti asciutti volevamo che facessero colazione, ma loro tutto rifiutavano con un cenno di capo. Io dissi: «Da come siete messi certamente avrete cattive notizie, vi preghiamo di dire qualcosa». Filippo scoppiò in un sussulto, con gesti ci fece capire che quella zona tutto era raso al suolo, poi riuscì a dire: «I nazisti hanno ucciso tutti, noi eravamo in Cerpiano; la nostra famiglia di quindici persone, siamo rimasti noi due perché eravamo fuggiti nel bosco. Ci siamo tappati le orecchie per non sentire gli urli di tanta gente». In seguito si seppe che un’altra nipote si era salvata, ma ferita.
Dopo tanto dolore, il racconto del 25 aprile a Milano, nella testimonianza di Folgore Vella. Veronese, classe 1920, fu esule con la famiglia in Svizzera e in Francia per poi tornare in Italia per unirsi alla Resistenza.
Mercoledì 25 aprile 1945
Verso le una del pomeriggio sosto nei pressi di piazzale Loreto in attesa di un tram. L’attesa è più lunga del solito poi passano alcune vetture vuote dirette al deposito. Non ho dubbi: è scattato lo sciopero generale, prodromo dell’insurrezione. Mi avvio immediatamente a piedi verso via Podgora.
Man mano procedo, le strade si svuotano. I rari passanti si scambiano occhiate furtive. Un uomo mi si affianca e a voce alta osa dirmi: “Ci siamo. I partigiani sono già in città”. Qualche portinaio provvede a chiudere il portone di casa. È palese l’attesa di eventi drammatici.
Al nostro Centro le notizie giungono frammentarie e contraddittorie per lo più portate da messaggeri infervorati, non sempre testimoni dei fatti riferiti. Il telefono, che funziona ancora, viene usato con parsimonia e per comunicazioni di estrema laconicità. Ho conferma che il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, CLNAI, ha diramato l’ordine d’insurrezione generale. Si combatte in periferia attorno alla Pirelli, alla Breda e all’O.M. Sembra che quest’ultima fabbrica sia già in mani partigiane. Nel centro della città sono ancora rintanati i fascisti nei loro fortini e alla Prefettura.
Mi dicono che, nel pomeriggio, il cardinale Schuster ha organizzato un incontro tra i membri del CLNAI e Mussolini al quale è stata intimata la resa senza condizioni di tutte le formazioni fasciste. Mussolini si è riservato di dare una risposta entro le otto di sera.
Sam Polistina mi chiede di partecipare con lui, in qualità di secondo membro del partito socialista, alla riunione d’emergenza indetta dal CLN della città di Milano. […] In una sala del primo piano le cui finestre danno su un cortile interno, vi sono già, attorno ad un tavolo, una decina di persone: sono i rappresentanti dei partiti antifascisti che compongono il CLN. All’apertura dei lavori si decide che la seduta proseguirà, senza interruzioni, fino all’indomani. Mentre vengono affrontati i problemi pratici che riguardano la vita di una grande citta, il telefono ci porta via via notizie sempre più riconfortanti: Mussolini, ancora una volta spergiuro, ha disertato l’appuntamento delle otto e ha lasciato la Prefettura per destinazione ignota; la Guardia di Finanza è passata alla ribellione; le fabbriche sono in gran parte in mano agli operai che ne salvaguardano l’incolumità; i fascisti, dopo la fuga del loro “duce” sono disorientati e non prendono iniziative. I tedeschi stanno a guardare.