Squid Game, il grande successo di un’allegoria della società contemporanea

Nella rubrica “Oltre il Tevere” quella che si appresta a diventare una delle serie più viste di sempre, feroce critica all’egoismo umano e alle società capitaliste

Squid Game (Hwang Dong-hyuk, Netflix)

L’articolo che state per leggere contiene informazioni sulla serie Netflix Squid Game, “il gioco del calamaro” se tradotto in lingua italiana, che prende il nome dalla prova conclusiva di una serie di giochi che i protagonisti della serie devono affrontare. Se avete intenzione di guardarla è forse meglio evitare di proseguire nella lettura e magari rinviarla a dopo averla guardata. Eviteremo di svelare il finale, ma di certo alcuni degli spunti di questa riflessione attorno al fenomeno che sta scalando le classifiche in tutto il mondo tolgono il gusto di scoprire alcune parti dell’insolita serie.

Il cinema in Corea del Sud

Oltre cento milioni di utenti hanno guardato la serie sudcoreana prodotta da Netflix Squid Game. Nella realtà ad ogni utenza corrispondono più persone, è quindi presumibile che coloro che in appena un mese hanno conosciuto questo fenomeno siano un numero almeno doppio, forse triplo. Per un prodotto concepito e realizzato in Corea del Sud sono numeri da record. Se ci fossero ancora dei dubbi sulle potenzialità cinematografiche di questo paese basta ricordare che il film Parasite ha vinto la Palma d’Oro nell’edizione 2019 del Festival di Cannes e quattro Premi Oscar tra cui quello di miglior film straniero nel 2020. La società sudcoreana, sicuramente tra le più avanzate del pianeta, è anche la vera protagonista sia di Parasite che di Squid Game. Le sue contraddizioni, la corsa ad un posto al sole ad ogni costo e gli enormi squilibri sociali fanno da cornice ad entrambi i racconti. Le dinamiche politiche ed economiche della parte meridionale della penisola coreana non differiscono molto dal resto del mondo sviluppatosi attorno al modello capitalista e liberista. Forse questi processi a Seul e dintorni sono cresciuti e andati in crisi più rapidamente rispetto all’Europa e agli Stati Uniti. Fino alla fine degli anni ‘80 del XX secolo la Corea del Sud era di fatto un regime militare alleato degli Stati Uniti, che aveva conosciuto un forte sviluppo economico a costo di costanti repressioni delle rivolte sindacali e popolari. Poi la democrazia, più di una crisi economica e ondate di scioperi che hanno portato molte persone a perdere lavoro e casa, indebitarsi senza riuscire a pagare le banche, tutte dinamiche che fanno da sfondo a molte delle storie all’interno di Squid Game.

La storia del piccolo stato è sempre stata condizionata anche dall’esito delle varie occupazioni militari, prima quella giapponese e poi nel dopoguerra quelle sovietiche e statunitensi che prima divisero in due la penisola e poi sfociarono nella guerra di Corea tra il 1950 e il 1953. Da allora i due sistemi politici, quello comunista al nord e quello liberista al sud hanno avuto un forte sviluppo e le speranze di una riunificazione dell’isola restano lontane nonostante gli ultimi anni siano stati caratterizzati da una lieve distensione. Anche la complessità della vicenda che ha portato un popolo a vivere separato da oltre settantacinque anni ritorna in alcuni dialoghi all’interno della serie, oltre alla storia di una delle protagoniste che seppure scappata dal nord ammette esplicitamente di non aver trovato il paradiso al sud.

Una trama originale

Ci sono voluti oltre dieci anni perché Hwang Dong-hyuk, ideatore e regista della serie, riuscisse a trovare finanziamenti e sostegni economici che permettessero a Squid Game di prendere vita. Netflix ha creduto nel progetto e i numeri di questo fenomeno gli hanno dato ragione. Alcuni aspetti della storia rimangono volutamente aperti anche dopo l’ultima delle nove puntate prodotte e questo fa capire come con ogni probabilità ci sarà almeno un seguito. Il regista, fino a poche settimane fa sconosciuto oltre i confini coreani, non perde occasione in ogni intervista per ribadire le proprie idee sulla società in cui il mondo occidentale vive.

La trama è qualcosa di molto originale dove si alternano aspetti reali con elementi ai confini dell’impossibile seppure tecnicamente realizzabili. La storia, se si ha la fortuna di non conoscerla in anticipo, riesce ad essere molto avvincente e ricca di tensione. La naturalezza con la quale violenza e normalità si alternano rende basito lo spettatore fino ad una quasi abitudine avvicinandosi al finale.

Quattrocentocinquantasei disperati, sommersi dai debiti o gente considerata un rifiuto dalla società, vengono invitati a prendere parte a dei giochi per bambini dai quali uscirà un vincitore che entrerà in possesso di una cifra di quasi quaranta milioni di dollari. Il tutto in un non luogo, un’isola non meglio identificata ricca di elementi surreali in cui i partecipanti vengono portati narcotizzati dopo essere stati arruolati da una specie di cacciatore di persone con problemi economici. Nonostante la crudeltà dei giochi e l’alta probabilità di non sopravvivere, tutti dopo un primo ripensamento scelgono di rischiare la propria vita piuttosto che tornare a vivere sommersi dai debiti e dai problemi della propria quotidianità. La vita reale più volte viene definita “inferno”. I principali personaggi della serie sono persone che avevano una vita normale ma perdendo il lavoro poi perdono tutto, casa, famiglia, dignità. Altri sono rovinati dalle speculazioni finanziarie, sono immigrati che vengono sfruttati e spesso sottopagati, donne rimaste sole, persone che per un errore hanno distrutto la propria vita. Nel corso dei giochi si trasformeranno in persone ancora peggiori perdendo anche quel poco che resta della loro umanità.

Ad organizzare e guardare tutto questo ci sono gli organizzatori dei giochi. Uomini ricchissimi e in preda a tutti i vizi ma che si annoiano a vivere potendo soddisfare ogni desiderio. Viene ricordato che ricchi e poveri alla fine sono uguali perché entrambi non si divertono nella vita anche se per ragioni differenti. I primi perché possono avere tutto, i secondi nulla. Non manca anche una marcata critica alla società sudcoreana e alla aleatorietà di una ricchezza economica fittizia creata sull’indebitamento personale e dello stesso Stato.

La gestione del successo

Non è dato sapere se Squid Game muoverà le coscienze dell’umanità e cambierà l’approccio degli uomini verso il sistema economico. Probabilmente non accadrà come in precedenza non è accaduto in prodotti cinematografici con messaggi simili. Di certo la serie è già un prodotto cult con la conseguenza che sono aumentati sia gli abbonamenti a Netflix che il numero di siti internet, legali o non, che commerciano le divise dei partecipanti ai giochi o dei sorveglianti. Vista l’ampia disponibilità di questi oggetti di merchandising è intuibile che anche questo ha fatto parte di una strategia commerciale ottimamente preparata. Non mancheranno ad Halloween o nel prossimo carnevale travestimenti a tema. Sorprendente la semplicità delle scenografie e il richiamo a simbologie che tutti conosciamo, aspetto che contribuisce a far entrare in rapida sintonia con il prodotto finale. Un altro elemento che coinvolge lo spettatore, soprattutto quelli dei paesi con economie simili a quella coreana, è l’alta probabilità di trovare storie o parte di storie dove immedesimarsi. I problemi con le banche, la perdita del proprio lavoro, il non riuscire a pagare il mutuo della casa, le conseguenze che queste cose hanno sugli equilibri familiari o in una causa per l’affidamento dei figli, fino all’uccidersi per i debiti sono aspetti che toccano parte del pubblico che segue la serie.

Squid Game alla fine sfrutta le stesse dinamiche che intende criticare. Manifesta un’avversione verso un certo tipo di società ma allo stesso modo ne utilizza tutti gli aspetti per diventare un prodotto commerciale destinato ad un ampio successo.

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