Come promesso ecco il secondo approfondimento sulla storia calcistica di Silvano Fiorucci. Domenica scorsa abbiamo ripercorso la sua brillante carriera da giocatore, mentre oggi racconteremo la sua lunga ed intensa avventura in panchina, fatta da 30 anni di sfide e di emozioni, vissute su e giù per l’Italia. Una carriera che si è chiusa la scorsa estate e che dopo la chiamata di Roberto Bianchi, presidente del Tiferno 1919, prosegue nel ruolo di direttore operativo nella squadra neopromossa in Serie D. Silvano, tifernate doc, ha accettato con entusiasmo la sfida ed ha chiuso il cerchio tornando da protagonista nella sua Città di Castello, proprio dove la sua storia calcistica era iniziata da bambino. Nel suo percorso da tecnico Fiorucci ha ottenuto ottimi risultati, diventando specialista in missioni quasi impossibili e portando alla salvezza squadre che fino al suo arrivo sembravano “spacciate”. Ha dovuto sudarsi ogni traguardo ed ogni momento perché come lui stesso ha ammesso con il suo modo colorito e sempre sincero “nessuno mi ha mai regalato nulla. Certamente non sono nato con la camicia, ma ho dovuto comprarla e tanto che c’ero ho comprato anche la cravatta e poi il vestito. Sempre con tanta voglia di fare, ma senza essere per questo un arrivista che calpesta le persone per raggiungere i suoi obiettivi. Stima e considerazione me le sono sudate, ma sono rimaste nel tempo e questa è la mia vittoria più grande”.
Silvano, nella prima parte dell’intervista eravamo arrivati alla tua avventura con il Torgiano in Eccellenza Umbra. In quella stagione è finita la tua carriera da calciatore ed è iniziata anche quella da tecnico vero?
Quando giocavo al Galatina in Serie C avevo preso parte e superato il corso allenatori di terza categoria ed avevo già la voglia di intraprendere questo percorso. A Torgiano mi venne data la possibilità di giocare e in contemporanea di allenare i ragazzi. Ero sul campo praticamente 7 giorni su 7 dato che ricoprivo il ruolo di responsabile del settore giovanile e mister di alcune squadre del vivaio. Tagliavini voleva che proseguissi a giocare e voleva portarmi al Ponsacco in C2, ma io avevo effettuato la mia scelta e volevo allenare. Iniziai in prima squadra al Torgiano con il mitico Romedio Scaia, poi continuai da solo guidando la prima squadra e la juniores. A Torgiano ho allenato 3 anni in Eccellenza, una bella esperienza. Mi occupavo di tutto e nei primi tempi facevo anche il preparatore dei portieri. Il lavoro sul campo è sempre stato il top per me.
Quali sono stati i passaggi successivi all’esperienza di Torgiano?
Mi chiamarono a Foligno a metà stagione in Eccellenza. La squadra risalì dal penultimo al quinto posto e si giocò la coppa regionale. Perdemmo la finale purtroppo, ma ci fu tanto entusiasmo e facemmo molto bene. A fine anno presi il patentino da allenatore di seconda categoria e nel 1994-1995 andai sulla panchina della Pievese in Eccellenza. Annata diciamo sul campo in linea con le attese, ma molto bella per il rapporto che si creò con tutto l’ambiente. La stagione successiva tornai a Foligno in Serie D, ma con la nuova dirigenza non ci fu invece il giusto feeling e dopo due giornate lasciai. Poi arrivò la svolta con la chiamata di Mario Colautti che mi portò come osservatore e collaboratore tecnico nel Padova del presidente Viganò, del DG Gardini e di Fincato, lo scopritore di Del Piero. Ero l’osservatore di fiducia di Mario, andavo in giro a vedere giocatori e sentivo la fiducia della società. Due stagioni molto belle, così come lo fu anche l’anno e mezzo a Treviso con il direttore sportivo Osti, sempre nello stesso ruolo. A Padova, dopo l’esonero di Colautti, cambiò la dirigenza e quando non sapevo ancora se sarei rimasto oppure no mi chiamò Fausto Vinti per mandarmi a vedere dei giocatori. In quella occasione conobbi Giorgio Rumignani, allenatore che aveva apprezzato i miei “appunti calcistici” e che divenne poi una figura fondamentale per me. Tornai a Padova, ma essendo un “ammalato di calcio”, volevo allenare perché il richiamo del lavoro sul campo era troppo forte.
Quando si concretizzò il tuo ritorno in panchina?
Era il novembre del 2001. Rumignani mi voleva come suo allenatore in seconda a Benevento in Serie C1, mi venne a prendere con la macchina a Città di Castello e andammo ad Avellino a casa di Pierpaolo Marino. Lì firmai il contratto con i giallorossi. Giorgio era solito non andare in panchina nelle prime giornate e così mi ritrovai la domenica ad essere alla guida della squadra. Una grande emozione che divenne ancora più forte quando lui si dimise a una giornata dalla fine della stagione regolare e con i play out da disputare. Gli chiesi se dovevo restare, così come la società mi aveva chiesto, e Rumignani mi disse di sì, perché per me poteva essere una chance importante. Così restai e quello fu il primo di 5 play out che ho vissuto nella mia carriera da tecnico. Tutti vinti per fortuna, ma quanto stress. In quel caso poi fu un play out infinito, caratterizzato dalle tre gare giocate con la Nocerina guidata dal grande Pietro Paolo Virdis.
Cosa accadde?
Prima partita fuori casa, sospesa all’85° per impraticabilità di campo. A 5 minuti dalla fine quindi, cosa che non accade spesso in un contesto particolare diciamo. Rigiocammo dopo 2 settimane e a 5 minuti dalla fine il punteggio era ancora sullo 0-0. Mandai in campo Sossio Aruta, giocatore che molti ricordano anche per le sue successive vicende calcistiche nel reality Campioni, che segnò il gol vittoria. 1-0 per noi e anche se nella gara di ritorno in casa perdemmo, la salvezza fu nostra per il miglior piazzamento in classifica. Grande gioia e grande emozione, per me, per la società e per i tifosi, compresi quelli della Paganese che come raccontai nella precedente intervista, vennero a tifare Benevento e Fiorucci. A fine anno la società cambiò ed i nuovi dirigenti portarono un nuovo allenatore.
Le stagioni successive?
Nel 2002-2003 fui chiamato con Rumignani da Piero Mancini all’Arezzo in C1 per sostituire Paolo Beruatto. Una stagione travagliata e intensa in cui accadde di tutto. Rumignani si dimise, io rimasi anche quando ci fu il ritorno di Beruatto e poi divenni primo allenatore quando lui se ne andò di nuovo. C’erano Pascual, Sordo, Aglietti, Testini e anche i giovani Bricca e Cangi. Potevamo salvarci ed eravamo in zona play out, ma a poche giornate dal termine della stagione regolare Mancini mi mandò via. Purtroppo la squadra non si salvò, anzi la retrocessione fu diretta. Mancini era un presidente vulcanico, ma successivamente mi confessò di essersi pentito di quella decisione e mi fece un bel complimento dicendomi che le partite non le guardavo, ma le leggevo. Dopo Arezzo altre due chiamate in situazioni complicate e altrettante salvezze conquistate ai play out: prima con l’Imolese in C2 e poi con la Fidelis Andria in C1.
E poi l’anno in C1 con il Foggia. Sbaglio se la definisco la stagione più bella della tua carriera?
Non sbagli affatto. Andai come secondo di Rumignani, poi come già era avvenuto in passato lui si dimise, io rimasi. Dovevo restare massimo un paio di gare, il tempo che serviva alla società per trovare un allenatore esperto, come andava di moda in quel momento. Apro una parentesi dicendo scherzosamente ma neanche troppo che ho sbagliato epoca: quando ero un giovane le società puntavano su allenatori esperti, poi sono diventato esperto e hanno iniziato ad andare di moda i giovani. Comunque a Foggia le cose andarono bene fin da subito dato che pareggiammo in casa con l’Acireale e la domenica successiva fermammo il Napoli sul 2-2 grazie a Cantoro, giovane argentino che lanciai e che fece doppietta nello stadio che fu di Maradona. La società mi dette fiducia e fu una grande stagione. Giocavano un ottimo calcio, in una realtà che di bel calcio dopo Zeman se ne intendeva, facemmo 11 risultati utili di fila, una striscia che per i rossoneri rimase record per tanti anni, centrammo la salvezza e si creò un rapporto stupendo con l’ambiente a cominciare dal team manager Pirazzini e dal fisioterapista Rabbaglitti. Al ritorno pareggiammo ancora con il Napoli di Reja che dominò quel campionato e a fine gara Luca Lacrimini mi regalò la sua maglia. Vincemmo anche contro la Lucchese del maestro Gigi Simoni che disse “incontrare il Foggia di Fiorucci e venirne a capo è come cercare un ago in un pagliaio, squadra organizzatissima”. Un bel complimento, fatto da un ottimo allenatore e da un uomo straordinario.
Quale è stato il complimento più bello che hai ricevuto in carriera?
Quando dicevano “si vede la mano di Fiorucci”. Ne vado orgoglioso perché indipendentemente dai risultati le mie squadre hanno sempre cercato di giocare alla pari con tutte e anche nelle annate più storte la dignità non è mai mancata.
Quali le tappe dopo Foggia?
Purtroppo a Foggia cambiò la società, altra costante della mia carriera, e le nostre strade si separarono. Nel gennaio 2007 i nuovi dirigenti mi richiamarono ma avevo dato la mia parola al Teramo in Serie C1 e per me la parola è sacra. A Teramo le cose non andarono bene e gli episodi non furono dalla nostra. In semifinale di Coppa proprio con il Foggia l’eliminazione arrivò all’ultimo minuto dei supplementari per un gol segnato dal loro portiere Castelli con una mano. Nonostante il bel rapporto con il vulcanico presidente Romy Malavolta, che di ritorno da Miami mi chiamava per andare a cena a qualsiasi ora anche della notte, fui esonerato e fu la seconda e ultima volta in carriera, dopo il precedente di Arezzo. Dopo Teramo sono stato alla Sansovino, in C2 in una stagione tribolata che finì con la retrocessione, ma che portammo a termine, nonostante tutto, con grande dignità, poi dal 2008 al 2010 due salvezze consecutive in Serie D raggiunte ai play out alla guida dell’Orvietana, prima contro lo Sporting Terni e poi contro il Montevarchi. In quelle annate portai con me il grande Michele Tardioli come preparatore dei portieri e un giovane preparatore atletico, Francesco Sinatti, che poi ha raggiunto il meritato successo con Sarri. Di quegli anni resta anche il grande rapporto di amicizia con il presidente Biagioli, una persona eccezionale con cui ci fu sintonia fin da subito. È stato sicuramente il presidente con cui ho avuto il feeling migliore e un amico anche al di fuori del calcio, tanto che spesso a fine allenamenti andavamo a cena insieme.
Per te anche una bella stagione in terra biturgense…
Al Sansepolcro la società mi dette fiducia nonostante un girone di andata complicato a causa degli infortuni soprattutto in attacco, poi un super girone di ritorno con l’avanzata di Gorini, che fece tanti gol, e la bravura di un gruppo giovane e compatto. A 5 giornate dalla fine, dopo il successo ottenuto a Viterbo, eravamo a 1 punto dai play off e in gran forma, ma dovemmo fare i conti le tante assenze dovute anche alla gestione dei doppi impegni dei giovani, sabato e domenica. Peccato perché avrei potuto disputare i primi play off della mia carriera.
Negli anni successivi sempre in Serie D?
A Pierantonio capitai in un momento molto difficile e me ne andai dopo un mese perché mi erano state fatte promesse poi non mantenute, a Torrecuso facemmo un’ottima stagione con il 5° posto finale e tanti giovani lanciati in prima squadra, a Mezzolara fui chiamato a gennaio e ci salvammo direttamente, senza passare per i play out. Per la prima volta in carriera giocai con il 3-4-1-2 in cui nel ruolo di suggeritore misi Bazzani. Un’intuizione felice che ci agevolò nel gioco e nei risultati. Poi tornai nella mia Città di Castello le due stagioni seguenti. Nella prima centrammo la salvezza, nella seconda continuammo a giocare con tanti giovani nonostante evidenti problemi societari. Lottavamo ogni partita, restammo nonostante le difficoltà permettendo al Castello di mantenere il titolo, in quello che io definisco “il campionato della dignità”. Poi Trestina con il mio arrivo al 14° turno e la conquista della salvezza e poi gli ultimi 2 anni all’Orvietana in Eccellenza. Non potevo dire di no a Biagioli e sono state 2 belle annata, la seconda in lotta per i play off con una squadra molto giovane.
Qui finisce la tua carriera di allenatore e arriva la chiamata del Tiferno del presidente Bianchi.
Due anni fa ho avuto un infarto e sono comunque tornato ad allenare, però poi dopo 30 anni di carriera ho deciso di smettere. La situazione di emergenza dovuta al Coronavirus è stata una spinta ulteriore, ma avevo già maturato questa idea. Sentivo la necessità di staccare e di stare più tempo a casa assieme a Graziella, la mia compagna che ringrazio per essermi stata sempre accanto e per aver sostenuto la mia passione. Questa estate mi ha chiamato Roberto Bianchi e fin dal primo incontro si è creato grande feeling. Ha un entusiasmo coinvolgente e tanto amore per il calcio tifernate, così quando mi ha chiesto di fare il direttore operativo ho accettato senza esitazioni. Sono felice di poter dare il mio contributo a questa società che tanto sta facendo per la nostra città. Vivo questa esperienza con meno pressioni rispetto a quante ne avevo in panchina, ma sono al campo ogni giorno e si è creato un ottimo rapporto con tutti. La squadra sta facendo grandi cose e all’esordio in Serie D si trova meritatamente in testa alla classifica. È una stagione anomala con rinvii e con tutte le situazioni legate al Coronavirus e la viviamo giorno dopo giorno. Vedremo come sarà la classifica a marzo e se saremo ancora lì ce la giocheremo. Senza pressioni e con tanto entusiasmo.
Soddisfatto della tua carriera da tecnico?
Assolutamente sì. Al calcio ho dato tutta la mia vita e penso di aver raccolto abbastanza. In alcuni momenti le cose potevano girare meglio, ma in generale penso di aver avuto quello che meritavo. Ho girato l’Italia in lungo e in largo, vivendo tante esperienze in campo, aggiornandomi continuamente da autodidatta e con la mia infinita passione. Tra le soddisfazioni più grandi anche quella di essere stato ammesso al corso e di aver conseguito il titolo di Allenatore Professionista di Prima Categoria, Diploma Pro Uefa. Un sogno realizzato in un percorso affrontato con ex campioni come Cannavaro, Inzaghi, Materazzi, Grosso, Zambrotta, Crespo, Galli, Iuliano, Negro, oltre che altri grandi personaggi come Alberto De Rossi e Stramaccioni. La mia carriera in panchina era quasi al termine, ma mi sono impegnato tanto ed è stato un periodo meraviglioso. Con tutti si è creato un bel rapporto, in particolare con Stramaccioni e con Negro che è venuto poche settimane fa a casa mia a trovarmi. Ho lavorato anche 2 mesi in Serie A come collaboratore al Genoa di De Canio, con cui avevo giocato al Galatina. Tante belle avventure che mi hanno arricchito. Il mio rimpianto da allenatore è legato a quello da giocatore perché se da giovane non avessi lasciato il ritiro con la Spal avrei potuto fare una carriera in campo più importante e magari iniziare la vita da allenatore a un livello più alto, ma sono felice così perché sono partito dal basso conquistando con le mie forze ogni traguardo.
La prima parte dell’intervista a Silvano Fiorucci: