«A prescindere da quanto possano diventare corrotti e avidi il nostro governo, le nostre aziende, i nostri media, Wall Street e le nostre istituzioni religiose e benefiche, la musica resterà sempre una cosa meravigliosa. Se mai dovessi morire – Dio non voglia – vorrei che sulla mia lapide ci fosse scritto: L’unica prova che gli serviva dell’esistenza di Dio era la musica”». Così scrisse Kurt Vonnegut, celebre scrittore americano di origine tedesche, con parole forse troppo dure verso il mondo, ma intrise di amore per la musica, tanto da conferire loro un’intensa aura di sacralità: proprio come quella che inevitabilmente si respira al Santamaria, noto locale valtiberino il cui palco si erge all’interno di una struttura precedentemente chiesastica nel centro storico di Lama. L’antico portone in legno e le spesse mura rivestite di tele ad hoc e materiale insonorizzante hanno visto esibirsi un’ingente quantità di musicisti locali, nazionali e internazionali di differenti provenienze, da Sansepolcro a Città di Castello, da Arezzo a Milano, dalla Grecia al Belgio, creando quelle occasioni di incontro interessanti e divertenti che oggi, durante le ristrettezze date dall’infausto coronavirus, ci mancano tanto.
Non a caso Matteo Pellegrini, organizzatore e gestore del locale, parla proprio di “funzione sociale” dei posti in cui si propongono (o proponevano) concerti live: «La musica fortunatamente non manca in questo periodo: c’è chi suona sul balcone o chi fa dirette sui social e infatti bisogna pensare positivo. Allo stesso tempo però questi strumenti, pur avendo tanto potenziale, non possono purtroppo essere una soluzione al problema: guardare un concerto su Facebook seduto da solo al tavolo davanti al pc è diverso da un concerto dal vivo. Tanto di cappello agli artisti, locali e meno locali, che fanno questo, ma il bagaglio emotivo che porta con sé il live purtroppo viene meno insieme a quella funzione sociale del luogo». Quasi che, se ci pensiamo, sentiamo la mancanza anche dello spintone accidentale nella calca dell’arrivo-prima-io: “per favore, puoi darmi un fazzoletto che mi è caduta un po’ di birra per terra?”.
«Le misure obbligatorie prese dal governo sono inevitabili data la situazione,» continua Matteo: «speriamo solo che duri il meno possibile e magari, nel frattempo, speriamo di poter imparare qualcosa. Non ci sono programmi precisi e non se ne possono fare. Anche se più avanti potremo essere nuovamente in grado di fare piccoli concertini, anche in previsione della stagione estiva, ci sarà comunque un pensiero importante dietro. Non si può ripartire a tutti i costi, ma solo senza pesi sulla coscienza, quando le acque saranno davvero calme. Penso molto e mi chiedo: quando? La risposta può solo essere: quando ci saranno le condizioni. Nel frattempo quello che mi auguro è una responsabilità e presa di coscienza generale». Quando afferma questo, Matteo avvia un discorso generale e sociale in riferimento a sé stesso e agli altri locali: «L’Altotevere è un bacino piuttosto piccolo e non puoi ignorarti, al contrario è bene prenderci tutti in considerazione. Anche in passato abbiamo cercato di compattare le forze, instaurare un dialogo tra locali simili o associazioni per creare, ad esempio, calendari condivisi. Spero perciò che dopo questo terribile periodo gli operatori culturali tornino a ricompattarsi e facciano squadra per ripartire insieme, affinché tutte le realtà come la mia sopravvivano e possano tornare ciò che erano in un nuovo avvio con le idee chiare. Spero che ci verremo sempre incontro e spero nella disponibilità di tutti i locali alle collaborazioni… anche perché la musica live, in realtà, non viveva un momento così splendido già prima del coronavirus». Matteo esplicita infatti un problema che oggi, nella più completa lontananza e nell’obbligo assoluto di isolamento sociale, sembra tanto distante, insieme a una serie di questioni che chissà in quanti penseranno: chissà in quanti diranno “come vorrei andare a un concerto stasera”, chissà in quanti realizzeranno “avrei potuto partecipare a quella serata in quel locale, andare a sentire i miei amici che suonavano, andare a vedere quel gruppo anche se non avevo idea di chi fosse”.
Matteo ride quando afferma che «mi sembra esagerato parlare di me come un imprenditore culturale», eppure l’espressione è quanto mai azzeccata: «di locali che fanno live ce n’è bisogno come il pane. Speriamo che questa astinenza sviluppi nel pubblico una fame di cultura».
Non sappiamo quando terminerà questo digiuno che, nella cultura cristiana coincide proprio con il periodo di Pasqua come parte di questo attacco del virus. Non sappiamo come sarà tutto quando potremo tornare ad una vita sociale, seppur vagamente normale: se ci saranno spintoni accidentali, balli scatenati o accennati battiti dei piedi, abbracci collettivi e onde di accendini accesi. Ciò che speriamo è che quella preferenza di restare a casa piuttosto che andare a un concerto diventi sempre meno frequente, che quante più persone avvertano in un futuro (speriamo quanto più) prossimo il desiderio di fruirne, di esserne parte attiva, da lontano o sotto il palco, con o senza drink; mentre ciò che sappiamo con certezza è che la musica sarà sempre disponibile a nutrire le anime affamate, senza chiedere niente indietro.