Sacco e Vanzetti un secolo dopo

Su Oltre il Tevere la storia dei due italiani diventati loro malgrado immortali simboli di lotta per la giustizia

Una cartolina postale del Soccorso Rosso Internazionale dedicata a Sacco e Vanzetti (Céach, CC BY-SA 4.0)

In molte città italiane capita spesso di trovare una strada dedicata a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti e capita altrettanto spesso che neppure chi ci abita sappia chi erano i due personaggi. Circa un secolo fa i nomi dei due italiani echeggiarono in tutto il mondo poiché al centro di una incredibile vicenda giudiziaria che li portò sulla sedia elettrica. Le mobilitazioni in molte nazioni non servirono a salvarli, ma paradossalmente contribuirono a renderli immortali. E proprio a questo concetto farà riferimento, a pochi mesi dalla morte, Bartolomeo Vanzetti durante un’intervista sulla propria situazione e su quella di Nicola Sacco.

Se non fosse stato per queste cose, avrei probabilmente vissuto la mia vita là fuori, parlando agli angoli delle strade con uomini disprezzati. Sarei potuto morire trascurato, sconosciuto, un fallimento. Ora noi non siamo un fallimento. Questa è la nostra carriera e il nostro trionfo. Nella nostra intera vita non avremmo mai potuto sperare di realizzare una simile missione in favore di tolleranza, giustizia e comprensione fra gli esseri umani come adesso stiamo facendo accidentalmente. Le nostre parole – le nostre vite – le nostre pene – non hanno alcuna importanza. Il vero fine delle nostre esistenze – le vite di un buon calzolaio e di un povero pescivendolo – è aver fatto tutto questo! L’ultimo e definitivo istante ci appartiene – una tale agonia è il nostro trionfo!”.

Le parole di Vanzetti hanno ispirato Joan Beaz ed Ennio Morricone per la celebre canzone Here’s to you, parte della colonna sonora del film Sacco e Vanzetti, produzione italo-francese del 1971.

L’orchestra Roma Sinfonietta e il coro del Teatro La Fenice eseguono Here’s to You diretti da Ennio Morricone a Venezia nel 2007

Chi erano Sacco e Vanzetti

Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti erano due italiani emigrati negli Stati Uniti d’America nei primi anni del XX secolo. Sacco era pugliese ed arrivò negli Usa nel 1913 mentre Vanzetti, piemontese, era già lì dal 1908. Il primo lavorò principalmente come operaio nel settore calzaturiero, mentre il secondo cambiò molti lavori fino a quando nel 1919 rilevò un banco per la vendita del pesce. Si conobbero nel 1916, momento in cui entrambi prendevano parte a scioperi e manifestazioni politiche. Assieme ad altri italiani scapparono in Messico per evitare di essere arruolati nell’esercito americano durante la prima guerra mondiale. Nessuno di loro, essendo di ideali anarchici, voleva in alcun modo partecipare ad una guerra dove uomini si sarebbero uccisi in nome della propria nazione, ideale al quale non credevano. Rientrarono nel Massachusetts a fine guerra e ripresero sia il lavoro che le attività politiche e sindacali.

Negli stessi anni dilagava la paura rossa e nei paesi industriali c’era un reale timore che le masse, in particolar modo gli immigrati, si potessero sollevare come avvenuto in Russia nel 1917. Naturalmente queste preoccupazioni erano ben insinuate nella classe borghese e nel potere politico. Per quanto gli Stati Uniti fossero un paese di migranti e di fatto non esistesse una popolazione autoctona se non quella indiana, gli ultimi arrivati costituivano la parte più bassa della scala sociale, spesso sfruttata e maltrattata. Molti si organizzarono all’interno dei sindacati per cercare di tutelarsi. Gli italiani erano tra i più organizzati e allo stesso tempo tra i più perseguitati, in particolare quelli di ispirazione socialista o anarchica.

Nicola Sacco (a sinistra) e Bartolomeo Vanzetti

L’arresto e l’incriminazione

Sacco e Vanzetti erano noti alle forze dell’ordine proprio per la loro attività sindacale proprio come Andrea Salsedo, anarchico siciliano che oltre ad essere attivo nel sindacato pubblicava periodici di informazione sovversiva. Arrestato nel febbraio del 1920, fu sottoposto ad una serie di pesanti interrogatori senza neppure avere l’assistenza del proprio avvocato. Il 3 maggio cadde dal quattordicesimo piano del palazzo dove aveva sede l’FBI. La versione ufficiale fu quella del suicidio, ma tra gli italiani circolava la voce dell’omicidio. Vanzetti avrebbe dovuto occuparsi di promuovere ed organizzare un comizio il 9 maggio per chiedere la verità sulla morte di Salsedo, ma fu arrestato prima.

La sera del 5 maggio Sacco e Vanzetti dovevano effettuare attività di propaganda per il comizio ma furono arrestati a bordo di un tram perché trovati in possesso di due pistole che inizialmente negarono di avere. Dalla perquisizione oltre alle due armi emersero proiettili e materiale anarchico. Il fatto che la pistola di Sacco fosse lo stesso modello dell’arma usata per una rapina con duplice omicidio avvenuta in un calzaturificio alcune settimane prima portò le indagini a concentrarsi su di loro. Fu ipotizzato che la rapina servisse per finanziare le attività del movimento anarchico e furono messi in discussione gli alibi che entrambi fornirono. Sacco quel giorno non era al lavoro poiché si era recato al consolato italiano per organizzare il suo ritorno in Italia a causa della morte della madre, mentre Vanzetti affermò di essere stato al suo lavoro di pescivendolo ambulante.

I fatti in questione erano avvenuti il 15 aprile 1920 a South Braintree, non lontano da Boston, quando un gruppo di persone assalì il cassiere Frederick Parmenter e la guardia giurata di origine italiana Alessandro Berardelli presso il calzaturificio “Slater and Morril”. Sacco e Vanzetti vennero rinviati a giudizio per la rapina e gli omicidi di South Braintree e il solo Vanzetti per un’ulteriore tentata rapina avvenuta nel giorno della vigilia di Natale del 1919 a Bridgewater.

Il processo

Il processo prese il via un anno dopo, il 21 maggio 1921. Il giudice era Webster Thayer e l’accusa venne sostenuta dal procuratore Frederick Katzmaan. Il principale avvocato della difesa dei due italiani fu Fred Moore, noto come socialista e attivo in molte cause dove si trattava di difendere esponenti del sindacato dei lavoratori. Sicuramente Moore ebbe il merito di riuscire a far arrivare la notorietà del processo ben oltre l’aula del tribunale cercando di far passare Sacco e Vanzetti anche come martiri politici. Allo stesso tempo con il suo atteggiamento provocatorio e lo scarso rispetto verso la corte contribuì sicuramente a non creare un buon clima verso i propri clienti da parte della giuria popolare.

Fin da subito si ebbe l’impressione di un processo indirizzato verso la condanna dei due imputati. Tra i testimoni che si susseguirono ci furono i lavoratori presenti al calzaturificio durante la rapina, tra i quali alcuni riconobbero Sacco e Vanzetti rispettivamente impugnare la pistola e guidare l’auto della rapina assieme ad altri tre complici. Tutto questo nonostante Vanzetti non avesso la patente e non avesse mai guidato un’automobile. Secondo alcuni testimoni Sacco perse il cappello durante la fuga. Gli fu fatto misurare in sede processuale quello rinvenuto, che risultò di taglia molto diversa dalla propria. La pistola di Sacco risultò compatibile con i proiettili dell’omicidio ma non vi era la certezza che quella fosse la pistola che aveva effettivamente sparato. Si cercò di dimostrare che Vanzetti aveva sottratto la pistola alla guardia Bernardelli dopo la sparatoria e che la stessa era quella trovata addosso all’italiano la sera dell’arresto, cosa successivamente smontata dalla difesa. Infine l’aspetto più controverso fu quello relativo agli alibi non riconosciuti dal giudice e dalla giuria. Lo stesso procuratore arrivò a sostenere che le deposizioni degli altri immigrati italiani, e perfino del personale consolare, non potevano essere tenute in considerazione come quelle dei cittadini americani.

Successivamente il dibattimento si concentrò più sulle idee politiche dei due imputati piuttosto che sui fatti accaduti, come se l’appartenenza politica al movimento anarchico fosse di per sé un elemento che concorreva alla condanna. Il processo si trasformò in una sorta di esempio della persecuzione che gli Stati Uniti riservavano verso coloro che sostenevano idee rivoluzionarie, ancora di più se immigrati. Il giudice Thayer dimostrò più volte di disprezzare i due imputati non perdendo occasione anche fuori dal tribunale di definirli “bastardi anarchici” o addirittura “bolscevichi”, seppure non fossero comunisti. Non mancarono parole di fuoco contro l’avvocato Moore, non ben visto sia per le idee politiche che per la sua provenienza californiana. In questo clima si arrivò, il 21 luglio 1921, dopo poco più di due mesi di processo e con appena tre ore di camera di consiglio, alla condanna a morte di Sacco e Vanzetti.

Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla nel film di Giuliano Montaldo del 1971 Sacco e Vanzetti

I tentativi di appello e revisione

All’epoca non era automatico un processo di appello. Il giudice doveva autorizzare lo svolgimento di un secondo dibattimento qualora emergessero ulteriori elementi degni di essere presi in considerazione. La condanna a morte aumentò la notorietà di Sacco e Vanzetti e la loro storia fece il giro del mondo. In molte città si svolsero proteste davanti alle ambasciate degli Stati Uniti. Se inizialmente l’interesse verso questa storia coinvolse solo le comunità anarchiche o italiane, ben presto si mobilitarono in loro sostegno anche molte persone lontane dal loro modo di pensare. La percezione che i due fossero diventati capri espiatori delle politiche anti-immigrazione e anti-radicali degli Usa fu avvertita ad ogni latitudine.

Se tra la condanna in aula e l’esecuzione della pena capitale trascorsero sei anni fu grazie a quello che questa storia riuscì a muovere e ai vari tentativi di far svolgere un nuovo processo. Tra i tentativi di revisione avvenuti tra il 1923 e il 1924, alcuni vertevano su nuove tecniche di analisi balistiche che diminuivano la probabilità che fosse stata la pistola di Sacco a sparare durante la rapina. Emerse anche che la stessa pistola nel corso degli anni fu manomessa con parti sostituite. Un altro elemento interessante furono delle dichiarazioni di alcuni membri della giuria popolare che non nascosero sentimenti contro gli italiani e gli immigrati. Infine alcune testimonianze dei lavoratori del calzaturificio furono ritrattate. Tutto questo non servi a far cambiare idea al giudice Thayer sulla riapertura del processo.

Perfino il governo fascista italiano, forse Mussolini in persona, chiesero agli Stati Uniti di rivedere la condanna. Il Duce voleva assolutamente evitare che degli antifascisti diventassero martiri e allo stesso tempo aveva l’obiettivo di dimostrare come la politica italiana potesse ottenere risultati. Nel frattempo neppure gli appelli alla Corte Suprema, l’organo che avrebbe potuto annullare il processo di Boston, sortirono risultati. Moore fu sostituito dall’avvocato William Thomson che cercò di indagare su eventuali altri responsabili della rapina, convinto che potesse essere una strada per discolpare Sacco e Vanzetti.

Una lettera del “Comitato pro Sacco e Vanzetti” costituito a New York (Boston Public Library)

La confessione di Madeiros

Celestino Madeiros era un detenuto di origine portoghese arrestato per alcune rapine con omicidi. Decise di confessare il suo coinvolgimento nella rapina di South Braintree e seppure senza fare nomi fornì dettagli che riconducevano alla Banda Morelli, un gruppo di criminali italo-statunitensi attivo nel vicino Rhode Island, che in quel periodo prendeva di mira anche alcuni calzaturifici. La confessione del portoghese avrebbe spostato il movente del delitto da azione di finanziamento politico del gruppo radicale a una rapina all’interno di attività criminali. Ulteriori elementi che potevano aiutare a riaprire il caso furono la forte somiglianza fisica tra Nicola Sacco e Joe Morelli e l’auto usata in altre rapine, dello stesso modello di quella utilizzata per la rapina del 15 aprile 1920.

L’avvocato Thomson raccolse ulteriori testimonianze e incluse ben 64 dichiarazioni giurate sul nuovo scenario che avrebbe potuto riaprire il processo. Tra il 1926 e la primavera del 1927 venne esaminato il caso che ottenne ancora una volta un parere negativo per un nuovo processo da parte di Thayer. Venne avallata la tesi della procura che vedeva nella confessione di Madeiros un modo di ritardare la sua stessa condanna a morte. Nel frattempo anche il portoghese venne condannato per altri crimini, ma l’esecuzione non venne autorizzata poiché era ancora utile in vita come possibile testimone al processo di Sacco e Vanzetti. Il conseguente ricorso alla corte suprema non diede i risultati sperati, confermando quando deciso da Thayer in precedenza. A questo punto anche buona parte della stampa statunitense cominciò a denunciare l’incomprensibile atteggiamento della giustizia americana nei confronti di Nick e Bart.

Le ultime mobilitazioni e le esecuzioni

Anche nomi eccellenti come quelli di Albert Einstein, George Bernard Shaw, Herbert George Wells, Bertrand Russel, Dorothy Parker, John Dos Passos e nuovamente anche il governo italiano si attivarono per chiedere di riaprire il caso assieme a milioni di persone in tutto il mondo. Come risposta il 9 aprile 1927 il giudice Thayer confermò la condanna alla sedia elettrica per Sacco e Vanzetti, stabilita per la seconda settimana di luglio. In aula, come ultima dichiarazione, Sacco tacque mentre Vanzetti, dopo sette anni di carcere, pronunciò la storica frase:

Ho da dire che sono innocente. In tutta la mia vita non ho mai rubato, non ho mai ammazzato. Non ho mai versato sangue umano. Io. Ho combattuto per eliminare il delitto, primo fra tutto lo sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo. E se c’è una ragione per la quale sono qui è questa e nessun altra…

…quando le sue ossa, signor Thayer, non saranno che polvere, e i vostri nomi, le vostre istituzioni, non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il suo nome – il nome di Nicola Sacco – sarà ancora vivo nel cuore della gente. Noi dobbiamo ringraziarvi. Senza di voi saremmo morti come due poveri sfruttati: un buon calzolaio, un bravo pescivendolo… E mai, in tutta la nostra vita, avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini…

…non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie”.

La sentenza fu rinviata due volte dato che fu richiesto l’intervento del governatore del Massachusetts Alvan Fuller che, seppure fortemente conservatore e secondo molti prevenuto sul caso di Sacco e Vanzetti, decise di incontrare personalmente i due italiani e nominare una commissione sulla questione per stabilire la grazia o la commutazione della pena. Come da previsioni la richiesta fu respinta e l’esecuzione fu stabilita per i primi minuti del 23 agosto 1927. Nei giorni che precedettero la condanna a morte si tennero manifestazioni attorno al carcere al punto che furono installate mitragliatrici sui muri di cinta per prevenire possibili assalti alla prigione. Rifiutati i conforti religiosi, appena passata la mezzanotte, prima Madeiros, quindi Sacco ed infine Vanzetti furono giustiziati sulla sedia elettrica. Le ultime parole di Vanzetti furono di ringraziamento sincero verso il personale della prigione per come era stato trattato durante la detenzione. Sacco lasciò una moglie e due figli, Vanzetti la moglie.

Dettaglio dal murales “The Passion of Sacco and Vanzetti”, realizzato nel 1967 dall’artista Ben Shahn all’università di Syracuse. Foto DASonnenfeld (CC BY-SA 3.0)

Il ricordo e le ulteriori perizie processuali

Non morirono solo Sacco e Vanzetti, ma anche molte altre persone nel mondo a seguito di incidenti e repressioni della polizia. Le attività del comitato per la loro difesa non terminarono con la morte degli imputati. Ai funerali a Boston parteciparono circa duecentomila persone e le loro ceneri furono riportate in Italia dove riposano nei cimiteri dei loro paesi di origine, Torremaggiore per Sacco e Villafalletto per Vanzetti.

Negli anni continuarono i dibattiti sulla loro innocenza che tuttora oggi non può essere del tutto dimostrata. Successivamente alla morte del bandito Joe Morelli emerse un manoscritto che affermava che Sacco e Vanzetti presero parte alla rapina al calzaturificio. Suo fratello Frank Morelli, alcuni anni dopo e poco prima di morire, disse l’esatto contrario, ovvero che i due italiani vennero condannati al loro posto. Analisi balistiche successive affermano che la pistola di Nicola Sacco ancora in possesso delle autorità fu quella che sparò effettivamente i proiettili che uccisero Bernardelli, ma va ricordato che durante la detenzione di Sacco la prova fu manomessa con la sostituzione di alcuni pezzi, se non addirittura lo scambio dell’arma. L’ex anarchico Carlo Tresca, attivo negli Usa all’epoca dei fatti, sosteneva che probabilmente il solo Sacco ebbe un ruolo nella rapina. Gli avvocati che difesero i due italiani ebbero posizioni personali diverse tra chi li riteneva colpevoli e chi no. Nel 1977, in occasione dei cinquanta anni dalla morte di Sacco e Vanzetti, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis fece il seguente proclama:

Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti”.

Con l’occasione venne installata a Braintree una targa a ricordo dei due italiani proprio lungo Pearl Street, all’incrocio con French Avenue nel luogo dove avvenne la rapina del 1920. Seppure non ci sia ancora oggi una risposta assoluta riguardo alla colpevolezza di Sacco e Vanzetti, è assodato con certezza che non furono sottoposti ad un processo giusto ed equo ed il loro caso è tuttora oggi considerato l’esempio di come non devono essere i procedimenti di giustizia. In Italia oltre a numerose strade e piazze che ricordano i due italiani ci sono associazioni e una scuola dedicata a Vanzetti nel suo paese di origine. All’estero non mancano riferimenti a Sacco e Vanzetti e nell’ex Unione Sovietica ci fu quasi una venerazione nei loro confronti, con strade a loro dedicate già alla fine degli anni ‘20, mentre in Italia si dovette attendere il dopoguerra. Nel centro di Mosca c’era una fabbrica di matite a loro intitolata, a Stalingrado una di attrezzature mediche, e due navi da trasporto sovietiche furono chiamate rispettivamente “Sacco” e “Vanzetti”. Non in tutte le repubbliche nate dalle ceneri dell’Urss la toponomastica è rimasta quella di prima e alcune strade dedicate ai due italiani hanno cambiato nome. Su questo sarebbe importante un impegno delle sedi diplomatiche e delle associazioni culturali italiane a difesa di questa importante memoria. Come testimonial di ingiustizia e persecuzione, Sacco e Vanzetti sono diventati importanti riferimenti anche per alcune campagne di Amnesty International.

Matite della fabbrica moscovita “Sacco e Vanzetti”. Foto Sealle (CC BY-SA 4.0)

Ricordati sempre, Dante, della felicità dei giochi non usarla tutta per te, ma conservane solo una parte… aiuta i deboli che gridano per avere un aiuto, aiuta i perseguitati e le vittime, perché questi sono i tuoi migliori amici; son tutti i compagni che combattono e cadono come tuo padre e Bartolo, che ieri combatté e cadde per la conquista della gioia e della libertà per tutti e per i poveri lavoratori”.

Sì, Dante mio, essi potranno ben crocifiggere i nostri corpi come già fanno da sette anni: ma essi non potranno mai distruggere le nostre idee, che rimarranno ancora più belle per le future generazioni a venire”.

dalle lettere che Nicola Sacco scrisse al figlio Dante nel 1927.
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