Romina Bravaccini è nata a Sansepolcro nel 1981 “sotto il segno del sagittario”, precisa, “che per me è un dato importante perché descrive questo mio carattere ottimista e portato al viaggio”. Studia all’ITC biturgense con indirizzo linguistico, poi arrivano la laurea in Lingue e letterature straniere (indirizzo orientale) all’Università di Firenze e più tardi un master in insegnamento dell’italiano come lingua straniera e lingua seconda a Perugia. Dopo la laurea trascorre un anno in Cina frequentando l’università e lavorando come insegnante di inglese. “È stato un momento molto importante della mia vita”, ci spiega, “perché lì ho avuto chiaro che non sarei rimasta al Borgo”. Poi studi indirizzati verso il campo olistico, i diplomi come massaggiatrice professionale e insegnante di yoga, corsi di comunicazione non violenta, educazione all’aria aperta e pedagogia Montessori. Oggi parla sette lingue (“alcune discretamente e altre meno”) e insieme al compagno Michael, che ne parla sei, ha due figli: Balian, di 12 anni, e Noa, di 6, che sono a quota quattro lingue ciascuno, per il momento. Romina vive con la famiglia a Gran Canaria, anche se i quattro si trovano adesso in Australia per un avventuroso viaggio, prevalentemente a piedi, di cui parleremo dettagliatamente nel corso di una lunga chiacchierata che pubblicheremo in due puntate. E che comincia tornando indietro di diversi anni.
Hai sempre avuto la passione per il viaggio e per la scoperta di altre realtà?
Da quando ricordo di avere ricordi. Forse anche per questo ho una grande facilità nell’apprendere una lingua straniera, l’ho sempre trovato molto facile, soprattutto per quanto riguarda la comprensione. Ho sempre avuto inoltre una grande passione per l’antropologia, tanto che ho costruito tutto il mio percorso universitario intorno a quello: ho studiato lingue però tutti gli altri esami li ho indirizzati verso lo studio antropologico, e ho anche avuto l’opportunità di partecipare a un campo di ricerca antropologica in Laos quando mi trovavo in Cina. Un’altra mia grande passione sono le stazioni e gli aeroporti. Fin da bambina mi è sempre piaciuto aspettare il treno, aspettare l’aereo, osservare le persone salire, scendere, immaginare da dove venivano, dove andavano.
A favorire questa tua indole c’è stato anche un esempio in famiglia.
Mia nonna, che a 26 anni, dopo una delusione amorosa, ha deciso di prendere quelle quattro cose che aveva, salire sul primo treno e partire per la Svizzera, andando a servizio per una famiglia anglosassone e lavorando poi in una fabbrica di sigari. Mi è sempre piaciuto ascoltarla raccontare di questa avventura, della forza che ha avuto nel cambiare tutto a 26 anni. Una donna all’epoca a 26 anni era vecchia anche per prendere marito. Mi raccontava che quando ha conosciuto mio nonno in Svizzera aveva 30 anni. Sono usciti insieme e la prima cosa che gli ha detto è stata: “Senti, io non ho tempo da perdere, o mi sposi o lasciamola così”. Mi faceva sempre molto ridere. I racconti delle sue avventure erano storie tragicomiche dovute al gap culturale, all’incomprensione. Inoltre, se proprio vogliamo dirla tutta, che la mia vita e la mia realizzazione sono all’estero è scritto nella mia carta astrale, nella numerologia, nel mio libro degli angeli. Insomma i vari santoni che ho incontrato nel mio cammino me lo hanno confermato.
Quando hai deciso di trasferirti definitivamente all’estero?
Nel 2007, dopo aver lavorato un anno come segretaria presso il centro Maithuna di Upacchi, avevo dato le dimissioni e mi stavo preparando per tornare in Cina. Qualche mese prima avevo incontrato Michael, e con lui ero appena tornata da una vacanza alle Canarie, che lui conosceva già da prima. Siamo partiti in due e siamo tornati in tre, e questo ha cambiato tutte le carte in tavola: ho messo da parte il mio rientro in Cina e ho iniziato a pensare al mio futuro da mamma. All’inizio mi sono trasferita a Merano perché Michael aveva un appartamento lì, e tra l’altro avevo ricevuto subito un incarico per una sostituzione estiva come postina. Però per il futuro io era abbastanza sicura di non voler stare a Merano e Michael non voleva stare a Sansepolcro. Nel frattempo ha ricevuto un’email dell’ex proprietario della nostra casa alle Canarie che ci offriva di comprarla. Costava poco perché non era proprio una “casa casa”, era una cueva, una specie di grotta.
E avete accettato.
Sia io che il mio compagno avevamo dei risparmi, quindi abbiamo detto sì. I primi anni sono stati un po’ va e vieni, stavamo un poco alle Canarie e tornavamo in Italia per lavoro. Io all’epoca a Merano insegnavo lingua italiana agli stranieri e avevo alcuni incarichi di mediatrice linguistica nelle scuole pubbliche, mentre Michael lavorava come tecnico audio e video per il teatro. Un po’ lavoravamo e un po’ tornavamo a costruire la nostra casa. È stato così per circa 6-7 anni, poi dopo che è nata la nostra seconda figlia ci siamo definitivamente trasferiti a Gran Canaria.
La costruzione della casa ha seguito un approccio improntato alla sostenibilità.
Quando abbiamo comprato la casa, anzi la grotta, a Gran Canaria, ci siamo regalati il nostro primo libro di permacultura, Introduzione alla permacultura di Bill Mollison. All’epoca ancora si parlava poco di permacultura in Italia, e leggendo questo libro abbiamo iniziato a progettare la costruzione della casa. Michael aveva già tanti piani su come costruirla, e ad oggi è una casa organica, sostenibile, completamente immersa nella natura, tanto che a volte è anche difficile vederla e tanti turisti che passano di lì si fermano a fare foto e a fare domande su come è stata progettata. Abbiamo utilizzato materiali del posto proprio per una questione di sostenibilità, in quanto noi viviamo a dieci minuti dal parcheggio, non si arriva con la macchina e andava pensato bene a tutto ciò che si poteva fare a meno di comprare e trasportare a spalla. È costruita con pietre, eucalipto e canna di bambù, e intonacata in argilla. Quindi è una casa che respira, con l’argilla che regola la temperatura e l’umidità della casa, garantendo un ottimo ambiente per la vita umana. Mantiene una temperatura costante che è ideale per il clima delle Canarie dove in estate si può arrivare a 40-42 gradi, mentre all’interno della casa ci sono sempre più o meno 25 gradi. Ha un tetto verde che fa da isolamento e che abbiamo utilizzato per coltivare una parte di orto, visto che non abbiamo molto terreno intorno a noi. Il terreno era infatti un letto di fiume e quindi la terra non è ricca, per questo abbiamo cercato di migliorarla attraverso vari fertilizzanti naturali, triturando alcune piante ed erbacce e mescolandole con lo sterco di animali. L’energia elettrica ci arriva dai pannelli fotovoltaici, non siamo attaccati alla rete elettrica, e con i pannelli solari scaldiamo anche l’acqua in estate. Per riscaldarla in inverno, invece, Michael ha costruito una stufa rocket in argilla molto efficiente. In più abbiamo un impianto a biogas, sempre studiato e progettato da Michael, per cui non si butta via niente, ricicliamo gli scarichi del water e il compost e così produciamo gas. Anche l’acqua viene riciclata, abbiamo un impianto di depurazione, quindi gli scarichi del lavandino, della doccia e della vasca vengono ripuliti e utilizzati per esempio per innaffiare l’orto.
Avevate chiaro dall’inizio il modo in cui avreste costruito la casa?
Io ho imparato tantissimo in questi anni, mentre Michael sapeva già che la nostra casa sarebbe diventata un laboratorio attraverso il quale sperimentare tutte le idee che aveva in mente. Per me invece era tutto nuovo: lui è stato il mio grande maestro. E poi è stato un progetto costruito a più mani, in quanto non solo ci abbiamo lavorato noi ma ospitavamo anche volontari, dato che eravamo nella piattaforma Wwoofing, e tanti tanti amici. Tanti valtiberini sono passati di lì, qualcuno più volte. Il lavoro è andato avanti per 12 anni, in parte alternato con periodi in Italia e con viaggi tra le isole e in Europa.
E intanto crescevate i vostri figli.
In questi anni siamo cresciuti come coppia, come famiglia, abbiamo fondato il nostro nido e portato avanti questo stile di vita che ci piace. Abbiamo deciso di continuare così, di non vivere per lavorare ma lavorare per vivere. I bimbi sono cresciuti, quando è stato il momento per Balian di entrare a scuola ha frequentato solo la prima e poi abbiamo deciso di intraprendere un altro progetto ancora, che è quello dell’educazione parentale. C’erano già altre famiglie vicino a noi che lo facevano ed è un tipo di educazione che si sposa anche con le nostre scelte e con il poterci muovere senza limiti e senza calendari. Non seguiamo un progetto pedagogico specifico in quanto credo che non ci sia una ricetta in pedagogia, ogni individuo è unico e irripetibile, ha i suoi tempi e i suoi interessi, e su quelli ci basiamo nella crescita dei nostri figli. È un’esperienza che ti dà tanto, in quanto non siamo noi i maestri, ma quella che stiamo sperimentando è un’educazione reciproca, una crescita reciproca. Da quando sono diventata mamma ho messo in discussione tutto quello che avevo chiaro e pensavo certo nella mia vita, per esempio riguardo alla salute, l’educazione, l’alimentazione. Perché nel momento in cui ho avuto tra le braccia il mio primo figlio mi sono resa conto che non avevo più responsabilità solo su me stessa ma anche su un’altra persona.
Come è arrivata l’idea di girare il mondo a piedi?
L’idea di viaggiare a piedi è partita dal mio compagno due anni fa. Ci sono rimasta malissimo, perché avevamo appena finito il progetto della casa ed era proprio il momento di godersela. Quando Michael è uscito con questa proposta l’ho guardato e gli ho detto: “Tu sei matto! Vai, io rimango a casa!”
Però siete partiti lo stesso.
Non ho chiuso le porte a questa idea, la dovevo solo digerire un po’. Ho iniziato a pensare che alla fine poteva essere un’altra bella esperienza, anche per i bambini, e che potevamo intanto iniziare e poi vedere. Così abbiamo cominciato a prepararci, per un anno abbiamo fatto vari cammini tra le isole Canarie, che per l’andamento che ha il territorio sono un posto ottimo per fare allenamento in salita e discesa. In questo modo abbiamo anche capito quali necessità avevamo per quanto riguarda l’equipaggiamento da portare.
Che consiste in?
Abbiamo comprato degli zaini ultraleggeri che ci sono arrivati dagli Stati Uniti, dei sacchi a pelo leggeri ma resistenti a basse temperature, abbiamo un fornellino anche questo ultraleggero che funziona con bastoncini di legno, senza dover portare dietro la bombolina del gas, e abbiamo minimizzato l’equipaggiamento da cucina: viaggiamo con due pentolini e due piattini apribili che diventato come dei fogli, quattro cucchiai, niente forchette, un coltellino svizzero a testa. E poi un cambio a testa di vestiti e delle buone giacche di piume che diventano molto piccole. E la tenda, che abbiamo cucito noi stessi per rispettare le esigenze che avevamo. È a forma piramidale, pesa solo un chilo e mezzo e i picchetti li facciamo di volta in volta utilizzando pietre o rami. In totale viaggiamo con 20 chili ripartiti proporzionalmente tra noi quattro, perché ognuno viaggia col proprio zaino, anche la Noa. Quando abbiamo iniziato a dirlo in giro c’è chi ci ha preso per pazzi, chi diceva: “Wow, che avventura, però io non potrei farlo!”, oppure: “I bambini non ce la faranno mai”. Mai sottovalutare i bambini, invece: la Noa ha camminato anche per 15 chilometri al giorno.
Che percorso avete fatto?
All’inizio il tragitto che avevamo disegnato prevedeva di partire dall’Italia in direzione Cina facendo la Via della Seta, poi però abbiamo ripensato il tutto sia perché certe tratte in stagioni fredde sarebbero state troppo ostiche, sia per le condizioni politiche di certi Paesi. Siamo partiti da Assisi, i primi 10 giorni è venuta anche mia mamma: per lei è stata l’avventura della vita, perché non era mai stata in tenda e non aveva mai fatto campeggi né bivacchi, come invece facciamo noi, che non andiamo in campeggio né in hotel ma bivacchiamo dove arriviamo alla fine della giornata. Arrivati ad Ancona abbiamo salutato mia mamma e abbiamo preso il traghetto fino a Patrasso, poi abbiamo attraversato il Peloponneso, da lì siamo passati a Citera e poi Creta, Rodi, quindi traghetto per la Turchia e Via Licia che ne costeggia la parte sud. Poi da Kaş abbiamo preso l’autobus e abbiamo tirato per la Cappadocia, dove abbiamo continuato a camminare. Dalla Turchia siamo andati a Cipro e qui è finita la prima parte del viaggio, che è durata quattro mesi. Siamo dovuti rientrare in Italia per fare documenti, rinnovare passaporti, e lì abbiamo un po’ ripensato a dove andare. Siccome come obiettivo, oltre a vivere il ritmo della natura, la lentezza e i nostri tempi, avevamo anche quello di far imparare l’inglese ai nostri figli, ho pensato di andare in Nuova Zelanda. Era novembre, iniziava l’estate, così abbiamo preso l’aereo per la Nuova Zelanda e siamo rimasti lì per tre mesi.
E lì avete ricominciato a camminare.
Non abbiamo solo camminato perché è vero che era estate, ma lì si vivono quattro stagioni in un giorno, e questo non lo sapevamo. Molte volte iniziavamo i cammini, prendevamo cinque ore di acqua e ricominciavamo tutti bagnati a camminare. Non era molto comodo. Abbiamo allora provato a fare l’autostop e abbiamo visto che funzionava bene, così abbiamo attraversato la Nuova Zelanda in quel modo. Abbiamo inoltre iniziato a fare volontariato, iscrivendoci alla piattaforma Workaway. L’esperienza è stata meravigliosa perché entri in contatto con le famiglie, vivi con loro, condividi le tue conoscenze, i tuoi saperi. È stato bellissimo anche per i bimbi, tra l’altro in Nuova Zelanda è abbastanza comune fare scuola in casa, o unschooling, come la chiamano lì, e quindi abbiamo incontrato molte famiglie con bambini a casa. Dopo tre mesi siamo arrivati in Tasmania e adesso siamo in Australia. Il nostro obiettivo era quello di risalire per l’Indonesia, passare per la Cina e piano piano tornare verso casa, però il Covid ci ha creato un po’ di problemi. Ma non ci ha fermato.