La carta d’identità segna 80 anni da poco compiuti (lo scorso 24 febbraio per la precisione), ma lo sguardo è quello di un ragazzino e le parole raccontano un’emozione ancora fresca e coinvolgente. Romano Micelli ha il calcio nel DNA e ha conservato intatta la stessa passione di quando correva su e giù per la fascia nei campi di tutta Italia. Una passione trasmessa con gli occhi e con la voce, un’emozione che viene direttamente dal cuore. Friulano di nascita ed aretino di adozione che con la maglia amaranto ha giocato due anni in Serie B dal 1969 al 1971. La sua storia sportiva è iniziata nel Ricreatorio di Udine, ha vissuto il primo momento nel calcio dei professionisti in Serie C a Monfalcone, è proseguita in Serie B con Messina e Catanzaro ed ha poi preso definitivamente il volo verso la Serie A. Nella massima categoria Romano ha esordito nel 1964-1965 con il Foggia, prima di giocare in quel Bologna che con Bulgarelli si piazzò al 2° posto e di vivere tre stagioni da protagonista nel Napoli, assieme a campionissimi del calibro di Zoff, Sivori e Altafini. Gli anni in rossoblù ed in azzurro lo hanno portato ad indossare la maglia della Nazionale Italiana. Una volta appesi gli scarpini, Micelli è rimasto nel mondo del calcio e si è dedicato soprattutto ai giovani, ma ha vissuto un’esperienza da allenatore della prima squadra a Sansepolcro e fatto da secondo a Ottavio Bianchi nel Napoli di Maradona. Una passione per il pallone che prosegue anche oggi visto che Romano è responsabile, assieme a Martinelli, del settore giovanile del Levane. Oggi ripercorreremo i momenti più emozionanti della sua storia calcistica.
Ci racconti i tuoi primi anni da calciatore?
“Sono nato in un paese di agricoltori ed in una famiglia piuttosto povera. Ho iniziato a giocare a calcio nel Ricreatorio di Udine in un ambiente sano e sereno e per guadagnare qualche soldo contemporaneamente facevo il muratore. Il mio desiderio era fare il calciatore e così fin da ragazzo ho cercato di dare il massimo per inseguire il mio sogno. Diciamo che sono stato fortunato, dato che poi mi ha chiamato il Monfalcone in Serie C. Così all’età di 20 anni ho smesso di fare il muratore e mi sono dedicato al calcio. Al mio debutto tra i professionisti ho subito fatto bene come ala destra, giocando quasi sempre e segnando anche 5 gol”.
Una stagione di spessore che ti permise di salire in Serie B, A Messina. Cosa ricordi di quella esperienza, che tra l’altro fu la prima lontano da casa?
“Un bel salto per un giovane, visto che mi trasferì dall’altra parte dell’Italia, ma anche una scuola di vita che mi permise di crescere tantissimo, ascoltando i consigli dei più esperti e adattandomi a questa nuova realtà. Fu un’esperienza molto positiva, anche se giocai poco. In panchina c’era Arcari IV, in campo c’era Bredesen, ottimo calciatore e grande uomo. Ricordo molto bene che quell’anno in Piazza Cairoli assaggiai il mio primo arancino, buonissimo”.
Dopo Messina, tre stagioni a Catanzaro. Giusto dire che fu una tappa fondamentale della tua carriera?
“Un periodo bello e importante a livello personale e calcistico. In panchina c’era Enzo Dolfin, tra l’altro un uomo alla mano e un grandissimo personaggio, che cambiò il mio ruolo facendomi passare da ala destra a terzino sinistro. A me piaceva attaccare, mentre lui mi vedeva in una posizione diversa. In una sfida con la Lazio senza dirmi nulla mi fece giocare a centrocampo e io toccai pochissimi palloni. Quando uscimmo dal campo mi chiese se ero contento di quel ruolo e io non risposi. La settimana dopo mi dette la maglia con il numero 3 a da quel momento fui sempre impiegato come terzino. Ebbe ragione lui. Negli anni di Catanzaro ricordo che partecipai ad un torneo Interleghe con i migliori italiani di Serie B. Una bella esperienza”.
Ne 1964-1965 il passaggio a Foggia e l’emozione del debutto in Serie A.
“Fu per certi versi una sorpresa e la realizzazione di un sogno. Mi trovai molto bene, in una città favolosa e con un tifo splendido. Il giocatore simbolo della squadra era l’attaccante Nocera, mentre in panchina c’era Oronzo Pugliese, allenatore che capiva di calcio, attento ai particolari. Esordire in Serie A fu meraviglioso. Giocai con continuità, segnai anche un gol e fui convocato in nazionale”.
La maglia azzurra rappresenta un sogno per tutti i calciatori. Quale l’emozione più grande per te?
“L’esordio fu a Firenze nell’amichevole vinta 4-1 con il Galles, con Fabbri in panchina ed accanto a campioni come Giacinto Facchetti. La nazionale era in fase di costruzione, ma per me fu una giornata memorabile. La notte della vigilia ripassai varie volte mentalmente le indicazioni e poi quando scendemmo in campo sentire l’Inno di Mameli fu da pelle d’oca. Successivamente passai al Bologna e venni convocato in azzurro per delle tournée in Nord Europa, ma non fui chiamato per i Mondiali. Delusione? No, perché c’erano tanti giocatori forti e perché quando dai il massimo in ogni momento non puoi avere rimpianti”.
1965-1966, una stagione al Bologna che l’anno prima aveva vinto lo scudetto e con tanti campioni. Il top del calcio italiano in quel periodo.
“Una squadra formidabile, piena di fuoriclasse. Da Haller a Pascutti passando ovviamente per Bulgarelli uno dei calciatori italiani più forti di sempre. Quanti ricordi di Giacomo, campione dentro e fuori dal campo, con la sua classe, la sua personalità, la sua disponibilità verso i compagni. Arrivammo al secondo posto, dietro la Grande Inter, vivendo una stagione importante ed in una piazza che ci permise di lavorare senza particolari pressioni. Giocai quasi sempre e segnai anche 3 gol. Ne ricordo uno in particolare, su punizione di seconda dal limite dell’area, contro il Torino. Il “Kaiser” Haller toccò il pallone, io calciai e la palla andò sul palo e poi finì in porta. Un bel gol! Feci bene, ma a fine stagione venni ceduto un po’ a sorpresa al Napoli”.
Tre stagioni a Napoli, con un 2° posto nel 1967-1968 e in una squadra anche in questo caso eccezionale.
“Juliano, Zoff, Sivori e Altafini. Direi che bastano questi nomi per raccontare la forza di quel Napoli. Allenarsi era un divertimento, la palla arrivava sempre precisa e io sarei rimasto in campo tutto il giorno. La tifoseria partenopea poi era favolosa, una spinta continua. Giocai anche in Coppa delle Fiere e affrontare le squadre del calcio europeo aveva un fascino particolare. Poi c’erano Sivori e Altafini che avevano doti tecniche fuori dal comune. Facevano cose stratosferiche. Mi ricordo un gol memorabile di José sugli sviluppi di un corner. Si era messo al limite, sulla lunetta, ricevette il pallone, lo controllò con il petto e prima che cadesse a terra calciò al volo, mettendolo all’incrocio dei pali. Aveva classe, personalità e la capacità di far scivolare le cose negative. Poi José era come dicevamo noi il fenomeno del quadrifoglio”.
In che senso?
“Quando eravamo in ritiro a passeggio su un campo lui trovava spesso e volentieri un quadrifoglio. Solo lui. Noi in venti niente, lui ogni tanto si abbassava e ne raccoglieva uno. Che risate”.
Quella con il Napoli fu anche l’ultima esperienza in Serie A. Poi due stagioni ad Arezzo in Serie B, in quella che diventerà anche la tua città.
“Mi chiamò l’Arezzo e fui felice di accettare, in una società seria ed in un ambiente giusto. Conquistammo due volte la salvezza, prima con Tognon e poi con Bellaci e furono due annate molto buone sia per me che per la squadra. Davvero un bel gruppo composto da amici come Pinella Rossi, Nardin, Tonani ecc. Si creò un feeling speciale con la città, forse perché ero da poco sposato e perché ad Arezzo nacque Massimiliano, mio figlio. Alle fine della stagione 1971 avevo 31 anni e per quei livelli, a quel tempo, si era già vecchi. Così decisi di avvicinarmi a casa e di fare un ultimo anno in Serie D con il Lignano. Dopo continuai a giocare a Blessano, nella squadra del mio paese fino a quando non mi fratturai tibia e perone. Lì dissi basta. Arezzo mi restò nel cuore però. Con mia moglie tornammo ad abitare qui e questa è diventata la mia città”.
Il calcio ha continuato a far parte della tua vita e spicca nel tuo percorso l’esperienza al Napoli, come vice di Bianchi, nella squadra dove c’era un certo Diego Armando Maradona.
“Ottavio mi chiamò e io accettati con grande entusiasmo. Fu un’altra meravigliosa esperienza perché non è cosa da poco vi assicuro vedere tutti i giorni giocare Maradona. Era il suo secondo anno al Napoli ed era già un idolo assoluto. Lui era sempre disponibile ed era un vero capitano, con un cuore grande e al contrario di quanto molti possono pensare si allenava con grande impegno, in campo e in palestra. Era umile e giocava per la squadra, poi aveva quel sinistro che era divino. Non nego che a volte mi fermavo ad ammirarlo nella sua immensa classe. Però una volta l’ho battuto. Forse mi ha lasciato vincere o forse no, chissà”.
Questa ce la devi raccontare.
“Prima dell’allenamento in campo c’era il carrello con tutta la roba e ci sfidammo a chi per primo avrebbe buttato il pallone dentro, con il tocco sotto. Io ci riuscii al secondo tentativo e lui al terzo. Poi ci guardammo e ci mettemmo a ridere. Questo era Diego, campione anche di umanità e amicizia. Era uno di noi”.
Hai giocato in squadra assieme a Bulgarelli, Zoff, Altafini e Sivori e hai visto da vicino Maradona. Di Pelé cosa puoi dirci?
“Pelè l’ho affrontato in una tournée di fine anno in Nord America, quando io ero a Napoli e lui ovviamente nel Santos. Aveva una qualità tecnica eccezionale e una potenza esplosiva impressionante. Un fenomeno di fronte a cui, come per Maradona, si restava a bocca aperta, ad ammirarlo. La sera avevamo giocato contro, la mattina dopo ci trovammo a fare acquisti insieme. Fu disponibile e molto sorridente. Ho avuto la fortuna di incrociare nel mio percorso calciatori stratosferici, ma non chiedermi classifiche perché non si possono fare paragoni tra epoche differenti”.
Da allenatore una breve esperienza a Sansepolcro e poi una vita dedicata ai giovani. Quale il tuo modo di intendere il calcio nei vivai?
“A Sansepolcro fui chiamato ad inizio anni ottanta in Serie C, ma le cose non andarono come avevo sperato. La società era in fase di assestamento e dopo poche partite fui esonerato. Nel calcio capita e vuol dire che doveva andare così. La mia passione è sempre stata lavorare con e per i giovani, trasmettere loro i valori e le cose che ho imparato nella mia vita calcistica e soprattutto l’amore per il pallone. I bambini, che in modo affettuoso io chiamo “trappolini”, giocano, si divertono e apprendono. Hanno però bisogno di attenzioni, di parole e di essere ascoltati. Io ho sempre cercato di capire carattere ed esigenze e provo a insegnare loro le basi, a livello tecnico ed emotivo. Mi piace parlare e non urlo mai, perché con i bambini non si deve a mio avviso mai alzare la voce. Oggi sono a Levane responsabile dell’area tecnica con il mio amico Enzo Martinelli ed insieme agli istruttori vogliamo dare il massimo per i giovani, puntando sulla cultura del lavoro. Il calcio è cambiato e spero che con l’evoluzione non si perdano certi valori. Nostro obiettivo è far sì che non accada”.
Romano, la tua è stata una vita dedicata al calcio. Cosa ha dato però il calcio in più alla tua vita?
“Tantissimo. Il calcio secondo me è innanzitutto uno specchio della vita e ti aiuta ad affrontare ciò che trovi ogni giorno fuori dal campo. Rispetto per le regole, per il gruppo, per gli avversari, passione ed entusiasmo, ma anche amicizie vere e durature e cultura del lavoro per raggiungere gli obiettivi. Io sono stato fortunato e ho realizzato il mio sogno”.