Roberto Pancrazi, nato a Sansepolcro nel 1979 e laureato in statistica all’Università di Firenze, insegna macroeconomia all’Università di Warwick, nel Regno Unito. Come avevamo già fatto in occasione della prima ondata, lo abbiamo contattato per provare a commentare i dati legati alla pandemia, partendo in primo luogo da quelli che riguardano il nostro territorio.
Che tipo di valutazioni si possono fare con i dati attualmente a nostra disposizione a livello locale?
È sempre molto difficile fare previsioni su quello che succederà tra una, due o tre settimane, ancora di più in una realtà piccola come quella di Sansepolcro. A mio avviso è quindi meglio essere sempre cauti nel cercare di estrapolare tendenze future con i soli dati locali a disposizione. Secondo me è più utile investire nel capire a fondo la situazione presente, mettendo in relazione i dati che arrivano con quelli dei giorni passati e con quelli delle realtà a noi vicine. Per esempio, Sansepolcro ha avuto un incremento dei casi la scorsa settimana rispetto alle settimane precedenti, mentre questa settimana sembra mostrare quanto meno un appiattimento di questo incremento. La stessa cosa del resto era avvenuta già dalla scorsa settimana nell’area umbra vicina a noi, per cui era plausibile che dopo l’incremento della scorsa settimana e di due settimane fa si iniziasse a vedere il rallentamento della crescita che effettivamente si vede.
L’utilizzo di questi dati da parte di chi prende le decisioni sulle restrizioni appare appropriato?
Come nel mio piccolo scrivo da marzo, credo che le cose fondamentali nella gestione delle situazioni critiche come la pandemia siano la trasparenza e la chiarezza. Questo significa che tutti i dati a disposizione a mio avviso devono essere riportati in maniera esplicita e nella loro totalità. Da sempre penso che, sia a livello nazionale che a livello locale, chi ha in mano la gestione della comunicazione non deve avere come scopo quello di indirizzare la popolazione verso un particolare tipo di comportamento. Ci possono infatti essere quelli che evidenziano parzialmente i dati per evitare allarmismo e quelli che al contrario evidenziano parzialmente i dati per evitare negazionismo. Questa diatriba negazionismo-allarmismo secondo me non ha senso di esistere, e per evitare che esista l’unica strada è quella di comunicare i dati con la massima trasparenza, sia quando le cose vanno bene che quando vanno male. In alcuni determinati casi mi è proprio capitato di far notare che una comunicazione più chiara sarebbe stata più utile per evitare queste diatribe.
A Sansepolcro si è appena deciso di riaprire le scuole. Come è possibile valutare il commento del sindaco secondo cui “tracciamento, screening e classi chiuse hanno permesso di arginare il virus”?
Ho letto l’intervista all’assessore Vannini che ha spiegato molto chiaramente la lettura dello screening, ossia che i risultati ottenuti erano completamente in linea con quello che si osservava. Facendo un rapido calcolo a spanne, in quel momento si avevano circa 90 positivi a Sansepolcro, quindi tenendo conto delle stime per cui più o meno il 50% dei positivi è asintomatico, su circa 5.000 tamponi era plausibile osservare 22 positivi. Significa che, come ha detto l’assessore Vannini, la situazione era sotto controllo e che, come ha scritto il sindaco, il tracciamento dell’azienda sanitaria funziona. Non c’è infatti un enorme numero di casi non riportati. Per quanto riguarda la chiusura delle scuole, quello che posso dire è che ci vogliono almeno un paio di settimane prima di vedere gli effetti delle misure restrittive sull’andamento dell’epidemia. Per fare un esempio, quando in Cina hanno chiuso a marzo tutta la regione, si è stimato che ci siano voluti 12 giorni per vedere l’effetto della chiusura totale. Insomma, non credo che al momento ci possano essere evidenze chiare di una relazione causa-effetto tra la chiusura delle scuole e la diminuzione dei contagi.
Se a livello locale è difficile fare previsioni sul futuro, come può aiutare la statistica nell’affrontare l’epidemia su una scala più ampia?
È comunque difficile fare previsioni, perché se guardiamo all’Italia ci sono dati nazionali che illustrano una tendenza “media”, ma ci sono realtà locali che si muovono in maniera molto diversa tra loro, molto spesso asincronizzata. I dati che vediamo ogni giorno a livello nazionale sono quindi una sintesi di tante realtà diverse. Ad esempio, in Toscana all’inizio della seconda ondata avevamo zone come Massa e Lucca con tantissimi contagi e zone come Grosseto dove il contagio era molto più basso. In una situazione così complessa come può aiutare la statistica? Dato che giustamente si è deciso che le politiche restrittive vengono messe in atto in funzione dell’andamento di vari indici statistici che misurano l’epidemia in varie dimensioni, secondo me la statistica aiuta proprio a dare uno sguardo d’insieme. Secondo me è importante capire se c’è una situazione di allarme, e se sì dov’è, se è generalizzata nel territorio o è focalizzata in un ambiente più circoscritto, se si sta espandendo in una certa direzione o meno. L’analisi statistica aiuta a leggere tutti questi dati, a trovare regolarità ed eccezioni, cose che vanno oltre il classico numero dei casi giornalieri.
Dopo un anno da quando sono stati resi noti i primi casi di Covid in Italia e in Europa è cambiato l’approccio alla lettura e all’utilizzo di questi dati?
Parzialmente sì. Un anno fa abbiamo avuto il lockdown nazionale di marzo, che poteva essere giustificato dal fatto che l’Italia era il primo Paese a essere colpito in Europa; quindi non era chiaro quali fossero le misure migliori. Con la seconda ondata si è passati a misure regionali e ora si stanno osservando misure più localizzate, che credo sia la dimensione giusta. Dato che quest’epidemia c’è già da un anno e continuerà sicuramente per qualche mese, è fondamentale per la salute mentale, economica e sociale del Paese e dei cittadini che, nel momento in cui la situazione in un’area circoscritta, come una provincia, è sotto controllo, i cittadini possano vivere in modo un po’ più normale rispetto a quando la situazione non è sotto controllo. Tutto diventa molto faticoso se si fanno politiche generalizzate in cui, prima a causa di una provincia e poi a causa di un’altra, misure restrittive forti sono comunque sempre in atto anche dove non ci sono grosse criticità. Non so quanto chi è chiamato a prendere le decisioni concordi con questo, ma a mio avviso si potrebbe avere più malleabilità nella gestione delle aperture e delle chiusure. Forse stiamo andando in quella direzione, vediamo se le cose miglioreranno un po’.
Quali differenze si possono cogliere tra l’approccio alla pandemia nel Regno Unito e in Italia?
Oltre all’esperienza di molti mesi qui nel Regno Unito, quest’estate sono stato in Italia, che comunque seguo sempre sia attraverso i tanti amici che i media, e sono stato anche in Montenegro, dove ho famiglia. Quello che ho notato è che sia in Montenegro che in Inghilterra, nonostante la situazione sia grave, si vive la pandemia con meno pesantezza mentale. Questo non significa non essere responsabili, non indossare la mascherina o non fare distanziamento, ma sia qui che in Montenegro c’è meno patema nell’osservare quello che succede. Non so se sia una differente inclinazione sociale dei tre Paesi, ma in parte credo contribuiscano politica e media. Ad ogni modo né in Inghilterra né in Montenegro, almeno per ora, sono successi disastri, quindi questi potrebbero essere esempi per dire che dobbiamo sì prendere atto che c’è una pandemia in corso, il che significa essere estremamente responsabili e attenti ai nostri comportamenti, ma che potrebbe anche essere salutare cercare di vivere una sorta di pseudo-normalità: che non è ovviamente la normalità di due anni fa, ma a mio avviso non dev’essere nemmeno il pesante stato di tensione che un po’ ha contraddistinto gran parte dell’Italia in questi mesi. Consideriamo anche che la famosa “variante inglese”, che giustamente preoccupa in Italia sia a livello nazionale che a livello locale, è nata qua e ha creato oggettivamente tanti casi e pressione a livello ospedaliero. Ciononostante non c’è stato un lockdown come quello di marzo e – credo anche grazie all’alto tasso di vaccinazione – i casi sono diminuiti enormemente e oggi sono meno che in Italia. Cosa ci insegna questo? Che probabilmente un approccio un pochino meno pesante da un punto di vista psicologico potrebbe solo aiutare.