Sapete dirmi chi è l’italiano che può fregiarsi del titolo di aver scoperto chitarristi del calibro di Richie Blackmore e di essere stato amico di Jimi Hendrix? Un talent scout? Un produttore discografico? No! Un muratore! Il suo nome: Enrico (Riki) Maiocchi
Siamo nei primi anni 60, il giovane Enrico, in rotta con il patrigno. (aveva perso il padre all’età di 8 anni) si adatta ai lavori più umili pur di affrancarsi da una situazione familiare per lui insostenibile ma nello stesso tempo è fortemente attratto dal mondo musicale, per cui, prendendo a prestito una canzone di Arbore, muratore di giorno si, ma la notte no! La notte Riki, ventenne, è fisso al Santa Tecla, nel centro di Milano, tempio musicale del jazz ma anche del rock’n roll dove a quei tempi avevano esordito Adriano Celentano, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. In quel periodo Enrico da vita ad alcune precarie formazioni e si fa notare da qualche discografico .che lo fa esordire nel 1964 su vinile; incisioni che pur non essendo nulla di speciale, iniziano a farlo conoscere proprio nel periodo nel quale comincia ad arrivare dall’Oltremanica il Beat. Riki rimane folgorato da Beatles, Rolling Stones e Animals. Di questi ultimi, infatti, riprende “The House Of The Rising Sun” che da noi diventa “Non Dite a Mia Madre”, dal testo crudo e subito censurato, cambiato poi nel popolare “La Casa Del Sole”. Riki risulta accompagnato dai Mods. Il gruppo non è altro che il nucleo da cui nasceranno i Camaleonti. Si perché quella era l’epoca dei gruppi, chiamati allora complessi i cui nomi dovevano essere esotici o richiamare prepotentemente la Gran Bretagna dei Beatles. Sicché ecco Gli Scooters, i Bit-nik, i Dik Dik, i New Dada, i Novelty, i Pooh e via così. Poi c’erano quelli che inalberavano nomi nazionali, con un po’ di fantasia e qualche richiamo alle tendenze giovanili di mollare la famiglia e mettersi in viaggio. Equipe 84, Califfi, Nuovi Angeli, Corvi, Nomadi, Giganti, Profeti, Ribelli e appunto Camaleonti. Il loro repertorio era infarcito di “cover” di successi anglosassoni, eseguiti in genere attraverso trasposizioni in italiano del testo inglese che spesso nulla avevano a che vedere con l’originale. La tecnica non era un problema, bastava un minimo di capacità nel padroneggiare gli strumenti, sia per la semplicità del genere beat, sia per gli standard piuttosto bassi ai quali tutti si uniformavano (i virtuosi di chitarra dovevano ancora arrivare, così come gli assolo di basso e batteria mutuati dal jazz). Ascoltando molti dei primi 45 giri degli inizi dell’epoca beat ci si può fare una idea della tecnica spesso elementare e quasi sempre derivata dai modelli stranieri. Ci pensava l’entusiasmo sia di chi suonava sia di chi ascoltava a compensare il tutto.
Importante era anche l’elemento visivo che contraddistingueva i complessi: capelli a caschetto, se proprio si volevano richiamare i Beatles, o capelli lunghi, segno di irrequietezza e ribellione. E poi c’era l’abito di scena, che poteva richiamarsi al Settecento con camicie piene di svolazzi, o direttamente agli “scarafaggi”, con colli alti e con giacche che somigliavano a quelle militari di un tempo, magari con alabarde dorate. Strumenti d’ordinanza: batteria, basso elettrico, chitarra ritmica d’accompagnamento e chitarra solista. O le prime tastiere elettriche. Il risultato? Il “Beat”, che da simbolo musicale (beat uguale pulsazione) diventò simbolo di un’epoca.
Il Beat è stato impropriamente associato negli anni successivi a musiche estive, disimpegnate e ingenue. Allora suonava molto diverso e dirompente alle orecchie di ascoltatori abituati alla melodia e alla forma tradizionale della canzone. I testi, funzionali alla parte ritmico-musicale, infarciti di esclamazioni onomatopeiche (yè-ye, wo-wo) nella prima fase beat, ben presto si indirizzarono verso la canzone di “Protesta” distaccandosi dai consueti temi sentimentali anche se in Italia la tematica sociale era spesso solo accennata a causa dello stretto controllo da parte della censura risultando più una moda da seguire che un sincero interessamento ai temi del disagio giovanile. Quando tali temi erano espressi in modo esplicito, come ad esempio nel caso di “C’era un Ragazzo Che Come Me (Amava i Beatles e i Rolling Stones)” o di “Dio è Morto” si poteva arrivare a discussioni parlamentari sull’opportunità o meno di distribuzione del disco e la RAI escludeva questi brani dalla propria programmazione. Ho un ricordo adolescenziale di tale situazione per la quale questi dischi venivano citati come fra l più venduti all’interno della Hit Parade radiofonica dell’epoca ma non venivano fatti ascoltare..
Di complesso in complesso
I Camaleonti sono fondati da Riki assieme a Livio Macchia, Tonino Cripezzi, Gerry Manzoli e Paolo De Ceglie, gruppo col quale lui diffonde nel nostro paese le versioni in italiano di brani del nascente movimento musicale inglese, che egli stesso scopre e conosce attraverso frequenti viaggi in Inghilterra, spinto da una curiosità e un interesse per il nuovo che lo hanno sempre contraddistinto, (parla benissimo l’inglese) così, dopo primi successi che lo vedono frontman del complesso con brani come “Sha-la-la-la-la” e “Io Lavoro” che impazzano nei jukebox e una partecipazione col gruppo al Cantagiro del 1965, Riki lascia i Camaleonti e intraprende la carriera solista. Per inciso: della prima formazione dei Camaleonti fece parte per breve tempo come cantante, pur non incidendo nessun brano, un giovanissimo Teo Teocoli.
All’inizio dell’estate del 1966. Riki , confermando la sua fama di innovatore, allestisce in Gran Bretagna, un gruppo di musicisti composto da giovani inglesi, da lui scoperti, fra cui spicca il chitarrista Ritchie Blackmore, il quale al termine dell’esperienza italiana tornerà a Londra per formare i Deep Purple , uno dei più grandi gruppi della storia del rock mondiale. Con il nuovo complesso chiamato Riki Maiocchi & the Trip, fa esperimenti musicali di rock psichedelico, la nuova tendenza che prendeva campo in quel 1966 nella “Swnging London”, e tiene concerti in Italia, soprattutto serate estive nei dancing della riviera romagnola, e prima ancora in alcuni locali della scena underground londinese dove in qualche occasione suona insieme a Jimi Hendrix, a quei tempi fresco del successo di “Hey Joe”.
I dancing in Italia, così come i club inglesi, erano in genere locali da ballo più che da concerto e i complessi che si esibivano su questi palchi avevano nel loro repertorio oltre a pezzi propri anche cover di altri gruppi o solisti. I balli dei giovani in genere erano due: gli “shake” e i “lenti”. Riporto una curiosità frutto della mia esperienza personale: anni fa, quando frequentavo la Romagna per ragioni musicali, mi è capitato di imbattermi in stuoli di vecchi orchestrali che mi raccontavano: “Io negli anni 60 ho suonato con il chitarrista dei Deep Purple”, “Ero suo amico, si andava al mare insieme”, “Gli ho insegnato a nuotare”, “Dormiva a casa mia, andava matto per la piadina”, “Andava dietro a mia sorella”, “ Sono io che gli ho insegnato gli accordi di Smoke on the Water”. Tutte affermazioni da non prendere sul serio!
Uno in più a Sanremo
La costante ricerca del nuovo porta Maiocchi, in quel 1966, sulle tracce di un allora sconosciuto Lucio Battisti al quale chiede, grazie anche alla conoscenza e collaborazione di Mogol, un brano in linea con il sentire giovanile del tempo, quello della “protesta”. Nasce così la canzone “Uno In Più” destinata a diventare un simbolo sonoro per una generazione di giovani italiani, inno di un’ epoca felice e carica di belle speranze .
“Uno in più” rimane il suo maggiore successo sia per le vendite realizzate che per la popolarità conseguita, arriva al numero due nella Hit Parade e vende oltre 100.000 copie, costituendo il primo vero exploit della celebre coppia Mogol-Battisti. Mogol inserisce Riki nella sua “Linea Verde” progetto di giovani musicisti per musica destinata ai giovani; solisti e gruppi che cantano l’insoddisfazione per l’indifferenza verso i problemi dei teen-agers (anche questo è un termine molto usato allora per definire i ragazzi) che vengono bollati con la definizione di “giovinastri” e “capelloni” Intanto i discografici italiani, fiutato il nuovo mercato che vede i ragazzi di allora chiedere musica sulla falsariga di quella che proviene dalla scena americana e inglese, cercano di sfruttare a loro vantaggio la protesta giovanile di quegli anni ma premurandosi di farlo in maniera molto edulcorata, chiedendo ai loro parolieri di mischiare l’amore con uno sguardo di speranza nel futuro (vedi i Rokes di “Che colpa abbiamo noi”, “È la pioggia che va”, entrambe cover italiane, con testi di Mogol, di successi anglo americani) e Riki cavalca quest’onda sia con “Uno In Più” che poi con la successiva partecipazione al disgraziato festival di Sanremo del 1967, quello della morte di Luigi Tenco, dove presenta un brano sullo stesso tenore giovanilistico ma con buoni sentimenti che si intitola “C’è Chi Spera” composto da Pace, Panzeri e Colonnello (i primi due sono quelli di “Fin che la barca va”) autori navigati che vogliono far credere che con un po’ di speranza e di note il mondo possa cambiare. E’ il Festival di cui si occupa anche Umberto Eco, per rilevare il doppiogiochismo degli autori che da un lato scrivono canzoni d’amore (“non si sa mai, i soldi per il disco li dà il padre, vecchio colonnello in pensione”), dall’altro usano qualche parolina di ribellione “tanto per assicurarsi il mercato della protesta”. L’ipocrisia di certi brani come “La Rivoluzione” testo dello stesso Mogol, che recita: “è finita la rivoluzione l’amore alla fine ha vinto e vincerà” come a dire paternalisticamente::”caro giovane lascia perdere la rivoluzione e pensa al sentimento”, sarà una delle cause del suicidio di Tenco, almeno a giudicare da quello che lascerà scritto in un biglietto ritrovato nella stanza d’albergo dove avvenne la tragedia.
Con Maiocchi, ad eseguire la canzone in seconda battuta, c’è la grande Marianne Faiithfull, che ancora non si occupa di Brecht e Weill (e a seguirla, in sala, c’è Mick Jagger, il Rolling Stone che è in quel momento il suo fidanzato). Riki l’aveva conosciuta a Londra grazie alla comune amicizia con Hendrix e lei era reduce dal successo internazionale di “As Tears Go By” pezzo confezionatole appositamente dai Rolling Stones. Il brano sanremese in effetti strizza furbescamente l’occhio in molte parti del testo a quello firmato Jagger-Richards, anche se più “buonista” rispetto allo “spleen” che pervade quello britannico. Di As Tears Go By esiste anche una versione in italiano incisa dagli stessi Stones: ”Con Le Mie Lacrime” che ricalca il testo originale quasi alla lettera. Anche Riki ne aveva fatto una versione italiana con i Camaleonti intitolata Come Mai.
Declino di un innovatore
Tornando a quel festival va male sia a Maiocchi che alla Faiithful, la canzone non entra neppure tra le finaliste e la carriera di Riki subisce un forte rallentamento ma in suo soccorso torna ad affacciarsi di nuovo la ditta Battisti-Mogol che confeziona per lui un nuovo brano: “Prendi Fra Le Mani La Testa” pezzo con cui Riki partecipa al Cantagiro dello stesso 1967 e al “musicarello” “L’immensità (La ragazza del Paip’s)” film ispirato all’omonima canzone di Don Backy, successo sanremese di quell’anno, pellicola che vede la partecipazione di molti cantanti e gruppi fra i quali, oltre a lui e allo stesso Don Backy, segnaliamo Patty Pravo, Caterina Caselli, Nicola Di Bari, The Motowns e I Gallinacci (in realtà si trattava dei Sagittari, gruppo beat genovese ma Gallinacci era una citazione della nota gaffe di Mike Bongiorno che al Festival di Sanremo 1966 aveva annunciato gli Yardbirds, gruppo di Jimmy Page, (il quale di lì a poco formerà i Led Zeppelin), in gara in coppia con Lucio Dalla, con questa sciagurata traduzione italiana del loro nome),
In quell’anno si esibisce con il suo nuovo gruppo d’accompagnamento, i Generali complesso beat milanese ma il favore del pubblico comincia a scemare e per di più Riki, dotato di un carattere insofferente e poco incline ai compromessi, litiga con Battisti e da quel momento per lui le porte delle case discografiche si chiudono inesorabilmente anche a causa di una denuncia per incauto acquisto di un orologio di marca risultato rubato.
Ormai l’epoca Beat andava declinando soppiantata da forme musicali più articolate come l’Hard Rock, il Jazz Rock e il Progressive e lui dopo essersi adattato ad incidere nuove versioni di vecchi brani italiani degli anni trenta e realizzato una brutta cover di “Feelin’ Allright” dei Traffic, diventata in italiano “Tu Vedi Mai Cerchi Bianchi e Neri”, si allontana progressivamente dal mondo della musica. Poi anche lui, come tanti, partecipa a qualche rivisitazione di Red Ronnie, come “20 anni dopo, il bello del ‘68”.
L’ultima sua testimonianza musicale risale al 1998, quando su sollecitazione di numerosi suoi estimatori, incide il meglio della sua produzione con le moderne tecniche di registrazione e con gli arrangiamenti di Alberto Radius, uno dei maggiori chitarristi italiani. La presentazione del cd avviene, nello stesso anno, durante una serata in suo onore organizzata nel locale milanese Blues House alla presenza di un numeroso pubblico composto da esponenti di una generazione per i quali Riki Maiocchi ha rappresentato e continuerà a rappresentare un personaggio di culto.
A parte queste sporadiche uscite, nella vita di tutti i giorni per vivere fa l’impiegato (all’ENEL), come forse la maggior parte dei protagonisti di quella stagione degli anni ‘60 che cambiò la musica giovanile ma che non poteva dar da mangiare a tutti.
Enrico (Riki) Maiocchi muore a Milano nel 2004.