Quella volta che sfidammo il Generale Inverno

Il viaggio di dieci anni fa nel gelo dell’Europa orientale nacque quasi per caso ma condizionò il futuro dei partecipanti. Storia della “Roma-Volgograd”, un’avventura sulle tracce dei soldati italiani dispersi in Russia e verso gli importanti cambiamenti che quella parte d’Europa avrebbe vissuto poco dopo

Il mare d'Azov completamente ghiacciato

Due degli eserciti più potenti del mondo, quello di Napoleone e quello di Hitler, non superarono la prova del Generale Inverno e subirono una decisiva sconfitta proprio in Russia. Scherzosamente possiamo raccontare che la nostra avventura del 2011 sfatò questo tabù ed effettivamente riuscimmo a raggiungere Volgograd/Stalingrado, ma rischiammo fortemente di venire fermati da un nemico tutto locale: la E45 bloccata da una nevicata. Fu uno stop di qualche ora ma che cambiò la nostra tabella di marcia, costringendoci già dal primo giorno a macinare chilometri per non arrivare tardi ad alcuni appuntamenti con la storia. Con la storia passata e futura: oltre che ripercorrere il cammino e la ritirata dei soldati italiani e le dinamiche della battaglia di Stalingrado, assistemmo infatti anche ai prodromi di quello che sarebbe poi successo in Ucraina orientale pochi anni dopo. La Roma-Volgograd-Roma del 2011 fu un viaggio nato per caso, ma molto importante per i suoi protagonisti.

Come nacque l’avventura

Fin dal ritorno dell’ormai mitologica Torino-Pechino del 2008 con la vecchia Fiat Marea a gpl fu ben chiaro che il nostro rapporto con i lunghi viaggi ad energie alternative non si era concluso con quell’esperienza. Certo che dopo una cavalcata da una parte all’altra del continente euroasiatico non era facile pensare a qualcosa di altrettanto originale. L’idea venne nel più banale dei modi, ovvero durante un dopocena, riflettendo su dove si potesse festeggiare un trentesimo compleanno che cadeva il due di febbraio. Non c’era luogo migliore di Volgograd, poiché proprio quel giorno ricorreva l’anniversario della sconfitta tedesca nella battaglia di Stalingrado, evento decisivo per le sorti dell’intera guerra. Da una semplice battuta la cosa divenne un’ipotesi, poi un progetto ed infine un viaggio. In realtà l’idea di Stalingrado coronava anche un impegno che avevamo assunto da qualche anno con l’amico Alvaro Lucernesi, tra i responsabili della sezione aretina dell’Unirr, l’Unione nazionale italiana reduci di Russia. Alvaro in quella guerra perse un familiare e dopo la nostra visita del 2008 al cimitero di Sudzal’, dove erano sepolti militi italiani, ci chiese di fare la stessa cosa nella valle del Don. L’idea di un viaggio invernale negli stessi luoghi dove gli italiani combatterono e dovettero intraprendere una tragica ritirata ci sembrò un modo originale anche di valorizzare i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia che cadevano proprio nell’inverno 2011. Infine non nascondiamo anche una sana componente legata alla voglia di vedere una parte di mondo che di solito d’inverno è considerata inaccessibile. Nessuno di noi aveva mai vissuto niente di simile. Con queste premesse non fu difficile trovare qualcuno che volesse scommettere assieme a noi sulla riuscita del progetto e una sera di ottobre durante il Motor Show di Bologna, a cena in un albergo in via Stalingrado, saltò fuori un’azienda italiana che importava fuoristrada cinesi e che aveva voglia di farsi conoscere. Gonow Europe mise a disposizione un fuoristrada alimentato a gpl con un impianto installato dall’azienda Imega di Sansepolcro. L’equipaggio fu composto da Guido Guerrini ed Emanuele Calchetti con l’indispensabile aiuto da remoto di Andrea Gnaldi, che si occupò della parte comunicativa, aspetto molto importante perché sarebbe stata la prima volta che una nostra avventura sarebbe apparsa nei social network. Il libro che avrebbe raccontato quel viaggio si sarebbe intitolato proprio Via Stalingrado, con riferimento a quella serata di organizzazione che al luogo che avremmo raggiunto durante quel difficile drive test.

Se il buongiorno si vede dal mattino…

In effetti era davvero impossibile pensare di trovare già dalla partenza mezzo metro di neve. La superstrada E45 restò chiusa per alcune ore e il viaggio cominciò con un ritardo che ci costrinse a passare la prima notte in marcia. “Se la neve ci blocca già in Toscana, chissà cosa troveremo nei Balcani ed in Ucraina”, ci chiedevamo mentre arrancavamo a venti all’ora sui viadotti che portano al valico di Verghereto. Non saremmo certo morti di freddo, visto che a bordo del nostro fuoristrada avevamo molti scatoloni di vestiti pesanti destinati alla Comunità Giovanni XXIII di Volgograd. L’associazione di volontariato aiuta i senza tetto della città sul Volga e nell’occasione fu ben felice di diventare la destinazione finale del nostro viaggio. L’unico dubbio rimasto era nei confronti delle quattro dogane che il nostro carico avrebbe dovuto attraversare, compresa quella che più temevamo tra Moldavia e Transnistria.

Sulla E45 pochi minuti dopo la partenza

Lo Stato che non esiste

Dopo alcuni giorni in Romania tra Timișoara e Bucarest, di fatto nostri quartier generali avanzati dove mettemmo a punto itinerario, strategia con le dogane e verifiche sulla buona tenuta del veicolo, ci dirigemmo verso un vero e proprio buco nero sulle carte geografiche. La Transnistria, o Pridnestrov’e, è uno stato che non esiste ubicato nell’est della Moldavia, nel quale secondo il diritto internazionale sarebbe compreso. Però ha proprie dogane, una moneta, una bandiera, polizia e naturalmente istituzioni non riconosciute da nessuno. Come qualunque paese dell’est Europa, soprattutto quelli nati dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, anche il Pridnrestrov’e ha una sua particolare burocrazia fatta di file, timbri, pagamenti di tasse di transito incomprensibili e trabocchetti sui quali avanzare richieste economiche. Per noi tutto questo si tramutò in perdite di tempo, battute sulle stelle musicali italiane anni ‘80 e una trentina di euro per facilitare le pratiche e renderle più rapide. Va detto che negli anni successivi al 2011 la situazione è migliorata notevolmente, sia per la velocità di ingresso in Pridnestrov’e che dal punto di vista delle richieste economiche. A Tiraspol’, capitale di questo fantomatico Stato dove sventola una bandiera con falce e martello, incontrammo in modo del tutto casuale un italiano impegnato nel mondo della moda. Sergio per noi fu una vera e propria guida, che ci allietò il transito sia nel viaggio di andata che in quello di ritorno, snocciolando dettagli e particolari storici sulla Transnistria e sulla sua complessa economia.

La piazza centrale di Tiraspol’

Il più stupido dei passatempi

La guerra passata, presente e futura caratterizzerà il prosieguo del nostro viaggio. Se quello che abbiamo visto in Pridnestrov’e è un conflitto congelato pronto a riaccendersi in qualsiasi momento, quello che vedemmo in Ucraina era l’antefatto di ciò che sarebbe successo a breve. Ci fermammo a lungo a Bezimenne, un paesino scelto casualmente sulle sponde del mare di Azov. Visitammo le spiagge di questo luogo sconosciuto per ammirare lo spettacolo di vedere il mare completamente ghiacciato. Quiete, pace e meraviglia caratterizzarono quel momento. Oggi Bezimenne fa parte della Repubblica Popolare di Doneck, uno dei due stati autoproclamati nell’Ucraina orientale figli della crisi costituzionale di inizio 2014 e della successiva guerra civile. Sia durante il nostro viaggio di andata che in quello di ritorno constatammo come nel sud e nell’est dell’Ucraina la gente parlasse russo, in contrasto con i cartelli stradali in ucraino. Risultava e risulta tutt’oggi una cicatrice culturale che divide in due questa nazione, derivante dalla propria complessa storia, e che dava l’impressione di una bomba ad orologeria pronta ad esplodere. Anche la polarizzazione del voto in ogni elezione, con il sud e l’est filo russi e il nord e l’ovest filo europei, indicava che quello che sarebbe poi esploso dopo Euromaidan non era frutto di casualità e neppure improvvisazione. Per comprendere la drammaticità di una guerra visitare la città di Volgograd, i suoi monumenti, i musei ed i cimiteri è sicuramente un’esperienza utile ad aprire la mente. Non è un caso che moltissime scolaresche da tutta la Russia visitano questa città dove in sette mesi è morto oltre un milione di persone. Per avere un termine di confronto, durante i cinque anni dell’intero conflitto gli italiani, gli americani e gli inglesi non superarono il mezzo milione di morti.

Qui si è decisa la Seconda guerra mondiale quando ancora Stati Uniti e Gran Bretagna non avevano aperto il secondo fronte con lo Sbarco in Normandia. Qui si concentrò la forza militare della Germania nazista e qui si consolidò la resistenza dei sovietici. In palio c’era la città che portava il nome di Stalin ma anche la via per le risorse petrolifere del Caucaso e probabilmente anche il crollo militare dello Stato sovietico, se i tedeschi fossero riusciti a varcare il grande Volga. A coprire i fianchi dei tedeschi c’erano anche italiani, rumeni ed ungheresi, con i nostri Alpini posizionati a nord lungo la linea del Don. Se la battaglia a Stalingrado si svolse casa per casa, in campagna fu prima una lunga fase di appostamento sulle fortificazioni lungo il Don e poi una ritirata nel gelo con inseguimento da parte dei sovietici e tentativo di chiudere quello che restava dell’esercito italiano dentro una sacca, cosa accaduta a trecentomila tedeschi rimasti bloccati nel cuore di Stalingrado. Durante il nostro viaggio di ritorno cercammo di ripercorrere il cammino fatto dagli italiani durante la ritirata. Sia lungo il Don che nelle retrovie il mondo che ci circonda non è probabilmente molto cambiato. Le vecchie izbe di legno sono con molte probabilità le stesse in cui trovò rifugio parte dei nostri connazionali. I piccoli cimiteri dei villaggi quasi sempre ospitano, in fosse comuni, resti di soldati sconosciuti tra i quali molti di quelli che risultano ancora oggi dispersi. Durante questa parte di viaggio fummo colpiti da un forte maltempo. La neve era tanta al punto che la strada diventava irriconoscibile e resistere più di cinque minuti fuori dall’auto diventava una prova di sopravvivenza. Sembrò quasi che l’inverno volesse farci provare un accenno di quello che in versione drammaticamente più accentuata avevano dovuto vivere i nostri connazionali quasi settanta anni prima.

La solidarietà italiana a Volgograd

Il rapporto tra Russia e Italia non fu incrinato dalla nostra partecipazione alla Seconda guerra mondiale a fianco dei tedeschi. C’è un qualcosa che lega questi due mondi che si perde nel passato e continua ad essere molto forte nel presente. Nei dintorni della ex Stalingrado oggi gli italiani non presidiano più il fronte del Don, ma costruiscono ponti di pace e solidarietà. L’Associazione Giovanni XXIII ha aperto in questa parte di Russia due case famiglia che si pongono l’obiettivo di reinserire in un percorso di vita normale le persone che vivono per strada. Oltre a questo la stessa associazione si occupa di supportare la Caritas locale nel fornire alcune volte alla settimana pasti ai senza tetto di Volgograd. Il nostro carico di vestiti è destinato proprio a questa associazione che impariamo a conoscere grazie a Marco, il responsabile locale originario di Meldola, quindi non troppo lontano dalla nostra Valtiberina. Con gli ospiti della casa famiglia e con lo stesso Marco abbiamo vissuto tre splendidi giorni a Volgograd, capendo l’importanza del grande lavoro che svolgono ogni giorno e potendo vivere in prima persona le celebrazioni che ogni 2 febbraio si tengono nella ex Stalingrado in ricordo della resa tedesca e di tutte le vittime di quella difficile pagina di storia. Intervistammo Marco, che viveva a Volgograd da oltre dieci anni, per raccontare la sua storia su Via Stalingrado. Oggi, dopo ulteriori dieci anni, Marco è ancora lì seppure con un impegno che nell’ultimo anno, causa Covid, ha visto una forzata riduzione delle attività. Marco ha quasi raggiunto i ventuno anni in Russia, dei quali la gran parte trascorsa come unico operatore nella casa famiglia dove vive. Tutti gli italiani impegnati in attività come quella di Volgograd sono una testimonianza di come la pace si costruisca giorno per giorno con piccoli grandi gesti quotidiani. Missioni di pace di cui si parla molto poco.

Marco distribuisce cibo ad alcuni dei senzatetto di Volgograd

I risultati raggiunti, il signor Vincenzo Giovagnini e l’impatto sulle vite dei partecipanti al viaggio

L’obiettivo di dimostrare l’affidabilità del fuoristrada e dell’impianto a gpl fu ampiamente raggiunto. Neve, ghiaccio, fango e buche non fermarono il mezzo, come neppure le basse temperature crearono problemi né al veicolo né all’impianto. La consegna degli aiuti all’Associazione Giovanni XXIII aprì la strada ad un rapporto di collaborazione proseguito per alcuni anni e che diede vita ad ulteriori due viaggi, uno sempre invernale e l’altro estivo. Piuttosto, uno dei risultati non previsti fu che sia Emanuele che il sottoscritto gettammo le basi per un rapporto personale sempre più legato alla Russia. Oltre che essere parte attiva negli ulteriori due viaggi “umanitari”, Calchetti soggiornò più volte a Volgograd per lunghi periodi per poi trasferirsi a Mosca e recentemente tornare a Sansepolcro. Io ho continuato a frequentare la Russia sfruttando l’appoggio logistico fornito da Emanuele per poi stabilirmi e mettere in piedi una famiglia a Kazan’, circa mille chilometri ad est della capitale.

Il ritorno mediatico del viaggio in Russia ebbe un interessante seguito anche dal punto di vista storico, e non solo per il lavoro che ha portato alla pubblicazione del libro Via Stalingrado. Subito dopo il nostro ritorno fummo contattati da Vincenzo Giovagnini, classe 1922, che lo stesso viaggio lo aveva fatto tra il 1943 e il 1947 come soldato italiano e poi come prigioniero di guerra. Giovagnini, all’epoca alla soglia dei novant’anni, ci chiese di poter raccontare quello che aveva vissuto in quegli anni. Ascoltarlo fu un esperienza interessantissima paragonabile a tutto quello che la letteratura sul tema può mettere a disposizione. Il signor Vincenzo volle fortemente lasciarci le proprie memorie consapevole di non avere davanti a sé troppo tempo a disposizione per poterle nuovamente raccontare. Noi ci facemmo carico di raccogliere quella testimonianza, forse l’esperienza più bella che la Roma-Volgograd ci ha lasciato. Oggi Vincenzo Giovagnini non c’è più e non siamo stati in grado di fargli leggere le sue parole fin quando era in vita. Non abbiamo dimenticato quella giornata passata assieme e tuttora oggi conserviamo i materiali che volevamo utilizzare per organizzare un viaggio dedicato ai luoghi dove finirono gli italiani rimasti prigionieri in Unione Sovietica dopo la guerra. L’attuale conflitto in Ucraina orientale, dove cominciò il viaggio verso il “Turkestan” del soldato prigioniero Giovagnini ha reso per ora vani i tentativi di organizzare quel viaggio.

L’avventura di dieci anni fa diede anche un forte slancio alle attività dell’Associazione Culturale Torino-Pechino. Se il viaggio del 2008 non si proponeva di dare continuità a questo tipo di esperienze, la Roma-Volgograd-Roma ci vide entrare in una sorta di “professionismo” e allacciare rapporti con realtà importanti nel mondo dell’automobilismo e dell’informazione. Una rivoluzione nel nostro modo di concepire i viaggi e le gare sportive, anche queste dedicate alle energie alternative. Una tappa propiziatoria di una storia che ancora non abbiamo finito di raccontare. Nei dieci anni trascorsi dalla Roma-Volgograd del 2011, oltre al già citato Vincenzo Giovagnini sono venuti a mancare altri protagonisti, tra cui il patron di Gonow Europe Roberto Fosci, l’italiano di Transnistria Sergio Luciano e purtroppo molti dei senzatetto che abbiamo incontrato a Volgograd assieme ai volontari della Giovanni XXIII. Senza tenere conto di quanti decessi o profughi abbia creato la guerra in Ucraina orientale.

Il diario di quei giorni può essere seguito nella riproposizione che ne sta facendo quotidianamente la pagina Facebook dell’associazione Torino-Pechino in occasione del decennale.

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