Quando la Russia occupò l’America

Fino a oltre la metà del XIX secolo l’Impero russo possedeva l’Alaska e numerosi avamposti sulla West Coast, arrivando a pochi chilometri da San Francisco

La colonia russa di Fort Ross, in California, e il suo fondatore Kuskov in un francobollo sovietico del 1991

Suona strano pensare che in passato a meno di cento chilometri da San Francisco sventolasse la bandiera russa. Non si tratta di un ennesimo remake di Alba Rossa, celebre film del 1984 in cui i sovietici attaccavano e conquistavano gli Stati Uniti d’America, ma delle conseguenze storiche di una colonizzazione iniziata molti anni prima, che portò l’Impero russo ad occupare spazi immensi su ben tre continenti.

Il Far East russo

La conquista della Siberia fu un’epopea molto simile a quella del Far West americano. Con la sconfitta dei Tartari e con la successiva presa della loro capitale Kazan ebbe inizio l’espansionismo della Russia in un’area scarsamente abitata, dove la resistenza non fu tanto da parte delle popolazioni locali quanto della natura. Grandi fiumi, immense pianure, fameliche zanzare e il freddo invernale ostacolarono questa lunga e ostinata marcia verso oriente. Basti pensare alla difficoltà che la Russia e poi l’Unione Sovietica ebbero per completare la Ferrovia Transiberiana e, incredibile ma vero, che un collegamento stradale tra Mosca e l’oceano Pacifico è stato completato solamente nei primi anni del XXI secolo.

I russi – che all’epoca ignoravano i tesori naturali nascosti nel sottosuolo siberiano – puntavano al commercio delle pellicce e all’opportunità di avere sbocchi sul Pacifico. Proprio la parte settentrionale dell’oceano divenne una sorta di mare interno russo, di cui Mosca controllava entrambe le sponde.

L’Alaska in una carta del 1868. FIno all’anno prima era stato un territorio russo (Norman B. Leventhal Map Center, CC BY-2.0)

Le spedizioni di Dežnëv e Bering

Vitus Jonassen Bering, nato danese e diventato poi russo sotto il regno di Pietro il Grande, fece importanti esplorazioni nel nord del Pacifico. Nei due viaggi da lui effettuati nel 1725 e nel 1741 scoprì che l’Asia e l’America erano separate da uno stretto, largo circa ottanta chilometri e non molto profondo, che oggi porta il suo nome. Anche un’isola tra le americane Aleutine e la russa Kamčatka si chiama Bering, per ricordare che l’esploratore vi morì assieme ad alcuni membri dell’equipaggio che si era riparato in quel luogo poco ospitale. A lui va il merito di aver dato consapevolezza alla Russia della vastità dei territori che si apprestava a conquistare.

In realtà settantacinque anni prima di Bering fu un’altra spedizione a scoprire quasi casualmente che Alaska e Siberia erano vicine ma non unite. Tra il 1648 e il 1650 alcuni uomini guidati da Semën Ivanovič Dežnëv percorsero rocambolescamente le migliaia di chilometri tra i fiumi Lena, Kolyma e Anadyr’. Parte di questo viaggio avvenne nel freddo mare a nord del continente asiatico. Circa cento uomini presero parte al viaggio con sette barche e solo dodici sopravvissero in un accampamento di fortuna, salvati da una spedizione successiva.

Le colonie americane

Sul finire del XVIII secolo nella costa orientale del Pacifico furono fondate le prime colonie russe. Si espandevano in Alaska, nelle isole Aleutine, nell’attuale Columbia Britannica e dove oggi si trova lo stato di Washington, fino alla già citata Fort Ross in California. La Russia in quel momento confinava con l’Impero spagnolo, che si estendeva fino a San Francisco. Oltre a tutto questo non deve stupire che i russi furono tra i primi a sbarcare alle isole Hawaii, senza prendere in considerazione di tentare un’annessione dell’arcipelago, che all’epoca non faceva parte degli Stati Uniti. È molto singolare pensare che poco dopo l’assedio di Mosca da parte di Napoleone e il successivo Congresso di Vienna che ridisegnò l’Europa, esploratori e commercianti russi si confrontavano con il sovrano indigeno delle Hawaii su un eventuale trattato di protezione.

Nel momento di massima espansione circa 40.000 persone vivevano nelle città russe sul continente americano. Erano prevalentemente originari del luogo con l’aggiunta di qualche russo che amministrava le regioni e controllava il commercio. Ma nonostante la caccia e il mercato delle pellicce fossero un buon business i territori oltre il Pacifico non si dimostrarono particolarmente remunerativi per le casse dello Zar.

Scheda sull’Alaska in un set di carte russe del 1856 a tema geografico

La cessione dell’Alaska

Furono diversi, probabilmente, i motivi che spinsero a valutare positivamente l’opportunità di cedere l’Alaska agli Stati Uniti: le difficoltà a controllare il vastissimo territorio, la sua scarsa redditività, e anche il timore che se i britannici, che controllavano gran parte del Canada, avessero voluto prendere l’Alaska e le isole Aleutine con la forza i russi non si sarebbero potuti opporre. In quel momento gli Usa non erano una potenza temibile e vendere i territori a Washington era una soluzione più tranquilla per la sicurezza della Russia rispetto al loro eventuale passaggio all’Impero Britannico. Dopo una trattativa non troppo complessa, nel 1867 l’Alaska divenne statunitense in cambio di 7,2 milioni di dollari, che naturalmente all’epoca erano una cifra assai rilevante. Se il passaggio delle consegne fu un evento che in Russia lasciò tutti abbastanza indifferenti, negli Usa la Camera dei Rappresentanti bloccò a lungo l’acquisto poiché ritenuto del tutto inutile per il Paese. In effetti in quel momento storico – oro e materie prime sarebbero state scoperte molto più tardi – gli Stati Uniti fecero un piacere alla Russia anche per gratitudine verso i russi che si erano schierati con il Nord nella guerra di secessione americana. A distanza di oltre centocinquanta anni l’affare lo hanno fatto gli Stati Uniti, non solo per la corsa all’oro, ma soprattutto per il fatto che grazie all’Alaska hanno avuto la possibilità di controllare da vicino il gigante russo. In epoca di guerra fredda la gelida regione del nord America si rilevò assai strategica. L’importanza dell’Alaska dal punto di vista militare si comprende meglio ribaltando l’ottica dalla quale si guarda: se avesse fatto parte dell’Unione Sovietica sarebbe stata una spina nel fianco del mondo occidentale, e l’Urss oltre ad avere un lungo confine con l’Europa lo avrebbe avuto anche con il Canada.

Emanuel Leutze, Firma del trattato di compravendita dell’Alaska (1867)

Cosa resta della presenza russa sul continente americano

Tuttora oggi Fort Ross, la colonia russa che era situata in California in riva all’oceano, è un museo a cielo aperto ben conservato. Resta la struttura della fortificazione in legno, una chiesa ortodossa e molte case nello stesso stile di quelle che si possono ancora oggi osservare in gran parte della Russia. È impressionante osservare delle izbe assolutamente simili nell’ovest dell’Ucraina, in Lituania, in Moldavia o a pochi chilometri da San Francisco. È capitato di trovare anche reperti con scritte in cirillico in territori che erano sotto il controllo spagnolo o degli indiani d’America, con i russi che ebbero contatti con gli uni e con gli altri. Nomi russi resistono tuttora nella toponomastica dell’Alaska e delle isole Aleutine.

La casa di Kuskov a Fort Ross (imm. in pubblico dominio)

Un altro aspetto curioso legato alla cessione dell’Alaska è stata la scelta di far passare la nuova delimitazione tra Russia e Stati Uniti in mezzo alle isole Diomede che dal 1884 sarebbero state divise non solo dal confine di stato ma anche dalla linea internazionale del cambiamento data. Tre chilometri di mare permettevano ai sovietici e agli americani di osservarsi reciprocamente e ai pochi abitanti del luogo di osservare il domani o lo ieri. Ad ovest c’è la Grande Diomede (29 km quadrati) o Isola Ratmanov, che appartiene alla Russia ed è un avamposto militare abitato non permanentemente. Ad est la Piccola Diomede (9 km quadrati), chiamata anche Inaliq o Krusenstern, che invece ha una popolazione di poco più di cento abitanti. È l’unico luogo al mondo dove percorrendo uno spazio così breve si può mandare avanti o indietro il calendario di un giorno.

Cappella ortodossa a Fort Ross (imm. in pubblico dominio)

Ponte o tunnel nello stretto?

È intrigante il fatto che più di uno studio abbia valutato la possibilità di costruire un tunnel sotterraneo per collegare con una ferrovia Alaska e Siberia utilizzando le Diomede come punto di appoggio per effettuare i lavori. Del resto il fondale dello Stretto di Bering è piuttosto basso e le due isole sono probabilmente quello che resta della “Beringia”, lo stretto passaggio di terra che in epoche lontane permise alle popolazioni asiatiche di colonizzare l’America. Proprio il basso fondale e le difficoltà che in inverno il ghiaccio e gli iceberg creerebbero ad un ponte hanno convinto i progettisti a concentrarsi sull’ipotesi sotterranea.

Forse il tunnel è un progetto colossale di difficile realizzazione, ma in ogni caso i russi stanno costruendo infrastrutture stradali e sono in progetto quelle ferroviarie per collegare la Čukotka (così si chiama la regione di fronte all’Alaska) alle vie di comunicazione già esistenti. Sul lato americano le strade arrivano già relativamente vicine allo stretto che porta il nome dello storico esploratore russo-danese, mentre è allo studio una ferrovia che consenta all’Alaska di collegarsi con il resto degli Usa attraversando il Canada. Una via di comunicazione ferroviaria che mettesse in collegamento America e Asia di fatto unirebbe il mondo, data la contiguità di Europa e Africa alla stessa Asia, consentendo risparmi di tempo e denaro rispetto al traffico navale. Anche petrolio e gas che oggi viaggiano usando pericolose navi potrebbero venire trasportati su gasdotti e oleodotti da affiancare alla ferrovia. Oltre a Russia e Stati Uniti l’interesse per l’opera è stato fortemente manifestato anche dalla Cina, già collegata alla Ferrovia Transiberiana, che sfrutta notevolmente per inviare merci in Europa.

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