Prove di pace in Nagorno Karabakh

L'accordo dello scorso 9 novembre cambia lo status quo in vigore da trent'anni ma porta anche alcuni vantaggi alle parti in causa

Base della mappa di Gamesmasterg9 (CC BY-SA 3.0). Elaborazione di TeverePost

Solo la storia ci dirà se l’accordo mediato dalla Russia e firmato lo scorso 9 novembre tra Armenia e Azerbaigian porterà a qualcosa di buono. Per ora sono quasi due settimane che le armi tacciono e le parti interessate stanno lavorando all’applicazione di tutti gli aspetti concordati. Questa sorta di armistizio dovrebbe congelare il nuovo status quo per cinque anni. TeverePost si era occupato del conflitto scoppiato lo scorso settembre riassumendo anche la storia di una parte di mondo dove la conflittualità tra le due etnie principali è sempre stata alta (qui l’articolo). Oggi proveremo a spiegare come si è sviluppata la guerra e perché la pace raggiunta potrebbe portare benefici a tutti e tre i protagonisti dell’area. Tre e non due, poiché è necessario parlare anche della politica estera della Russia in questo territorio un tempo sovietico. Mosca è stata l’unico interlocutore serio per entrambi i contendenti, dato che gli altri protagonisti delle vicende caucasiche erano o fortemente schierati, come la Turchia, o impegnati in vicende interne, come gli Usa, oppure semplicemente incapaci di prendere una qualsiasi iniziativa diplomatica, come l’Unione Europea.

I successi militari dell’Azerbaigian

Quella che nei libri di storia sarà forse ricordata come la seconda guerra del Nagorno Karabakh è stata una marcia trionfale per gli azeri. Baku ha inesorabilmente conquistato territori sfruttando una netta preponderanza militare, figlia di una superiorità economica che ha caratterizzato gli ultimi decenni di storia dell’Azerbaigian. L’offensiva si è sviluppata su tre direttrici, ma è su quella meridionale che l’avanzata è stata rapida e senza una forte resistenza armena. Tutta la striscia di confine tra Nagorno Karabakh e Iran è tornata sotto controllo azero. Da lì poi è cominciata la marcia verso la città di Shushi, la cui conquista e la possibilità di attaccare anche la capitale Stepanakert ha costretto l’Armenia a negoziare una resa quasi incondizionata. Un accordo di pace era utile anche all’Azerbaigian, che ha così potuto rioccupare ulteriori territori attraverso la diplomazia senza sparare un colpo, di fatto riprendendo il controllo di tutte le province confinanti con il Nagorno Karabakh, dove il tricolore azero non sventolava più dal 1994. Il presidente Aliev ha potuto congelare il conflitto sulla linea del fronte raggiunto durante la breve guerra, e questo significa che anche una parte del Nagorno Karabakh compreso nei confini di epoca sovietica ha cambiato sovranità.

La situazione in Armenia

A Erevan, la capitale dell’Armenia, la notizia della resa quasi incondizionata non è stata presa molto bene. La folla inferocita ha assaltato gli edifici governativi per protestare per quella che è stata letta come una capitolazione. In realtà l’accordo sottoscritto dal premier Pashinyan non è stata l’ipotesi peggiore, vista la situazione militare che si stava configurando. Alla Repubblica dell’Artsakh, di fatto una provincia armena, rimane il controllo della parte più popolosa del proprio territorio oltre alla salvaguardia del corridoio di Lachin che permetterà di mantenere aperto il cordone ombelicale tra Stepanakert e Erevan. L’elemento principale di questo primo accordo di pace è che l’Azerbaigian si impegna per cinque anni a non riprendere il conflitto, e questa è una assicurazione sulla vita per i territori che restano in mano agli armeni. Una riconquista azera sarebbe stata infatti solo questione di mesi, viste le disparità emerse in campo militare tra i due contendenti. Per il governo di Nikol Pashinyan, che nel frattempo ha perso alcuni parlamentari della propria maggioranza, oltre a incassare le dimissioni del ministro degli esteri, ci sono anche alcune concessioni reciproche che rendono interessanti gli accordi sottoscritti. Se il corridoio di Lachin rimarrà aperto, seppure sotto il controllo di forze di pace russe, azeri ed armeni hanno concordato la creazione di due nuovi corridoi che interessano l’exclave azera del Nakhchivan. Gli azeri ottengono un corridoio di transito tra il proprio territorio e il Nakhchivan lungo il confine con l’Iran. Collegarsi con la propria exclave significa di fatto avere un contatto diretto anche con la Turchia. Gli armeni potranno utilizzare un corridoio simile per raggiungere la regione del Syunik, situata anch’essa ai confini con l’Iran, accorciando notevolmente il percorso che finora erano costretti a fare. A questo si aggiunge il previsto ripristino della linea ferroviaria che collega Erevan a Teheran, rimasta bloccata dalla caduta dell’Unione Sovietica. L’elemento forse più significativo di questo accordo è l’inaspettato ritorno alla circolazione in un’area che, del resto, fino a trent’anni fa non conosceva confini.

Silenzio per i caduti in Nagorno Karabakh nell’Assemblea nazionale armena

La situazione in Azerbaigian

Anche nella capitale azera la gente è scesa in strada all’indomani degli accordi, ma per festeggiare. Di fatto circa il 75% del territorio perso nel 1994 è tornato sotto la sovranità di Baku. Il Presidente Aliev ha ulteriormente compattato l’opinione pubblica sui propri successi militari, dopo quelli economici. È già stato annunciato un piano straordinario per la ricostruzione delle città riconquistate che permetta a coloro che dovettero scappare quasi trent’anni fa di poter ritornare a ripopolare il territorio. I profughi che decideranno di rientrare in breve tempo troveranno non solo le macerie dei conflitti di inizio anni novanta, ma anche decine di case armene incendiate da coloro che sono dovuti scappare durante la recente offensiva. Esattamente come osservato nell’ex Jugoslavia, la popolazione ha preferito distruggere tutto quello che possedeva pur di non lasciarlo nelle mani dei nemici. Città come Shushi o Agdam, quest’ultima abbandonata dagli anni novanta, erano a maggioranza azera anche in epoca sovietica e c’è da aspettarsi che Aliev intenda dimostrare la propria potenza economica trasformando le macerie in nuovi luoghi scintillanti. L’apertura del sognato corridoio per il Nakhchivan e di conseguenza anche per la Turchia è una concessione di portata storica che ha fatto presto dimenticare come la guerra non abbia portato alla riconquista di tutte le aree perse nel 1994.

Celebrazioni a Baku. Foto di Toghrul Rahimli (CC BY-SA 4.0)

Il ruolo della Russia

In modo sornione Mosca ha cercato di trarre il maggior numero di benefici dalla situazione incandescente venutasi a creare in Caucaso. La Russia ha un accordo di difesa militare con l’Armenia che prevede in caso di attacco a quest’ultima un intervento dell’alleata. Di fatto, però, le condizioni non sono scattate visto che il Nagorno Karabakh non è ufficialmente parte dello stato armeno. Più volte Pashinyan ha provato a sollecitare Putin, ma non ha trovato altro che assistenza diplomatica nelle trattative con gli azeri. In fondo la Russia non ha particolare simpatia per la nuova classe politica armena, che dal 2018 ha preso il controllo delle istituzioni attraverso una rivoluzione pacifica che ha spodestato i vecchi leader, pur mantenendosi fedele agli accordi politici ed economici con Mosca. L’Armenia esce da questa vicenda fortemente provata e con un primo ministro ai minimi storici in fatto di popolarità, con la Russia come unico alleato e garante dell’accordo di pace con gli azeri. Sull’altro fronte Aliev non ha avuto alcuna difficoltà a riconoscere la Russia come il miglior mediatore possibile, ruolo impossibile da ricoprire da parte della Turchia per la storica conflittualità con l’Armenia. Proprio i turchi affiancheranno i russi sul lato azero della nuova linea del cessate il fuoco. Alle forze di interposizione russe spetterà anche il ruolo di vigilare sulla salvaguardia dei luoghi sacri e di culto che gli armeni in ritirata hanno lasciato in quei villaggi che torneranno sotto la sovranità azera.

Il presidente russo Putin e quello azero Aliev in collegamento durante la firma degli accordi (President.az, CC BY 4.0)

Vittime, nuovi profughi e speranza di una pace duratura

Si stima che nel conflitto siano morte tra le quattro e le cinquemila persone, equamente divise tra entrambe le parti. Proprio durante la tregua armeni e azeri si stanno scambiando prigionieri e stanno restituendo i corpi dei caduti. Non solo militari ma anche i numerosi civili morti nei bombardamenti azeri su Stepanakert o quelli armeni su Ganja. L’accordo di pace porterà necessariamente nuovi profughi, in particolar modo tra gli armeni che vivevano nei villaggi e nelle città riconquistate dall’Azerbaigian. Se il conflitto non si fosse fermato e se gli azeri avessero preso la capitale del Nagorno Karabakh si sarebbe scatenato un esodo armeno in grado di destabilizzare la piccola repubblica. Probabile che tra i motivi che hanno portato Pashinyan ad accettare l’accordo abbia influito pure questo. I già citati corridoi e l’idea di favorire la libera circolazione fra tutte le aree protagoniste di questa storia costituiscono una seria speranza che la situazione possa migliorare. La rinascita di un’economia che coinvolga scambi anche con Turchia ed Iran, oltre che naturalmente Russia e Georgia, potrebbe contribuire al benessere delle persone e forse anche ad una, per ora lontana, pacificazione dell’area.

Soccorsi dopo il bombardamento a Ganja
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