Il dottor Pietro Pantone, 47 anni, lavora all’ospedale della Valtiberina dal 2007. Nel 2015, dopo il pensionamento della dottoressa Paola Vannini, è diventato responsabile del centro emotrasfusionale. TeverePost lo ha incontrato ieri mattina per fare il punto sull’attività della struttura, su come ha risposto all’emergenza Covid e sulle prospettive future.
Che risposta c’è stata da parte da parte dei donatori durante l’emergenza?
Come centro trasfusionale ci siamo attenuti alle indicazioni del Ministero e della Protezione Civile, con gli appelli a donare il sangue, e abbiamo avuto una grandissima risposta da parte dei donatori della Valtiberina, favorita vuoi dal fatto che nella nostra zona ci sono stati pochi casi di Covid, vuoi dal fatto che il popolo della Valtiberina ha sempre risposto agli appelli. Quindi attualmente le donazioni sono in aumento sia come plasmaferesi che come sangue intero, nell’arco dell’anno non abbiamo riscontrato diminuzioni. Invece abbiamo riscontrato ovviamente una diminuzione della consegna ai reparti, cioè dell’uso del sangue, perché i reparti erano tutti chiusi o comunque erano a minimo regime per garantire solo le emergenze. Per cui il sangue è stato messo a disposizione del CRS della Regione Toscana per essere ceduto alle strutture che hanno avuto invece dei cali. Siamo davvero soddisfatti perché abbiamo dato un bel contributo a livello nazionale.
In altre zone infatti le donazioni hanno subito una diminuzione.
Dove c’erano tanti contagi c’era il timore di uscire di casa, così come alcuni immaginavano che venendo in ospedale avrebbero potuto contrarre il Covid. Invece, come sappiamo benissimo, fortunatamente all’ospedale di Sansepolcro non ci sono stati focolai interni, grazie all’organizzazione che è stata data, al check-point all’ingresso, all’aver cercato di garantire il massimo di tutela al donatore e a chiunque fosse entrato nell’ospedale. Anche questo è stato percepito come qualcosa di rassicurante dai donatori, e ha contribuito al fatto che ci fosse veramente una gran risposta.
Oltre alle procedure all’ingresso dell’ospedale, quali misure di sicurezza sono state adottate al centro trasfusionale?
Non è cambiato granché, perché il Covid non viene trasmesso tramite sangue, come è stato ampiamente detto e divulgato, e anche a livello di assetto dell’attività già da anni lavoravamo con le prenotazioni. Dopodiché abbiamo cercato di evitare gli assembramenti, di aumentare le distanze tra le poltrone, di condividere la cultura di indossare tutti le mascherine e curare l’igiene delle mani. Ma come procedura di donazione vera e propria è cambiato poco.
Attualmente i donatori possono venire testati relativamente al Covid.
Esatto, a partire dal 15 giugno abbiamo iniziato anche qui, come in tutta la Regione, ad effettuare il test sierologico ai donatori, su base volontaria.
Questione del plasma iperimmune: a Sansepolcro si sta operando in questo senso?
Sì. Fortunatamente ci sono pochi casi, però sono stati già convocati, li stiamo visitando e stiamo cominciando proprio in questi giorni ad applicare l’istruzione operativa dell’azienda, che si è rifatta alla procedura regionale. Quindi raccoglieremo il plasma dei pazienti convalescenti Covid, lo invieremo ad Arezzo per il congelamento e per lo stoccaggio e a sua volta Arezzo lo manderà a Pisa, aderendo a questo progetto che è nato come regionale ma è diffuso in moltissime regioni.
In generale come è cambiato il centro trasfusionale da quando lei ne è responsabile?
Innanzitutto è cambiata la struttura stessa, che è stata totalmente rimessa a nuovo. Per il resto ho cercato di continuare quello che aveva portato avanti prima di me la dottoressa Vannini, cioè una fortissima collaborazione con le associazioni, in unità di intenti. Questo ci fa sentire molto legati e penso che questa sensazione di familiarità, sia tra personale interno che con le associazioni, venga percepita dal donatore come qualcosa di positivo che favorisce la donazione: il donatore si sente coccolato dal momento in cui viene convocato dall’associazione fino a quando entra all’interno del centro trasfusionale. Poi è cambiato un po’ il personale, è andata in pensione la storica infermiera Katia, però anche il personale che abbiamo in questo momento è altamente formato e veramente cordiale, e il tutto si vede nel gradimento che hanno i donatori nei nostri confronti. Inoltre, come dicevo, già da anni abbiamo cercato di eliminare il più possibile l’accesso volontario, nel senso che chi fosse venuto fuori appuntamento avrebbe comunque donato, però anche prima del Covid eravamo arrivati a una situazione tale che in una settimana potevano capitare fuori appuntamento un paio di persone, il resto era tutto su appuntamento. Ecco perché anche durante la fase Covid non abbiamo avuto grossi scossoni.
Per il futuro quali sono gli obiettivi?
Stiamo sempre cercando di aumentare la qualità della struttura. L’obiettivo principale sarà quello di implementare sempre di più la medicina trasfusionale, perché nella seconda metà della mattinata ci sono i pazienti che vengono trasfusi, vengono visitati, vengono salassati. Quindi non solo aumentare le donazioni, sensibilizzando sempre di più la popolazione, ma anche aumentare il numero delle prestazioni di medicina trasfusionale per scaricare l’impegno dei colleghi del pronto soccorso, oppure del day hospital medicina, o di altri reparti che sono intasati: tutto quello che è possibile verrà gestito al trasfusionale. E poi un altro impegno che abbiamo cominciato è il cosiddetto PBM, patient blood management: cioè per gli interventi programmati – la quasi totalità di quelli che vengono effettuati in Valtiberina – verrà fatto un consulto tra il medico trasfusionista, il chirurgo e l’anestesista per preparare il paziente all’intervento per quanto riguarda l’assetto marziale, l’assetto di emoglobina e l’assetto ematico, in modo da cercare di avere meno bisogno della trasfusione di sangue nella fase successiva. Puntiamo quindi sul fatto che il paziente possa compensare con le proprie forze la perdita di sangue dovuta all’intervento.