Pietro Mercati, dalla Valtiberina alla carriera in Intel

Gli studi a San Diego, il lavoro a Portland e la speranza un giorno di ritornare. L'ingegnere elettronico di Sansepolcro racconta a TeverePost la sua storia e parla delle differenze tra Italia e Stati Uniti

Pietro Mercati al Parco nazionale del lago Wallowa, in Oregon

Pietro Mercati è nato a Sansepolcro nel 1988. Dopo aver frequentato il Liceo Città di Piero ha conseguito la laurea triennale in Ingegneria elettronica all’Università di Bologna e si è iscritto alla magistrale scegliendo l’indirizzo con insegnamenti in lingua inglese, che ha aperto la strada a una carriera che si è concretizzata negli Stati Uniti. Potrebbe trattarsi di un classico esempio di ‘cervello in fuga’, senonché lui stesso rifugge questa espressione: “Non mi piace”, spiega durante l’intervista con TeverePost, “perché personalmente non mi sento ‘cervello’, né tanto meno sono ‘in fuga’. Quando sono partito non ero in fuga da niente, e lo stesso vale per tante persone che vanno ad abitare da un’altra parte, ma alla fine mandano avanti la loro vita quotidiana normalmente”.

Contestualizziamo: dove ti trovi e di cosa ti occupi?

“Sono in Oregon, a Hillsboro, vicino a Portland. Da alcuni anni lavoro per Intel, più precisamente nel dipartimento di ricerca e sviluppo Intel Labs. Il campo in cui lavoro si chiama CAD, che sta per Computer Assisted Design (sottinteso: of computers). Riguarda lo sviluppo di tecniche algoritmiche-computazionali che servono a fornire nuovi strumenti per il design di hardware e software complessi. Più in particolare, mi sono occupato di metodologie automatiche per migliorare il consumo di potenza e le performance dei sistemi computazionali. Ad esempio adesso lavoro su algoritmi di ottimizzazione basati su modelli di machine learning probabilistico, che vengono utilizzati per trovare il settaggio ottimale di diversi parametri di design”.

Come sei arrivato lì? Quando è maturata la decisione di partire?

“Durante la mia laurea magistrale. Come tantissimi altri studenti avevo cominciato a trovare interessante l’idea di ‘partire’. Ho cominciato a cercare opportunità per fare la tesi all’estero e ho deciso di contattare, tra gli altri, il professore che poi è stato anche relatore per la mia tesi magistrale, visto che sapevo che aveva collaborazioni negli Stati Uniti. La prima cosa che mi ha detto è stata: ‘Non pensare che andrai a fare le vacanze!’. Ma questo lo sapevo bene, quindi ho cominciato a lavorare con lui a Bologna e in quel periodo abbiamo cominciato una collaborazione remota con una professoressa della UCSD (University of California, San Diego) per il mio progetto di tesi. Nel 2012 sono stato sei mesi alla UCSD come visiting student, dopodiché sono tornato a discutere la tesi magistrale a Bologna. Nei sei mesi in cui ero a San Diego, la professoressa con cui collaboravo mi aveva chiesto se fossi interessato ad entrare in un programma di dottorato di ricerca (PhD) in Computer Science. Nel giro di una o due settimane ho dovuto prendere la decisione e fare un paio di esami che erano richiesti per presentare la domanda. In realtà avevo già in mente di fare il dottorato, si trattava di scegliere se farlo a Bologna o a San Diego, così quando mi è stata fatta quella proposta ho detto di sì. È stata una decisione presa al momento senza guardare nel lunghissimo termine. Dopo qualche mese ho ricevuto l’accettazione e di fatto c’era già un progetto pronto su cui dovevo lavorare.

L’Orso situato presso il dipartimento di Computer Science della UCSD (foto Lorenzo Ferrari)

Poi è arrivata la proposta di Intel.

Il dottorato è durato 4-5 anni, poi nel periodo finale ho fatto un internship in azienda in Oregon presso Intel, durante la quale mi è stato offerto il lavoro. Siccome ero abbastanza vicino alla fine del dottorato ho deciso di accettare: sono tornato a San Diego, ho fatto le ultime cose che dovevo fare, ho discusso la tesi e nel 2017 ho cominciato a lavorare qui. Qui c’è la parte più grande di Intel: l’azienda nel mondo ha circa 100.000 dipendenti e un quinto sono in Oregon. Infatti dicevo ai colleghi che ci sono più impiegati di Intel in Oregon che abitanti nel mio paese natale”.

Immaginavi che il tuo futuro sarebbe stato questo?

“Sinceramente non ho mai avuto piani a lungo termine. Credo che le decisioni siano arrivate una alla volta. Ho cercato di tenere una rotta che fosse quella di fare i miei studi e il mio lavoro in maniera decente e allargare la prospettiva sia personale che professionale, ma poi ogni passo importante ha seguito le proprie circostanze”.

Il quartiere costiero La Jolla a San Diego (foto Lorenzo Ferrari)

Ti trovi bene al lavoro e in generale negli Stati Uniti?

“Questo è un posto diverso dall’Italia e dall’Europa, ci sono differenze. Io mi trovo bene, sì. Alla fine sono una specie di immigrato di lusso, nel senso che ci vuole un po’ di costanza, ma sono venuto qui per studiare, ora sono qui a lavorare e le cose per me vanno abbastanza bene. L’ambiente di lavoro è impegnativo, perché è organizzato in maniera da essere molto efficiente, quindi colleghi e superiori si aspettano che tu sia preparato, pronto a rispondere, puntuale nelle scadenze. Allo stesso tempo è un posto che premia non solo i risultati ma anche il rispetto reciproco, lo spirito di collaborazione, l’impegno, l’aiutare i colleghi. Sono cose che vengono tracciate e nel caso anche premiate. Credo che tutto questo sia da valutare positivamente, anche perché – dico una cosa banale – è un ambiente di lavoro grande e complesso, con gente che viene da ogni parte del mondo, per cui capisco che tenerlo organizzato in maniera che non ci siano ad esempio litigi o conflitti sia difficile”.

Hai parlato di differenze rispetto all’Italia. Per esempio?

“Un esempio sempre riguardante il lavoro è che è richiesto un atteggiamento professionale, non ci si aspetta che tu faccia grandi amicizie. Quando sei al lavoro si parla principalmente di lavoro senza mescolarlo con la vita privata. Credo che questo sia legato in generale alla cultura degli Stati Uniti. Non è comune parlare dei fatti propri, tanto meno con degli sconosciuti, ma anche con dei colleghi. Non è automatico, a differenza di quello che avviene in Italia, che tu sviluppi delle relazioni personali con i tuoi colleghi. Quindi secondo me c’è una distinzione più o meno esplicita e cosciente tra relazione professionale e personale”.

Portland (foto Lorenzo Ferrari)

E la vivi come una cosa positiva o negativa?

“Non è né positiva né negativa, nel senso che poi la società si adatta intorno a questi aspetti culturali. Un altro esempio in proposito è l’individualismo, che è un po’ più marcato qua rispetto all’Europa. Questa medaglia ha due facce, da un lato c’è la celebrazione del successo personale, che il più delle volte corrisponde ad avere una bella carriera, i soldi, la casa; dall’altro lato si vengono a creare anche situazioni di povertà estrema, quindi forse c’è un gap maggiore rispetto all’Europa tra persone molto ricche e persone molto povere. Inoltre la gente tende ad essere molto più riservata rispetto all’Italia. Forse dipende dal fatto che questo è un Paese con più libertà dal punto di vista del movimento, del lavoro: cambiare velocemente occupazione e posto dove vivere qui è un po’ più facile, però l’effetto è che tutti, a partire da chi gestisce il palazzo dove vivo fino alle persone con cui ti interfacci al ristorante o al bar tendono a mantenere un atteggiamento un po’ preimpostato. Anche al ristorante c’è quasi un protocollo per ordinare da mangiare. Operazioni semplici sono molto più strutturate. In generale secondo me c’è una grossa attenzione delle persone nel seguire le regole”.

Come passi il tempo libero?

“Mi piace stare all’aria aperta, andare in bici, correre, giocare a pallacanestro o a pallavolo. Poi leggo, suono la chitarra, mi diverte molto cucinare. Quando posso cerco di viaggiare, negli ultimi anni ho visitato molti posti soprattutto qui negli Stati Uniti, ed ho avuto anche la fortuna di visitare altri paesi. La maggior parte del tempo, comunque, devo dire che è dedicata al lavoro e allo studio”.

Portland con il monte Hood sullo sfondo (foto Lorenzo Ferrari)

Negli ultimi tempi viaggiare è stato però difficile per la pandemia. Come l’hai vissuta e la stai vivendo?

“Attualmente sono bloccato in Oregon, dove finora i casi sono stati 37.000, con 600 morti accertati, quindi numeri bassi rispetto al resto del Paese. Quando la pandemia è scoppiata l’azienda ha preso velocemente la decisione di far lavorare da casa tutti quelli che potevano farlo, me compreso, e ancora siamo qui. Quindi sono diversi mesi che lavoro da casa mia e continuerò ancora per altri mesi. I cambiamenti principali si sono avuti in città, dove parecchi bar e ristoranti hanno chiuso. All’inizio hanno chiuso tutti per sicurezza, poi quando hanno potuto riaprire l’ha fatto solo la metà dei posti che c’erano. Inoltre parecchia gente ha perso il lavoro, per cui c’è stato anche un aumento di persone senza casa che vivono per strada. È un momento di crisi, ed è dura anche perché qui perdere il lavoro è un guaio grosso. Le famiglie fanno affidamento su questa entrata mensile e in più il lavoro spesso ti copre per l’assicurazione sanitaria, che senza un contratto di lavoro ti devi pagare da solo, se la vuoi. Personalmente sono fortunato, visto che a me e a molti altri colleghi del mio gruppo fa poca differenza lavorare da casa. Operando soprattutto con software, ci basta una connessione internet”.

Ci sono altri italiani nel luogo dove vivi?

“Ci sono degli italiani che ho conosciuto, però una comunità italiana vera e propria non c’è. A Portland c’è un gruppo Facebook di italiani con cui però non ho avuto occasione di entrare in contatto. In generale comunque qui non ce ne sono tanti, ce n’erano molti di più a San Diego”.

Che percezione hanno le persone dell’Italia?

“Le persone sono innamorate dell’Italia, e lo capisco: anche per me che sono qui da alcuni anni pensare alla Valtiberina fa venire in mente i paesaggi del Signore degli Anelli. La mia dentista mi racconta sempre di quando è stata due settimane in Italia, per lei è stata la vacanza della vita. E gli italiani sono apprezzati: probabilmente non abbiamo la completa comprensione di come siamo percepiti in altri Paesi”.

Che progetti hai per il futuro? Rimanere in Oregon o spostarti?

“Non ho dei piani precisi, Per ora vorrei continuare il lavoro che sto facendo, anche perché ci sono delle cose che vorrei finire, e imparare il più possibile. Ad un certo punto mi piacerebbe anche iniziare un progetto di start-up. Comunque se rimanere qui non lo so, sinceramente mi piacerebbe prima o poi tornare in Italia o in Europa. È un po’ che ci penso, del resto tanti di quelli che avete intervistato all’estero hanno detto che pensano di continuo a tornare a casa. Quindi a un certo punto sarebbe bello rientrare, se ci saranno le condizioni e se ci sarà l’opportunità. Oppure semplicemente se sarà passata la voglia di stare lontano”.

Ogni quanto tempo torni a Sansepolcro?

“Durante il dottorato riuscivo a tornare per un paio di settimane una volta all’anno, mentre da quando ho cominciato a lavorare di solito rientro una decina di giorni ogni due anni. Infatti mi piacerebbe avere qualche giorno di ferie in più per torna’ al Borgo”.

Cosa ti manca di più?

“Soprattutto mi manca la mia famiglia. Poi mi manca l’atmosfera rilassata del Borgo, del suo centro storico, e il senso di familiarità che ti dà il trovarti di nuovo a casa. Mi mancano alcuni luoghi che ricordo sempre con piacere: il lago di Montedoglio, la Montagna, il convento di Montecasale, il Tevere. Mi mancano anche i dintorni del Borgo, penso ad esempio ad Anghiari, Citerna, Lippiano, Monterchi”.

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