Così come esistono musicisti sordi (vedi Beethoven), pittori ciechi (Renoir), oratori balbuzienti (re Giorgio VI), scrittori monchi, possono esistere poeti rissosi, maneschi inaffidabili ed egoisti? La risposta ha un nome: Piero Ciampi.
Piero Ciampi è stato una demone, un diseredato, un vagabondo, una vera e propria mina vagante, pronta ad esplodere tra le mani dei suoi conoscenti, nelle orecchie dei suoi rari ascoltatori e fra le gambe delle sue innumerevoli donne.. Un’autentica alterazione cromatica nel mondo della musica italiana e in fondo lui si considerava solo un poeta al punto da pretendere che si scrivesse così,:”poeta” nella sua carta d’identità alla voce professione.
Ha detto di lui Gino Paoli, che ha registrato un intero disco con le canzoni di Ciampi:” Io credo che Piero Ciampi fosse quello che valeva di più fra tutti noi, il più poeta, il più lirico, il più artista, il più folle, il più egoista. Piero si, era un egoista mostruoso, ma anche un genio”.
Questo è solo un esempio della considerazione che godeva fra i suoi colleghi questo livornese trapiantato (provvisoriamente, sfruttando le abitazioni degli amici musicisti, Reverberi, Tenco e lo stesso Paoli) a Genova nella seconda metà degli anni 50, sempre inquieto, sempre gonfio di vino, sempre litigioso, sempre con la valigia in mano e come dice Giampiero Reverberi, “con solo una chitarra, un pacchetto di sigarette una camicia pronto a partire per Parigi con un biglietto di solo andata, a fare, come diceva lui stesso, le sue esperienze, quando le avrò fatte, affermava, potrò tornare indietro e cominciare a scrivere come dico io”.
Un militare fuori… ordinario
Piero Ciampi e Gianfranco Reverberi si erano conosciuti giovanissimi durante il servizio militare. Così racconta il loro incontro il musicista e produttore genovese:
Ai tempi del servizio militare dimostra tutta la sua insofferenza alla naia rivelando in modo già plateale tutti gli elementi distintivi di una personalità vulcanica: beve “come un’irlandese”, “non gli fa paura niente tanto meno un prepotente”, tanto che cerca deliberatamente la rissa coi “nonni” ed è, per usare un eufemismo, insofferente alla disciplina soldatesca, declama, fra le risate dei commilitoni, stravaganti poesie inventate lì per lì e scrive toccanti lettere d’amore con cui farà innamorare la figlia del suo comandante; nelle libere uscite va in giro a suonare per locali, un po’ dove capita. Aveva già esordito nella sua Livorno in un trio, in compagnia dei fratelli, suonando nelle bettole del porto e nei localini da ballo. Congedatosi torna a suonare nei night della Versilia ma, schifato dal pubblico dei vacanzieri di lusso che lui definirà poi: “volgarmente pornografici” nel 1957, transitando da Genova, approda a Parigi, dove, campando di espedienti e di vino, conosce Louis-Ferdinand Celine e resta folgorato dallo chansonnier Pierre Brassens, (del quale più di tutti in Italia incarnerà poi lo spirito) così si acconcia a mettere le note alle poesie che scrive, ubriaco, sui tovagliolini di carta dei locali malfamati che frequenta. Comincia a cantarle e ottiene un certo successo nell’ambiente bohemien dove viene ribattezzato Piero l’italiano. Guadagna discretamente ma spende tutto in vino così dopo due anni torna in Italia, a Livorno, la sua città che sarà sempre il porto franco nel quale si rifugerà dopo ogni fuga fisica e mentale.
Vagando tra Milano e Roma
Siamo nel 1960 e una nuova generazione di musicisti si affaccia sulla scena: sono i primi cantautori. Dalla scuola francese a quella genovese. La strada di Piero s’incrocia un’altra volta con quella di Reverberi, deus ex machina della scena ligure, che ora lavora a Milano per la Ricordi, il fulcro discografico della giovane musica “colta” (che all’epoca vuol dire soprattutto Bindi e Paoli o, al massimo, gli ancor defilati Tenco ed Endrigo), come produttore e arrangiatore. Reverberi gli fa incidere alcuni brani col nome di Piero Litaliano (senza più l’accento). In un periodo nel quale impera il Modugno di Volare e Vecchio Frac il suo esordio è choccante, basta scorrere il testo di “Comphiteor”, suo primo 45 giri: “che una volta in una rissa, mi sono arreso a un nano (…) e giuro ogni mattina di fare grandi cose/ ma quando vien la sera che ho fatto? Niente/ che gioco sui cavalli il soldo che mi resta/ e tengo nelle tasche sogni strani” E’ il suo primo autoritratto in musica, quello di un perdente autolesionista a cui non importa nulla di esserlo.
Viene lanciato sul mercato discografico con quel nome, Piero Litaliano e con un battage pubblicitario sui giornali che contemplava frasi del tipo; “fra un anno sarà popolare come Mina” ma lui molla tutto dopo aver inciso un album, intascato e puntualmente sperperato vari anticipi e torna a Livorno da dove si sposta ben presto in direzione Roma chiamato a scrivere canzoni melense per attricette e cantanti melodiche. Nel frattempo si sposa una prima volta con un’irlandese che gli da un figlio e lo pianta ben presto a causa del suo carattere rissoso e manesco. Piero Ciampi, ogni notte, colleziona donne di cui poche ore dopo a stento ricorda il nome, solo due ne ha amate veramente e le ha perse entrambe, per colpa sua e per sempre Da questa routine insoddisfacente lo trae fuori Gino Paoli che a Roma lo presenta a Ennio Melis, direttore artistico della RCA che lo mette sotto contratto.
. Ciampi incassa l’anticipo, una somma cospicua, e sparisce per tre anni senza incidere un disco ma Melis non desiste, una volta ritracciatolo gli mette al fianco il musicista Gianni Marchetti e il loro incontro darà vita a uno dei più fenomenali sodalizi fra un autore e un compositore che la storia musicale italiana ricordi. Con Marchetti, Piero è finalmente libero di essere se stesso, di esprimere quell’individualismo straripante, quel lirismo senza rete, quell’epopea dell’emarginazione, quel cabaret d’ordinaria follia che è la cifra stessa della sua scrittura poetica e della sua estroversione vocale. Il risultato è un album finalmente a nome di Piero Ciampi che contiene brani come “il vino”: Com’è bello il vino/ rosso rosso rosso/ bianco è il mattino/ sono dentro a un fosso/ e in mezzo all’acqua sporca/ godo queste stelle/ questa vita è corta/ è scritto sulla pelle…. … E non si vergogna di descriversi come bruto in “Ma che buffa che sei” …Ma che cara che sei/ quando dici “son due le anime mie”/ quel pugno che ti detti/ è un gesto che non mi perdono/ ma il naso ora è diverso/ l’ho fatto io e non Dio…… Oppure come ne “il giocatore” dopo aver recitato una specie di monologo composto da cifre che aumentano esponenzialmente, conclude sdoganando su disco (e in tv) la parola “merda”.
Nonostante gli sforzi di Ciampi e Marchetti non succede nulla, anche se Charles Aznavour lo invita a cantare il brano “Tu No” nella puntata di Senza Rete, trasmissione RAI, dedicata allo chansonnier franco-armeno. Piero, che inizialmente non vuole cantare e viene letteralmente spinto sul proscenio da Paolo Villaggio, si presenta visibilmente emozionato e canta la sua canzone con le braccia conserte per tutta la durata del pezzo, quasi a difendersi dagli oltre 1000 spettatori presenti nell’auditorium e allo stesso tempo a fregarsene di loro. L’album Piero Ciampi quell’anno, e siamo nel 1971, vince il “premio della critica” ma nessuno si premura di promuoverlo come si deve, lui per primo, troppo preso da quel viaggio senza ritorno dove la notte ormai non si distingue dalla luce del giorno.
Ciampi non sa stare al mondo, non riesce a mettere le cose in prospettiva, a dar loro il giusto valore: la sua musica e la sua libertà sono le uniche cose che lo interessano, perso com’è fra continui drammi e felicità nell’ottovolante di una vita meravigliosa e turbolenta, momenti che vengono però filtrati e restituiti da un talento cristallino e dall’impronta appiccicosa di un bicchiere di vino sul tavolo dell’ennesima osteria..
Una maturità irrequieta
Ma la creatività di Ciampi resta intatta così con l’ormai fido Marchetti nel 1973 esce il suo nuovo album: ”Io e Te Abbiamo Perso La Bussola” che contiene quello che è il suo epitaffio umano e artistico “Ha Tutte Le Carte In Regola”, E poi “Io E Te Maria” sublime serenata con continui cambi di tempo e di armonia, e ancora lo sberleffo nei confronti dell’amore borghese: “Te Lo Faccio Vedere Chi Sono Io”, una sorta di cabaret esistenziale. Per l’intero album Ciampi vaga seguendo un filo conduttore incentrato su vicende personali (l’abbandono da parte della sua seconda moglie, le pratiche legali, la custodia dei figli), sui temi della separazione, del distacco, della solitudine (in anni in cui il divorzio è ancora un tema scottante, oltre che una conquista recente).
Nello stesso anno Nada, livornese ruvida e bizzosa quasi quanto lui, incide un LP con sue canzoni che ovviamente risulterà essere un flop e l’anno dopo è Ornella Vanoni che contatta Marchetti perché a sua volta vorrebbe incidere un disco con brani di Ciampi che però…non si trova, sparito chissà dove; altra (e ultima) occasione persa.
Nel 1975 esce .“Andare, Camminare, Lavorare e Altri Discorsi” una specie di ”Il meglio di” con l’inedito “Andare Camminare Lavorare” una satira surreale e scioperata sull’Italietta dei referendum, dell’austerity e degli anni di piombo.
A pochi mesi di distanza viene pubblicata, in un doppio 33 giri, quella che sarà, di fatto, la sua ultima fatica discografica: Piero Ciampi Dentro e Fuori. Un commiato notevole sebbene, dal punto di vista musicale, un po’ più ripetitivo e sottotono rispetto al passato recente, particolarmente ispirato nei testi, forse mai così fluenti e narrativi, come se presagisse di avere tante, troppe cose da dire (a costo di essere verboso) e poco tempo per farsi ascoltare. La sua previsione, una volta tanto, si rivelerà esatta.
Piero Ciampi muore a Roma il 18 gennaio 1980, all’età di 46 anni, pochi mesi dopo una sua apparizione televisiva, insieme a Marchetti, sulla neonata RAI TRE fra monologhi surreali e e canzoni spiazzanti come sempre.
Nel suo ricordo a Livorno nel 1997 è stato istituito il premio Ciampi, manifestazione musicale che si tiene ogni anno in gennaio.