Continua il percorso condotto da TeverePost per approfondire l’impatto dell’emergenza sulla sanità della Valtiberina. Dopo l’intervista pubblicata due giorni fa al direttore della Zona-distretto Evaristo Giglio e quella uscita ieri al coordinatore della Casa della Salute di Sansepolcro Giuliano Checcaglini, è la volta quest’oggi della prima parte dell’intervista al dottor Nilo Venturini. La conversazione con il direttore del presidio ospedaliero ha permesso di delineare un quadro dettagliato di come l’ospedale della Valtiberina sta affrontando la pandemia e dei cambiamenti che ci dobbiamo attendere per il futuro, che vedremo domani nella seconda puntata.
Come ha reagito l’ospedale della Valtiberina all’emergenza?
All’inizio giungevano notizie un po’ distorte: quando l’epidemia era confinata in Cina si diceva che forse da noi non sarebbe arrivata, o che fosse poco più di un’influenza. Poi abbiamo capito la gravità del problema in modo concreto con i fatti del Nord Italia. Abbiamo allora reagito attraverso le indicazioni che prima la Regione Toscana e poi le Aziende sanitarie hanno messo subito in essere, quindi blocco di tutta l’attività ordinaria, sospensione dell’attività chirurgica tranne l’urgenza e la chirurgia oncologica, poi distinzione tra ospedali Covid e non-Covid. Nella nostra Asl gli ospedali Covid sono stati individuati in Arezzo e Grosseto. Nei non-Covid, come il nostro, è stata subito messa in campo una serie di procedure per evitare la penetrazione del virus come era avvenuto in Lombardia. Da un giorno all’altro abbiamo chiuso tutte le porte d’ingresso all’ospedale tranne una. All’ingresso è stato istituito il check-point, con infermieri che fermano i visitatori, li interrogano e gli misurano la temperatura. E i visitatori stessi sono stati in ogni caso fortemente limitati sia nel numero che nell’orario di accesso, diminuendo il rischio di contaminazione.
Per le persone che accedono al pronto soccorso, invece, è stato istituito il pre-triage che blocca tutti, anche le ambulanze. Il pre-triage identifica i casi sospetti, che non entrano all’interno dell’ospedale ma passano dal percorso di osservazione breve OBI Covid. A questo scopo abbiamo chiuso immediatamente l’ospedale di comunità, che aveva un accesso dall’esterno, e l’abbiamo identificato come area OBI Covid.
Come funziona la procedura di osservazione breve?
Nell’area OBI Covid i pazienti con sospetto Covid vengono fermati, gli viene fatto il tampone e vengono curati finché non arriva il risultato. Se torna negativo, il paziente rientra nel normale iter e penetra nel pronto soccorso. Se il risultato è positivo, in caso di sintomi leggeri viene rimandato al domicilio; si avverte il medico di base e successivamente le USCA (Unità speciali di continuità assistenziale), con specialisti e geriatri, e il positivo viene gestito a casa. Per noi questi sono stati la grande maggioranza dei positivi. Se il paziente con tampone positivo presenta invece sintomi tali da dover rimanere in regime di ricovero, viene allertato il 118. Arriva quindi un’ambulanza con personale attrezzato con tutti i dispositivi di protezione adeguati e il paziente viene centralizzato nell’ospedale Covid, che per noi è il San Donato di Arezzo. In base ai parametri che il malato presenta, può poi rimanere nell’area degenze Covid oppure venire avviato verso la rianimazione, che ad Arezzo è anch’essa esclusivamente Covid. Questo tipo di percorso ha permesso che nel nostro ospedale non penetrasse il virus, lo abbiamo per fortuna mantenuto pulito.
Qual è stato l’impatto sull’attività ambulatoriale?
C’è stata una forte riduzione di tutta l’attività, che fondamentalmente è stata sospesa. Poi piano piano abbiamo ripreso a fare alcune attività ambulatoriali di carattere non differibile, richiamando dalle liste di attesa. Questo in modo da ricominciare a muoversi verso una forma di normalità, che però ancora è lontana dal ritornare. Ora nella seconda fase dovremo mettere in essere una serie di percorsi differenti rispetto a prima, anche nell’attività ordinaria che riprenderemo prossimamente. Intanto tutti i ricoverati nell’ospedale vengono tamponati, nessuno può essere ricoverato se non ha prima fatto il tampone. Questo ormai anche nella chirurgia programmata, nel ricovero programmato dell’area medica, nel dializzato, nel paziente oncologico che deve fare la chemioterapia. Tutti quelli che devono stazionare per un periodo nell’ospedale devono aver fatto il tampone. Questo comporta un rallentamento del lavoro ordinario, con la diminuzione del numero di pazienti su cui possiamo intervenire. Un paziente che entra, per esempio, in endoscopia, deve essere considerato positivo fino a prova contraria. Il personale quindi è protetto come se il paziente fosse positivo e l’ambiente deve essere sanificato dopo l’esame. Questo implica una mezz’ora di tempo dopo l’esame prima di far accedere il paziente successivo. Si modifica completamente l’atteggiamento.
Tutto ha funzionato bene o ci sono state difficoltà?
Ognuno ha cercato di organizzare le cose nel miglior modo possibile, ma certamente non avevamo fin dall’inizio delle linee guida chiare. Alcuni presupposti si sono avuti subito: limitare gli accessi all’ospedale, mettere il check-point, mettere il pre-triage. Ma poi tutte le altre cose sono state implementate in corso d’opera, per quanto riguarda i percorsi interni all’ospedale, i processi di sanificazione, di pulizia, di attenzione che gli operatori dovevano avere ogni volta che avevano un approccio con un paziente.
Come si spiega la differente incidenza del virus in differenti zone d’Italia?
Questa è una cosa che gli epidemiologi dovranno studiare bene. Quello che è successo nel Nord è stato il non essere pronti a un’evenienza di questo tipo. Non che non fosse pronto il Nord, non era pronto nessuno. Il virus si è sviluppato prima in Lombardia, dove i pazienti arrivavano in ospedale in numero abbastanza alto e gli ospedali si sono infettati. Gli ospedali funzionano da cassa di risonanza in maniera incredibile. Poi non c’erano ancora misure di contenimento e di distanziamento, per cui il virus è dilagato. Noi abbiamo avuto 15 giorni di tempo per poter mettere in essere tutta una serie di presìdi. Poi il Governo stesso, con il lockdown, ha creato una condizione tale che questa cosa non si diffondesse con la facilità che aveva trovato nel Nord: senza queste misure di contenimento quello che era successo al Nord sarebbe arrivato anche da noi.
Quindi, ragionando per ipotesi, anche se il paziente 0 o il paziente 1 fossero arrivati nella nostra zona si sarebbe potuta verificare la stessa cosa?
Be’, si potrebbero fare anche ragionamenti differenti per quanto riguarda il tipo di organizzazione sanitaria che vige per esempio in Toscana rispetto al Nord. Nel Nord funziona molto bene la sanità programmata, ma non funziona granché bene, secondo me, la sanità del territorio. Noi siamo stati capaci di intercettare i malati Covid e di tenerne a casa la maggior parte. Invece è chiaro che se qualsiasi malato per qualsiasi situazione simil-influenzale dovuta al Covid va all’ospedale, questo si ingorga e si crea una condizione di potenziale serbatoio di infezione. Se la maggior parte di questi malati invece sei in grado di curarli a casa, identificarli, fare un lavoro certosino su quelli che sono stati i contatti, allora le cose cambiano molto. La densità della popolazione incide poi su un’altra cosa importante: la possibilità di identificare, come è stato fatto a Sansepolcro, le catene infettive. In una città, dove non c’è una capillarità di conoscenze come può esserci in una periferia, un lavoro di questo tipo è molto più difficile. E se non individui i positivi, il virus continua a trasmettersi da un soggetto all’altro. Da noi il livello di organizzazione di sanità territoriale, le attenzioni che sono state messe da subito dentro le residenze protette, le misure che sono state prese con serietà hanno dato risultati.
Leggi la seconda parte dell’intervista:
Nilo Venturini: “Seguire tutti gli accorgimenti per non rischiare un nuovo lockdown”.