Nicola Dini, classe 1978, è nato e cresciuto a Sansepolcro, e più specificamente alle Santucce. Un percorso scolastico insolito, il suo, dato che dopo aver frequentato l’Istituto tecnico commerciale si è laureato in Filosofia all’Università di Perugia. Ha avuto numerose esperienze lavorative nella città di Piero della Francesca, e molti lo ricordano dietro il bancone di uno dei più popolari pub del centro cittadino. Fino alla sua partenza da Sansepolcro, nel 2009, ha lavorato inoltre nell’azienda di famiglia.
Dove ti trovi attualmente e di cosa ti occupi?
Attualmente sono a Torino e lavoro come Food & Beverage Manager di EDIT, una struttura che ha al suo interno un birrificio, un pub, un bar-pasticceria, un cocktail bar e un ristorante. Mi occupo della gestione a tutto tondo.
Torino è l’ultimo capitolo di una serie di avventure. Perché a suo tempo hai lasciato Sansepolcro?
Torino è il capolinea, o forse una fermata, di un percorso iniziato all’inizio del 2009. Probabilmente il mio viaggio come membro dell’equipaggio della Torino-Pechino 2008 ha avuto l’influenza maggiore nel prendere questa decisione. Vedere scorrere una fetta di mondo davanti a quel finestrino, conoscere persone e comprendere che in un altro individuo possono coesistere grandi affinità e differenze culturali allo stesso momento è un’esperienza significante, dalla quale scaturiscono dei processi mentali che poi, se vogliamo, continuano a vivere di vita propria; aiutandoti anche ad imbarcarti con meno gravità in decisioni che cambiano l’esistenza, come prendere uno zaino e andare con un biglietto di sola andata a Londra. Una città dove non avevo mai messo piede prima.
Raccontaci dell’esperienza inglese.
Sono arrivato a Londra senza un piano preciso e senza conoscere nessuno. Ho vissuto per la prima settimana in una stanza condivisa di un ostello e ho speso questi primi giorni andando in giro a consegnare curriculum e cercare offerte di lavoro online. Dopo 5 giorni ho trovato lavoro come bartender in un ristorante marocchino, Souk Medina, a Covent Garden. Era un lavoro sottopagato e faticoso, ma era il mio primo lavoro a Londra! Dall’ostello mi sono trasferito brevemente in una casa in cui abitavano altri cinque italiani, ma sono scappato quasi subito, proprio appunto parlavano solo italiano e se vuoi imparare la lingua non è questo quello di cui hai bisogno. Dopo due mesi ho trovato un altro lavoro e dopo un mese un altro ancora, al Palm Restaurant. Quest’ultimo è stato quello che ha cambiato le carte in tavola, trattandosi di un’azienda americana con un forte programma di training sia operativo che manageriale. Posso dire che le fondamenta di quello che sono diventato oggi professionalmente siano state gettate lì. Dal Palm mi sono trasferito al Mari Vanna, un ristorante a Knightsbridge con cucina russa. Qui ho avuto il mio primo incarico come Food & Beverage Manager. A livello lavorativo la cosa che è fondamentalmente differente a Londra a confronto con l’Italia è la quantità di opportunità che ogni individuo ha a disposizione, se si è disposti a diventare la persona giusta per quella opportunità. Ho iniziato lavorando in un posto in cui dovevo indossare gli scarponi perché dietro il bar c’era così tanto liquido in terra che si creava mota (o “motta”, come se dice al Borgo), e dopo tre anni spiegavo i cocktail da me creati per il Mari Vanna al Principe William e sua moglie!
Perché sei ritornato in Italia?
Per due ragioni: perché la mia compagna Noora ed io siamo rimasti molto male per il risultato del referendum sulla Brexit; e perché Noora voleva vivere in Italia e imparare una terza lingua. Abbiamo lasciato Londra a settembre 2016 per fare un viaggio di tre mesi in centro America durante il quale abbiamo visitato Cuba, Messico, Guatemala ed El Salvador, e poi ci siamo trasferiti a Milano.
Hai progetti per il futuro?
In questo momento non ho particolari progetti per il futuro. Da una parte c’è ancora quella sete di conoscenza, di curiosità verso il mondo. Ripeto: è un processo mentale che, una volta partito, vive di vita propria. Noora, che nel frattempo è diventata mia moglie, sta studiando per diventare mastro birraio e a volte parliamo di aprire qualcosa insieme.
Consiglieresti a un giovane o meno giovane di fare esperienze all’estero?
Sì, consiglio a tutti di fare un’esperienza all’estero: non importa dove andate o cosa fate, vivere una parte di vita in un ambiente completamente diverso sicuramente cambia la nostra visione del mondo. Ovviamente ci sono altri modi per allargare la nostra visuale, ma questo è quello che conosco, quello che posso consigliare. Non si tratta solo, come dice il cliché, di “aprire” la mente. Secondo me esiste un’altra importante dinamica correlata a quella del viaggio, che è quella del ritorno. Per me, soprattutto i primi tempi, tornare a Sansepolcro era un’esperienza completamente nuova, dalla quale emergevano sentimenti nuovi, gioia, stupore e interrogativi che prima non vedevo. Non darò mai più per scontati la bellezza degli Appennini, un bicchiere di vino con gli amici d’infanzia, o i piccioni arrosto del pranzo della domenica in famiglia!
In questi ultimi anni sto soffrendo molto l’inasprimento del sentimento generale che avverto nella gente intorno a me (e online) per ciò che risulta essere diverso-da-sé. Avere un altro punto di vista, conoscere persone diverse, dovrebbe essere considerata una ricchezza, un’opportunità e non una minaccia al nostro status quo (ma poi quale status quo?). Solo pensare che in futuro tanti giovani italiani ed europei non avranno più l’opportunità di vita di fare un’esperienza (un’avventura se vogliamo) come ho fatto io, fa un po’ tristezza. Decidere di andare all’estero mi ha dato tanto nella vita: una professione, tante esperienze e, soprattutto, la mia compagna. Il diverso non è il nemico, io credo che il nemico sia chi, per interessi personali, prova ad addestrare tutti noi a stare nel nostro, non essere curiosi e odiare a prescindere ciò che è diverso da noi.