Lorenzo Vecchi ha 38 anni ed è di Sansepolcro. Vive a Milano dal 2010 e fa l’infermiere dopo la laurea conseguita nel 2008. Ha studiato all’Università di Siena, dove ha vissuto per sei anni. Manca quindi da 16 anni dalla Valtiberina, dove adesso torna una o due volte all’anno a trovare sorella, nipoti e zii. “Milano è una città che adoro, un porto senza mare, molto accogliente. È fatta soprattutto di persone, come me, che vengono da fuori. Un bel laboratorio dove si condivide tanto”, dice della sua città d’adozione.
“Ho sempre lavorato in area critica, fin dall’inizio alle Scotte, dove ho fatto chirurgia cardiotoracica e terapia intensiva. Poi queste cose restano nel curriculum”, spiega Lorenzo, “e allora anche in altri due ospedali sono stato sempre in area critica, prima cardiologia d’urgenza e poi terapia intensiva oncologica, in un notissimo ospedale di fama internazionale. A Siena ho lavorato nel settore pubblico, poi sempre nel famoso privato convenzionato lombardo – il che vuol dire che il grosso della fetta è pubblica, con assunzione diretta da parte dell’azienda”. Per arrivare da Siena a Milano Lorenzo ha preso una strada lunga, passando da Toronto, dove ha fatto 6 mesi di progetto “working-holiday”.
Come è cambiata la tua vita con l’emergenza coronavirus?
Sotto certi aspetti inizialmente mi potevo ritenere fortunato rispetto ad altre persone che hanno dovuto radicalmente cambiare vita, non potendo andare al lavoro o convertendosi allo smart working da casa. Io quanto meno riuscivo e riesco ad uscire di casa per andare al lavoro. E quindi prendere la macchina, imboccare la tangenziale deserta e le altre strade deserte per andare in un posto altrettanto deserto. Gli ospedali infatti sono stati svuotati, non ci sono più parenti nelle sale d’attesa, alcuni reparti sono stati chiusi. Un contesto surreale che mi ricorda un po’ quanto visto nella serie “Chernobyl” dopo il disastro nucleare. Insomma ho continuato a fare la stessa vita però senza poter uscire e godermi quello che dà la vita molto attiva di Milano. E anche se io comincio ad essere meno attivo che in passato, quella parte là manca molto. Inizio a sentire esigenza di socialità.
Qual è la situazione nel tuo luogo di lavoro?
Fino a ieri ho lavorato in un centro oncologico molto importante, mentre da oggi [ieri, NdR] pomeriggio cambierò struttura. Quella dove ho lavorato finora è una sorta di hub per l’oncologia che aveva il mandato dalla Regione di rimanere un ospedale Covid-free dove portare avanti la lista operatoria oncologica, che è terapia d’urgenza. Il Covid non guarda in faccia a nessuno, ma naturalmente anche il cancro non guarda in faccia a nessuno e necessita spesso di tempi molto ristretti per intervenire. Quindi abbiamo ricevuto molti pazienti da altri ospedali che nel frattempo erano oberati di lavoro, letteralmente scoppiati, a Milano e nelle altre province, in special modo Cremona, Bergamo, Brescia, Lodi, dove si sono verificate situazioni allucinanti. Abbiamo cercato di limitare il più possibile il virus, ma non è come con la precedente Sars, che manifestava da subito i sintomi e permetteva di agire subito con la quarantena. Questo virus è più infingardo e il rischio che temevamo si è poi concretizzato. Io per ora tengo botta, ma molti colleghi – infermieri, medici – si sono ammalati e sono risultati positivi. Tra l’altro fin da dicembre abbiamo avuto un numero anomalo di malattie di carattere respiratorio, ma senza tamponi nessuno può dire da cosa sia dipeso. Insomma ci siamo trovati a lavorare con la paranoia di questo nemico invisibile, in un modo che in un certo senso, paradossalmente, era anche più subdolo che negli ospedali Covid, dove sai che sono tutti positivi. Comunque siamo infermieri e sappiamo cosa fare, fin dall’università una delle prime cose che ti dicono è quella di trattare tutti i pazienti come potenzialmente infetti. Perché uno dei principali problemi degli ospedali sono proprio le infezioni nosocomiali.
E nella nuova struttura dove andrai cosa c’è di diverso?
La nuova struttura dove inizio a lavorare, e dove già lavoravo tre anni fa, si occupa di neurologia e cardiologia d’urgenza, ma da due mesi l’ospedale si è completamente convertito ad assistenza Covid, dove curiamo solo pazienti Covid-positivi. Questa struttura ha un pronto soccorso in cui si è registrata un’incidenza di contagio molto alta. L’ondata è arrivata subito dopo il primo “tsunami” nel Lodigiano, dove arrivavano al pronto soccorso anche 50 pazienti al giorno con la polmonite. Neanche ad essere dentro un film catastrofico avrei potuto immaginare una cosa del genere. Poi anche qui, dopo i primi due o tre positivi, si è infettato tutto l’ospedale ed è stato deciso di destinare la struttura ad assistenza Covid. La terapia intensiva è passata da 8 a 13 posti letto. Anche lì già da dicembre i miei colleghi del pronto soccorso si sono ammalati in molti, poi con i tamponi ne sono risultati positivi tantissimi. Alcuni hanno avuto sintomi lievi, altri situazioni più gravi: nessuno è stato intubato ma c’è chi ha avuto bisogno di assistenza respiratoria ad alti flussi d’ossigeno e ventilazioni non invasive. Su questa struttura va detto che poco distante abbiamo anche una RSA dove la mortalità da Covid, come del resto nelle altre RSA della zona, è stata molto elevata.
Adesso si vive un po’ un momento di bonaccia, nel senso che all’inizio non si sapeva contro cosa si stava combattendo, poi dopo le prime due settimane si è iniziato a capire come gestire la situazione. Anche perché si è sviluppata un’importante rete di scambio di informazione tra colleghi.
Quali misure sono state adottate a tutela dei sanitari?
La Regione inizialmente da decreto metteva gli operatori sanitari nella condizione che se stai bene e sei asintomatico (ma ormai sappiamo che l’asintomatico può fare da vettore) devi andare al lavoro. Nella situazione iniziale, un momento di crisi, con carenza di personale e tanti ammalati, è stata adottata questa soluzione. E quindi all’inizio si sono ammalati in tanti, anche perché i DPI venivano utilizzati ma meno di quello che necessita il Covid. In una situazione normale, pre-Covid, se devo fare un elettrocardiogramma metto i guanti, ma mascherina e occhialini no, mentre se devo intubare una persona si mette tutto anche in condizioni normali. Di conseguenza all’inizio alcuni hanno preso il virus perché non si poteva immaginare questa situazione: sai che ci sono quelle dieci persone a Codogno e basta, poi quando sono diventate cento ormai era tardi. Il tampone veniva fatto solo ai sintomatici, se era negativo tornavi a lavorare, se era positivo facevi un periodo di quarantena e un altro tampone. Quindi era monitorato dal tampone solo chi risultava positivo una prima volta. La temperatura corporea all’ingresso degli ospedali veniva misurata a tutti, dipendenti e parenti che potevano girare per un’ora al giorno. Solo da ieri la Regione ha stabilito che verrà effettuato il tampone a chiunque venga registrata la temperatura di 37,5°.
La stessa politica era adottata nell’ospedale dove ho lavorato fino a oggi. Anche qui si sono ammalati molti operatori, anche se meno perché in teoria era un ospedale che doveva rimanere “pulito”. Tra i pazienti anche in questa struttura ci sono stati dei decessi. Non ho fatto statistiche e non sono virologo né microbiologo, però va detto che il tampone lascia un po’ il tempo che trova. Anche perché è molto operatore-dipendente, bisogna vedere chi lo fa. Non è così automatico mettere un tampone in bocca o nel naso e farlo bene, quindi ci sono stati secondo me molti risultati non corretti. Dico questo perché ci sono state morti “anomale”. Persone che avevano anche altri problemi ma tutte con la polmonite. Molto strano.
L’intervista a Lorenzo Vecchi, infermiere di Sansepolcro che lavora da molti anni a Milano, continuerà nella prossima puntata, in cui si esamineranno anche alcune dinamiche organizzative della sanità lombarda.
La seconda parte dell’intervista a Lorenzo Vecchi:
“Emergenza attuale figlia dei tagli alla sanità degli anni scorsi”