Il mondo del lavoro sta pagando un prezzo altissimo alla crisi coronavirus. Alle difficoltà economiche di chi non può andare a lavorare si sommano i problemi di sicurezza per chi, al contrario, deve andarci per forza. Esaminiamo la situazione con il segretario provinciale della CGIL di Arezzo Alessandro Mugnai.
Cominciamo da quei lavoratori che non possono lavorare. Quali situazioni stanno vivendo?
Al momento abbiamo circa il 70% delle attività in cassa integrazione o comunque sotto ammortizzatori sociali. Prima le aziende hanno cercato di utilizzare le ferie e i permessi arretrati, ora siamo entrati in modalità cassa. E bisogna vedere se si arriva a chiudere a livello regionale l’accordo con le banche, a prescindere da quello che hanno annunciato a livello nazionale. La loro effettiva disponibilità la vedremo questa settimana. In caso contrario all’emergenza pandemica si aggiungerà quella burocratica.
Ma poi c’è tutta una popolazione grigia, fatta di partite IVA, precari, stagionali, co.co.co., che sono terra di nessuno. Adesso siamo nella fase dell’emergenza, ma dopo dovremo fare i conti di fronte al fatto che è stato creato un “esercito di morti di fame” con paghette settimanali che, tolto quel sostentamento con cui andavano avanti, sono nel panico completo. Restano il bonus dei 600 euro e i buoni spesa che qualche comune ha attivato, ma questa situazione è la cartina tornasole di un mondo di precariato che non sa dove sbattere la testa. Questo dimostra la fragilità di una società che ha basato la sua forza lavoro su precariato e salario di bassa levatura.
In che maniera la CGIL supporta questi lavoratori?
Le nostre Camere del lavoro hanno a livello provinciale 600 contatti al giorno, anche perché siamo l’unico presidio aperto, visto che l’INPS è sbarrato. Spesso si tratta di persone che hanno poca pratica online, altri che parlano a mala pena l’italiano, perché ci sono tanti lavoratori immigrati, l’ultima ruota del carro.
Poi ci sono i lavoratori che devono andare a lavorare perché svolgono un’attività essenziale.
Bisogna intanto capire cos’è un’attività essenziale. L’unico misuratore ritenuto possibile è stato il codice Ateco, ma si tratta di codici antiquati, in molti casi di codici secondari che non si riferiscono all’attività principale dell’azienda. Insomma una cosa è il codice Ateco, un’altra la realtà dei fatti. E al netto dei tantissimi imprenditori corretti ne abbiamo avuti altri che hanno abusato di questa circostanza. In Valtiberina un esempio è quello della Tratos, con cui abbiamo avuto una polemica nei giorni scorsi che per noi è tuttora valida.
Oggi in provincia di Arezzo ci sono oltre 2000 aziende al lavoro su 22000, circa il 10%: questo è un dato limitato ma che poteva essere ulteriormente ridotto. Comprendiamo le difficoltà delle imprese dal punto di vista economico, ma bisogna decidere qual è la priorità, altrimenti si fanno scelte che non sono corrette e sono anche pericolose.
Il sindacato cerca di intervenire in queste situazioni?
Siamo già intervenuti nei confronti della Prefettura, ma anche lì fanno quello che possono, perché il codice Ateco è un indicatore impreciso, non è dettagliato come il libretto di una macchina. Le richieste fatte dalle aziende sono tante, la Prefettura ha cercato di filtrare, noi abbiamo fatto le dovute segnalazioni relativamente a quelle aziende dove abbiamo una RSU interna in grado di fornirci un quadro della situazione.
Che percezione avete, nelle aziende che lavorano si stanno rispettando i criteri di sicurezza?
Cgil, Cisl e Uil hanno preso una posizione molto rigida, quando ci vengono segnalate situazioni border line interveniamo direttamente con le aziende – abbiamo dichiarato anche scioperi nelle settimane scorse – poi si passa alla segnalazione alla Prefettura per un intervento delle autorità competenti, cioè i NAS e le Asl. Che sono intervenuti dietro nostra segnalazione al Prefetto in vari casi, soprattutto in aziende in appalto che lavorano anche in settori delicati. In alcune situazioni si è riscontrata grande incoscienza, che si sommava alla oggettiva difficoltà, soprattutto all’inizio, a reperire i dispositivi di protezione. Devo dire che abbiamo fatto fatica, in una prima fase, anche con la Buitoni, dove c’è stato un po’ di disorientamento, ma poi il problema è stato risolto.
Quali sono le prospettive future?
La cosa più importante è che se si fa ripartire il paese lo si fa ripartire insieme, non si possono avere sempre le tasche girate da una parte sola. Invece c’è la sensazione che ci sia una sorta di “febbre da dopovirus”, per cui si cerca di approfittare dell’emergenza. Confindustria parla di velocizzare il codice degli appalti. Questo è veramente scorretto, perché il codice degli appalti serve a escludere le infiltrazioni della criminalità, a tutelare la sicurezza dei lavoratori, a garantire parità di salario a parità di lavoro. Mi preoccupa molto che si senta il bisogno di metterlo in discussione.
I tentativi di approfittare della situazione sono tanti, abbiamo trovato aziende in cassa integrazione ma che facevano lavorare i dipendenti da casa in remoto, e questo si chiama rubare. A proposito del lavoro a distanza, la tecnologia oggi può dare dei contributi estremamente seri, ma bisogna concordarne le modalità con un atteggiamento molto responsabile, non può diventare occasione di sfruttamento, per esempio nei confronti di un dipendente in malattia.
Ancora, si comincia a sentire, non nella nostra provincia, di petizioni fatte sottoscrivere ai lavoratori per tornare a lavorare. I lavoratori sono oggi in una condizione molto fragile, sono chiusi in casa, spesso in piccole case popolari, magari non hanno l’anticipo della cassa integrazione perché l’azienda già prima andava poco bene. Approfittarsene per sollecitare la riapertura di aziende è facile quanto pericoloso.
Insomma ci dev’essere un’unità di intenti non solo di parte sindacale ma anche dal punto di vista politico, delle associazioni di rappresentanza degli imprenditori, non si dovrà calcare la mano in una situazione in cui ci saranno grosse difficoltà.
Va inoltre sottolineato che con i tagli indiscriminati imposti dall’Europa, con le spending review, si è ridotto lo Stato ai minimi termini, vale per la sanità, per l’assistenza agli anziani, vediamo le Rsa in condizioni veramente difficili, ma un po’ tutti i settori. Chi ieri diceva “privato è bello”, oggi lo vediamo invocare con tanta veemenza più infermieri, più posti letto, più forze dell’ordine. Noi siamo della stessa idea: serve rivedere il sistema fiscale di questo paese, chi ha di più deve pagare di più. Lo stato è stato svaligiato con tagli di entrate nel fisco per fare cassa politica. Lo stato va rimesso in condizioni di poter operare e presidiare bene il territorio.
E infine bisogna rivedere la burocrazia: basti pensare a quale situazione si sta vivendo in questa crisi con l’INPS, naturalmente non per colpa dei dipendenti, anche loro con tagli notevoli di pianta organica.