Stefano Babbini è nato ad Anghiari e ha frequentato il Liceo scientifico di Sansepolcro. Nel 2006 si è laureato in ingegneria ambientale a Firenze, dove ha fondato la sua prima start-up e ha collaborato con l’Università come ricercatore fino al 2010, quando si è trasferito a Milano. Ha operato come imprenditore e manager dapprima nel settore della bioenergia e dell’agro-industria e poi in quello della chimica verde e dei biomateriali. Nel 2015, a Varese, è stato tra i fondatori di Mogu, realtà di cui ha parlato con TeverePost.
Di cosa si occupa la tua azienda?
Mogu è un’azienda che si inquadra nel mondo delle biotecnologie applicate ai materiali. Siamo un’azienda abbastanza trasnsettoriale: il nostro prodotto è infatti legato al settore del design, in particolare all’interior design, però tutto il percorso tecnologico si basa su una ricerca che riguarda il mondo delle biotecnologie e la scienza dei materiali. Se devo raccontare in modo molto conciso quello che facciamo, posso dire che realizziamo soluzioni per il design partendo dalla fermentazione fungina. In modo ancora più semplice, facciamo crescere funghi con cui strutturiamo delle fibre e creiamo dei pannelli che hanno una certa estetica e un certo disegno. Lavoriamo per creare soluzioni dedicate all’interno di uffici, sale riunioni, hall di alberghi e tutti quegli spazi che prevedono la vita e l’operatività delle persone. Mogu ad oggi ha trovato la sua identità nel mercato del design partendo da un percorso molto legato a tutti i nuovi filoni della sostenibilità e dell’economia circolare di cui oggi si sente sempre più parlare. Questo perché principalmente lavoriamo materia organica di scarto che proviene da altre filiere produttive, dall’industria alimentare, dall’industria tessile: recuperiamo fibre che altrimenti sarebbero probabilmente destinate all’incenerimento e le rilavoriamo facendoci crescere funghi che le strutturano. Si creano così dei materiali sostenibili, innovativi, con estetica e performance specifiche. E arriviamo al prodotto finito, perché facciamo anche lo step finale, realizzando le pannellature che poi consegniamo ai nostri clienti per i loro interni.
Come è nata l’idea alla base di Mogu?
È nata da un incontro. Del resto se si va indietro nel tempo e si guardano le storie di grandi aziende innovative come Google, Apple, Facebook, si vede che a far scattare la scintilla è stata sempre la conoscenza fra alcuni soggetti. Nel mio caso è stata la conoscenza con quelli che oggi sono i miei soci principali. Uno è Maurizio Montalti, un brillante ricercatore, comunicatore e designer che vive ed opera ad Amsterdam. Lui già lavorava con i materiali vivi da alcuni anni collaborando molto con le università olandesi e si era ritagliato un suo spazio nel mondo della biofabbricazione. Ci siamo incontrati tramite l’altro socio, che è Federico Maria Grati. Oggi è manager in Eni, però fa parte anche del nostro consiglio di amministrazione. Tramite questo connubio di “menti” ma soprattutto di interessi abbiamo valutato che poteva essere possibile provare ad applicare su un filone commerciale quello che Maurizio già faceva in chiave accademica e di ricerca. Identificando quindi dei campi di applicazione concreti, cercando di sviluppare dei prodotti, creando un mercato, e in pratica gettando le fondamenta di un’azienda. Mogu ha cinque anni e mezzo e si è sviluppata nel tempo: oggi siamo circa una ventina di persone, che non è male per una start-up italiana. In Italia si fa sempre un po’ fatica a sviluppare aziende da zero, soprattutto partendo da idee nuove e dal tema dell’innovazione e della sostenibilità. Ecco, Mogu fino ad oggi ha avuto un percorso molto positivo proprio grazie a questa unione che è anche di competenze, visto che io vengo dal mondo dell’ingegneria ambientale, Maurizio dal mondo del design, della biofabbricazione e delle biotecnologie e Federico dal mondo della chimica verde e dell’agroindustria.
Quali sono stati i passaggi più importanti nella vita dell’azienda?
Devo essere onesto nel dire che l’azienda oggi è quello che è grazie principalmente ai risultati che ha ottenuto nel suo rapporto con l’Europa. Come tutte le micro start-up la nostra inizialmente era una cosa più hobbistica che professionale. La pietra miliare che ha permesso la professionalizzazione della nostra azienda, e che ha fatto in modo che cominciassimo a investire e a prenderci delle responsabilità, è stata la possibilità di entrare in progetti finanziati dalla Commissione europea con i programmi Horizon. A partire dal 2016, e poi anno per anno, questo ha portato a finanziare nostre attività di ricerca applicata in consorzi europei in cui siamo entrati grazie ai network industriali che già avevamo. L’europrogettazione è stata quindi la chiave di volta per spingere la nostra ricerca a un livello successivo. Poi andando avanti nel tempo è stato fondamentale il contributo del mercato. Questa è la sfida più difficile di tutte le nuove tecnologie, di tutte le nuove soluzioni: trovare conferme dal mercato. Si può dire che grazie al grosso contributo del programma Horizon abbiamo messo nel cassetto la fase 1. Nella fase 2, quella in cui siamo oggi, cerchiamo una conferma di mercato che sta arrivando grazie a progetti importanti nei quali siamo coinvolti.
Siamo quindi già entrati nel tema degli obiettivi per il futuro.
Abbiamo due macroobiettivi. Il primo, come detto, è quello del consolidamento di mercato nel nostro settore principale, che è il mondo del design e in particolare del design sostenibile. D’altro canto Mogu si è un po’ diversificata nel tempo perché il nostro lavoro è abbastanza ampio: partendo dal mondo delle biotecnologie, avendo fatto sempre ricerca nelle tecniche di base della fermentazione utilizzando microorganismi fungini, abbiamo notato che era possibile applicare questa tecnica anche ad altri settori. Quindi l’azienda è sostanzialmente divisa in due: da una parte abbiamo la componente legata al mercato e al settore del design, mentre dall’altra parte abbiamo creato un laboratorio che abbiamo chiamato Pura. Qui un team di persone molto qualificate, che ora cominciano ad avere anche una discreta esperienza, fa ricerca nella fermentazione fungina per applicarla anche a campi nuovi. Principalmente stiamo realizzando materiali alternativi alla pelle per la moda sostenibile, in pratica creando pelle da funghi. Questo ha un enorme impatto positivo a livello ambientale, perché la pelle ha tutta una serie di problemi. E l’altro campo di applicazione su cui ci stiamo cimentando è quello alimentare: i cibi fermentati oggi sono uno dei filoni più interessanti per creare fonti proteiche alternative alla carne, alla soia e a tutti i prodotti non sostenibili. Quindi gli obiettivi sono due: quello di mercato e quello di portare la nostra ricerca su altri campi di applicazione, per arrivare a degli scenari dimostrativi con delle aziende partner che ci possano aiutare. Magari, perché no, un giorno potremmo anche parlare con Aboca, sarebbe molto interessante. In questo modo cerchiamo di aumentare le nostre opportunità di avere un impatto positivo in vari settori merceologici.
Quest’anno è caratterizzato dalla pandemia. Ha inciso sulla vostra attività?
Come per tutte le aziende sì, purtroppo. Pur essendo localizzati in Lombardia siamo stati comunque relativamente fortunati, se non altro perché la provincia di Varese è stata abbastanza graziata rispetto al Bergamasco o al Bresciano. Tutto sommato non ci possiamo lamentare, certo è che tutte le varie restrizioni, gli obblighi e le chiusure di alcuni settori un impatto lo hanno avuto. Noi siamo inquadrati nel mondo delle biotecnologie, quindi di fatto non siamo mai stati bloccati dalle misure prese a marzo, aprile e maggio e con una grande cautela abbiamo sempre continuato a lavorare. Naturalmente però tutto il mondo legato agli edifici e al design, quindi i nostri mercati principali, hanno risentito di questa situazione. Un altro problema è legato alla possibilità di incontrare altre aziende, altri partner: vedersi di persona, nonostante tutte le opportunità di comunicazione tecnologica che ci sono oggi, è sempre molto importante. E poi c’è tutto il mondo delle fiere che sta ripartendo praticamente solo adesso, con grande fatica.
Prima hai accennato alle difficoltà delle start-up in Italia. Quali sono le questioni più importanti a questo proposito?
Nel mondo in generale e anche in Italia c’è un grandissimo parlare di start-up, e spesso si perde un po’ di vista il concetto che le start-up non sono altro che aziende. Uno si immagina subito la cosa “figa” e californiana, un’entità strana diversa rispetto all’azienda tradizionale. Non è così, le start-up sono delle aziende, semplicemente sono delle aziende neocostituite. Quindi spesso e volentieri il problema che si riscontra è quello della mancanza di esperienza imprenditoriale: capire che quando si intraprende un certo tipo di percorso, soprattutto da parte dei fondatori o dei soci operativi, ci dev’essere un approccio di imprenditorialità, con tutto quello che ne deriva. E quindi anche con le responsabilità del caso e con gli impegni del caso. Un altro elemento da sottolineare è che non è vero che in Italia ci siano tutte queste opportunità di essere finanziati rapidamente, come invece avviene in tanti altri paesi. In Italia c’è ancora un gap sulla parte di supporto alle start-up, anche se ultimamente degli strumenti stanno venendo fuori. La mamma Europa certamente dà delle possibilità, ma serve esperienza e serve professionalità, perché i progetti vengono finanziati solo se vengono scritti in modo professionale, quindi questo è un aspetto a cui non si può rinunciare. Per ultimo, ritorno su una cosa che ripeto sempre come un mantra, ed è il tema mercato: spesso e volentieri chi avvia qualcosa anche di molto innovativo non tiene conto del fatto che dovrà rendere conto principalmente al mercato, e che il mercato sarà spietato. Se un’azienda starà in piedi, starà in piedi perché il suo prodotto sarà convincente, sarà competitivo e qualcuno lo sceglierà. Questa è la cosa che raccomando sempre quando mi chiedono quali possono essere le chiavi del successo di un’azienda nuova e innovativa: non perdere di vista il mercato.
Dal tuo punto di osservazione quali ti sembrano le prospettive dell’economia circolare e di un futuro ecologicamente sostenibile?
Ormai leggiamo quotidianamente articoli nuovi sulla sostenibilità, sull’economia circolare, su nuove pratiche, nuovi progetti, nuove tecnologie. Effettivamente, però, guardando in concreto a quello che c’è già di spendibile e di utilizzabile, alle reali applicazioni da parte delle industrie, ci sono certamente esempi positivi, ma ancora c’è tantissimo da fare. Questo perché spesso anche nuove proposte nel campo della sostenibilità vengono da aziende piccole, magari come noi, o delle start-up ancora più early stage. E non è facile svilupparsi realmente, cioè non solo sopravvivere aziendalmente ma arrivare a un pubblico di larga prospettiva e di largo consumo. Comunque sia c’è certamente un trend positivo, poi già il fatto di parlarne è certamente molto importante. Anche perché lo stimolo deve venire dal legislatore, come abbiamo visto nel mondo della plastica e delle bioplastiche: senza i divieti e gli obblighi a livello di sacchetti di plastica probabilmente non si sarebbe mai sviluppato un intero settore. L’opinione pubblica è molto importante, ma certamente le aziende devono rispondere e questo lo stanno facendo. Devo dire che non solo in Italia ma in Europa c’è un movimento di opinione molto forte. Oggi i nuovi trend nel mondo della sostenibilità li vediamo soprattutto nell’alimentare: per esempio contro una produzione di carne assolutamente non controllabile e non sostenibile. Secondo me per l’immediato futuro la partita si giocherà molto in questo settore.