Lorenzo Comanducci, da giovane promessa a leader della difesa

Torna l’appuntamento con le storie degli ex calciatori del territorio. Oggi è il turno di un difensore forte nella marcatura a uomo e a zona e capace di rendere sempre difficile la vita agli attaccanti

Lorenzo Comanducci ieri e oggi

Affidabile e grintoso, dotato di grande esplosività fisica e sempre sul pezzo, abile nella marcatura sull’uomo e nel difendere a zona, colonna del “pacchetto arretrato” del Sansepolcro, ma anche di Montevarchi, Città di Castello, Tiberis, Baldaccio Bruni Anghiari, Castiglionese e delle altre squadre in cui ha militato. Lorenzo Comanducci è stato senza ombra di dubbio uno dei difensori più forti del nostro territorio e ha vissuto una bella carriera lasciando ottimi ricordi in ogni realtà. È cresciuto nel settore giovanile del Sansepolcro e con la compagine biturgense è stato protagonista di tante importanti stagioni, compresa quella che nel famoso campionato di Serie D 1995-1996 fu caratterizzata dal duello serrato con l’Arezzo di Cosmi e dai 14 punti di penalizzazione che di fatto impedirono il salto in Serie C. Con i bianconeri si è tolto tante soddisfazioni, ma lo stesso ha fatto anche nelle altre esperienze, trasformandosi da giovane promessa a leader della difesa, in un periodo di grande cambiamento nell’interpretazione della fase difensiva. Ha giocato fino a 37 anni e ora allena i giovanissimi del Sansepolcro, con la stessa passione e lo stesso spirito di quando rendeva sul campo la vita difficile agli attaccanti avversari. Oggi assieme a Lorenzo ripercorreremo la sua storia calcistica.

Quando hai iniziato a giocare a calcio?

Per strada e nei campetti di Sansepolcro con i bambini della mia età, poi quando avevo 6-7 anni Pecorelli, amico di mio babbo e dirigente della società biturgense, cercava ragazzi per ricostruire il settore giovanile. Prima cominciò mio fratello Stefano, più grande di me di qualche anno, poi io. Ricordo bene la prima gara disputata nella categoria esordienti, sul campo del Lucignano. L’allenatore era Valerio Piccinelli e io giocai da difensore ovviamente, stopper per la precisione. Negli anni seguenti ho avuto come tecnici prima Angelo Perla e poi fino agli allievi Gareffa, due vere guide. L’esperienza nel settore giovanile è stata importante per la mia crescita e giocare a calcio era per me la cosa più bella del mondo.

Quando è arrivato l’esordio con i grandi?

Nell’estate del 1993 effettuai la preparazione con la prima squadra diretta da Fraschetti e, dopo una prima parte di stagione con la juniores, venni aggregato definitivamente a quel favoloso gruppo che lottava per la vittoria del campionato di Eccellenza Umbra. Io dovevo esordire con il San Secondo, ma la partita fu rinviata per neve. A Orvieto restai in panchina, ma nel recupero arrivò la mia chance. Giocai titolare, in marcatura a uomo mi sembra su Nobili, attaccante tecnico e veloce. Presi alla lettera le indicazioni e lo seguivo in ogni zona del campo, ero davvero la sua ombra. Gli ero appiccicato e gli lasciai più di 30 centimetri solo durante l’intervallo. A fine partita ero felice perché vincemmo e perché per me era stato un buon esordio.

Quando ti rendesti conto di poter diventare un punto di forza di quella squadra?

Ci fu un momento particolare che non potrò mai dimenticare. Ero giovane, mi allenavo stabilmente con la prima squadra e andare in panchina mi sembrava già un ottimo traguardo. Non pensavo ancora di esser in grado di giocare con continuità, ma una domenica il direttore sportivo Marco Scarpelloni si girò verso di me dicendomi a modo suo che se ci credevo di più potevo esser stabilmente parte di quella formazione. Dentro di me scattò qualcosa e dall’allenamento successivo ci misi ancora più convinzione. In effetti aveva ragione!

Primo anno in prima squadra e vittoria del campionato. Non male come inizio.

La vittoria matematica arrivò in trasferta nel penultimo turno, mentre nell’ultima partita di campionato, a successo già acquisito, giocammo in casa con il Torgiano e io ricordo di essere uscito dopo pochi minuti. Fu una soddisfazione grande, anche se da giovane ti rendi poco conto e ti sembra tutto molto più naturale. Mi ricordo le cene, gli scherzi di Marco Rossi e la voglia di festeggiare di tutto il gruppo. Io non sono mai stato un tipo molto estroverso, ma quel successo mi regalò tanta gioia e mi evoca bellissimi ricordi.

Il primo anno in Serie D del Sansepolcro non andò invece come ci si aspettava. Come mai secondo te?

Non è facile rispondere visto che la squadra era buona e visto che la società, nel frattempo passata sotto la guida del presidente Renzo Conti, era ambiziosa. Fu una stagione segnata da episodi sfortunati che già fin dall’inizio indirizzarono il nostro cammino. Nel primo turno giusto per fare un esempio vincevamo 1-0 fuori casa con la Colligiana, ma nel finale incassammo due gol e perdemmo 2-1. Rimanemmo invischiati in fondo alla classifica, nonostante il cambio di allenatore, con Trillini in panchina al posto di Fraschetti. Per salvarci dovevamo vincere l’ultima gara a Rieti. Non ci riuscimmo, ma grazie al ripescaggio restammo in Serie D.

Di livello opposto il campionato 1995-1996, quello del duello per la promozione in Serie C con l’Arezzo e dei 14 punti di penalizzazione. Cosa puoi dirci di quella squadra e di quella stagione?

L’organico fu potenziato e alcuni giocatori che in caso di retrocessione sarebbero partiti, rimasero. Era una squadra formidabile composta dai vari Tardioli, Cucchi, Renzoni, Tarini, Guidotti, Italo e Giulio Franceschini, Lacrimini, Bocchini e tutti gli altri. Iniziammo la preparazione con grande entusiasmo e nelle prime giornate di campionato vincemmo tutte le partite. In difesa Trillini ci fece giocare a quattro e io venivo impiegato nel ruolo di terzino sinistro. Prendevamo pochi gol e giocavamo un ottimo calcio, però la penalizzazione fu una vera batosta. Prima ci tolsero 3 punti, poi altri 11 e quel -14 fu decisivo. La società ci sosteneva, noi davamo il massimo per rimanere agganciati all’Arezzo, ma quando insegui ti basta perdere una partita per cedere di nuovo terreno e così accadde. Sapendo di non poter più vincere il campionato cercammo comunque di fare il massimo per conquistare sul campo più punti degli amaranto. Una specie di “patto dentro lo spogliatoio”. Centrammo questo obiettivo grazie al pareggio ottenuto nell’ultimo turno al Buitoni, proprio con l’Arezzo. Loro chiusero a 72 punti, noi a 60, ma che senza la penalizzazione sarebbero stati 74. Non contava niente ai fini della classifica, ma per noi fu un motivo di orgoglio.

Comanducci in azione con la maglia del Sansepolcro

Chi era più forte tra voi e l’Arezzo? E ti sei mai chiesto come sarebbe andata senza la penalizzazione?

Loro tecnicamente avevano forse qualcosa in più, ma noi eravamo più squadra ed eravamo davvero tosti. Sarebbe stato un bel duello, fino all’ultimo tuffo, però nessuno può dire con certezza come sarebbe andata. Logico che in caso di promozione per Sansepolcro sarebbe cambiato tanto. Per noi giocatori, per la società, per il settore giovanile e per tutto il mondo calcio biturgense, anche negli anni successivi. Vista la carriera che hanno fatto tanti componenti di quella rosa in Serie C avremmo di certo fatto la nostra figura.

Nel 1996-1997 lasciasti Sansepolcro, direzione Umbertide. Come fu quella stagione?

Ero militare a Perugia e così andai a giocare in Eccellenza nella Tiberis. Nella prima parte di campionato con mister Tosti facevo il difensore e già nella gara d’esordio a Torgiano segnai di testa sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Poi con il cambio di allenatore e l’arrivo di Pace venni impiegato come mezzala. Giungemmo al 3° posto della classifica e io realizzai 6 gol. Molto positiva fu anche l’esperienza militare. Il Generale Stella era un appassionato di calcio e aveva allestito una squadra diretta dal Tenente Fabiani. Ci allenavamo e tutte le settimane di giovedì giocavamo in amichevole. Tra le sfide disputate anche quelle al Curi con il Perugia, che militava in Serie A, o con il Gualdo che era in Serie C. Poi vincemmo anche un torneo di calcetto interforze a Carpegna, che ci portò come riconoscimento una settimana premio. Fu davvero una bella annata.

A fine anno tornasti a Sansepolcro. Come furono quei 3 anni in bianconero?

Il campionato 1997-1998 fu intenso e difficile. Iniziamo con mister Farneti che ci faceva giocare a zona, ma i risultati non venivano e la classifica si fece davvero preoccupante, quindi al suo posto arrivò Wilmer Ferri. Ci tolse un po’ di pressione con il suo modo di approcciarsi al gruppo e il rendimento migliorò notevolmente. Il pareggio nel derby con il Città di Castello fu il primo step di una rimonta fatta di tante vittorie e di una lunga serie utile che ci portò al 7° posto. L’anno seguente in panchina tornò Trillini e centrammo la qualificazione ai play off, ma io verso la fine della stagione mi feci male al menisco. Un infortunio che mi portai dietro per buona parte della stagione dopo, quella con mister Valori nella quale centrammo comunque la salvezza.

Poi arrivò la chiamata del Montevarchi. Come fu l’esperienza nel calcio dei professionisti?

Alla guida della compagine valdarnese era arrivato Braglia che mi voleva già l’anno prima al Foggia. Il mio ex compagno Scattini mi disse del suo interesse e io sentivo l’esigenza di cambiare aria, per mettermi in gioco anche al di fuori di Sansepolcro, quindi accettai con entusiasmo questa nuova avventura in Serie C2. Ebbi la possibilità di respirare il calcio professionistico e la differenza è notevole, prima di tutto nell’organizzazione e nella mentalità. La stagione iniziò con 15 giorni di preparazione massacrante nel ritiro sul Monte Amiata e ci vide crescere domenica dopo domenica fino al raggiungimento della salvezza diretta. Mi trovai bene con Braglia, ottimo allenatore e persona schietta. Mi rimangono impresse due frasi. A inizio avventura mi disse “voglio vedere se quello che mi hanno detto di te è vero”, poi dopo vari allenamenti in cui mi faceva giocare con i non titolari vide che non ero felice e mi disse “non ti piace giocare con le riserve eh”. Il modulo era il 3-4-3, molto difficile per i difensori, ma a fine anno giocai 32 gare da titolare su 34, ci salvammo e la nostra retroguardia fu tra le meno battute.

Come mai finì l’avventura in rossoblù?

Avevo due anni di contratto e sarei rimasto perché Braglia e il direttore Sili contavano su di me. In estate la società passò di proprietà e la nuova dirigenza decise però di cambiare il mister e i giocatori. Braglia si stava accordando con il Chieti in C1 e mi disse che voleva portarmi, ma le cose andarono per le lunghe e visto che mi stavo per sposare decisi di restare vicino casa e accettare la proposta del Città di Castello. La società era ambiziosa, l’obiettivo era salire in Serie D, ma la promozione sfumò in maniera incredibile.

Comanducci secondo da destra in piedi al Montevarchi

Come andò?

Iniziammo la stagione con mister Cerafischi e le cose andarono benissimo, tanto che a gennaio avevamo un vantaggio cospicuo sulle inseguitrici. Però purtroppo qualcosa si ruppe nell’ingranaggio che ci aveva portato in testa alla classifica e il trend proseguì anche quando in panchina arrivò Flamini. Vincendo l’ultima partita, in trasferta contro la Pontevecchio, avremmo centrato lo stesso il successo. In vantaggio ci andammo, ma al 94’ un clamoroso tocco di mano in area di un nostro giocatore provocò il rigore che fissò il punteggio sull’1-1. Sogno infranto e a festeggiare la promozione fu l’Angelana. L’anno dopo arrivò Bogliari e ci riprovammo, senza però centrare l’obiettivo, nonostante una buona stagione.

Poi un anno con l’Orvietana in Serie D, il ritorno a Sansepolcro e nel mezzo le avventure a Nocera e Città di Castello. Cosa puoi dirci di quelle stagioni?

A Orvieto incontrai Borrello, tecnico che mi aprì gli occhi a livello tattico con la sua retroguardia a quattro a zona. Veniva dalla scuola di Del Neri e ci ripeteva in continuazione “comanda la palla”, nei movimenti che noi difensori dovevamo effettuare. All’inizio feci molta fatica, ma poi una volta appresi quei meccanismi fu davvero uno spettacolo. Eravamo organizzati e in campo sapevamo tutti cosa fare. Contro la Juve Stabia nella semifinale di andata della Coppa Italia Nazionale mettemmo in fuorigioco i nostri avversari tante volte e pareggiammo 1-1 in trasferta. Al ritorno però venni espulso e poco dopo prendemmo gol, così venimmo eliminati. Fu comunque un’avventura molto bella e gli insegnamenti di Borrello mi tornarono utili anche negli anni successivi. In estate diventai babbo e decisi di tornare a Sansepolcro dove rimasi 3 stagioni anche se a intermittenza. Nella prima con Severini centrammo la salvezza, nella seconda c’era Cornacchini, ma a novembre passai al Nocera Umbra in Promozione e sotto la guida di Cocciari vincemmo il campionato, nella terza con mister Schenardi mi rifeci male, così mi svincolai e andai in Promozione al Città di Castello. Anche qui salimmo di categoria aggiudicandoci i play off, con Consolo in panchina.

Group Castello, Urbania, Baldaccio Bruni e Castiglionese le squadre con cui giocasti da lì in avanti, fino a fine carriera. Altre realtà importanti e altre stagioni intense immagino.

Risolsi i problemi muscolari dopo aver scoperto che erano dovuti ai denti del giudizio e ritrovai le sensazioni giuste per continuare. A Città di Castello in Eccellenza, con Cornacchini in panchina, arrivammo ai play off nazionali, ma venimmo eliminati per un gol preso su una punizione fatta ripetere. A Urbania in Eccellenza Marchigiana mi chiamò Pazzaglia e centrammo la salvezza vincendo 1-0 contro il Fossombrone e nel 2009-2010 passai alla Baldaccio Bruni in Eccellenza Toscana con Bendini in panchina. La partenza fu difficile, ma nel girone di ritorno le cose migliorarono e ci salvammo nella doppia sfida dei play out con il Montalcino di Del Vecchio. Un finale di stagione ad alta tensione, per fortuna con esito positivo. Le ultime tre annate le ho trascorse alla Castiglionese, con Cardinali allenatore. Vittoria del campionato di Prima Categoria all’arrivo e poi due anni consecutivi ai play off in Promozione. Un bel ruolino di marcia e altre soddisfazioni anche a livello personale. I 37 anni si facevano sentire e non sapevo se proseguire o smettere. I dubbi svanirono un giorno d’estate quando andai a correre con un amico facendo una fatica immane. Così dissi basta.

L’attaccante che ti ha messo più in difficoltà e i compagni di squadra più forti con cui hai giocato?

Tra gli attaccanti Sgherri del Renato Curi e Grosso del Chieti. Tra i compagni penso a Bocchini e Recchi. Da difensore li guardavo con attenzione ed erano veramente formidabili.

Come valuti la tua storia calcistica?

Ho ottenuto quello per cui ho lottato e sono felice. Mi sono tolto tante soddisfazioni e ho avuto la fortuna di fare la cosa per me più bella del mondo: giocare a calcio. Non ho alcun rimpianto per quello che poteva essere, dato che sono stato io a prendere le decisioni, giuste o sbagliate. Tecnicamente ero sulla media, ma avevo grinta, concentrazione, capacità di leggere le situazioni e atleticamente, pur non essendo un colosso, ero esplosivo, soprattutto nei primi 15-20 metri. Con l’esperienza ho cercato di guidare i miei compagni di reparto e un mister prima di ogni gara diceva agli altri difensori “sintonizzatevi su Radio Comanducci”. Una gratificazione, così come quando anni dopo avermi allenato Borrello disse che ero il difensore che meglio aveva interpretato il suo calcio. Ho fatto sacrifici, mi sono divertito, ho conosciuto persone con cui sono amico, ho imparato qualcosa da tutti gli allenatori incontrati, ho dato il massimo e ho lasciato un bel ricordo ovunque sono stato. Questa è la mia vittoria più importante, quella che mi rende più orgoglioso.

Exit mobile version