Dopo aver salutato per sempre la nonna Cia, il nonno Gianni, classe 1931, è rimasto solo. Seduto vicino a lui nella stanza semibuia, luce spenta per non consumare. Non posso controllare il fiume di ricordi di quando, bambino, giocavo con questo “omone” e con la dolce nonna. Il nonno Gianni, non solo era in grado di riparare qualsiasi cosa, ma anche di risolvere in modo geniale problemi di meccanica, come quando inventò una “frizione” per il mio trattorino, perfettamente funzionante anche oggi, trent’anni dopo. Come se leggesse nei miei pensieri, mi dice “vorrei mettere per ‘scritto la storia della mia vita”. Si gira e rovista nella pila disordinata di libri, giornali e quaderni accanto alla cassapanca. Trovata! In un’agenda del 2002, in corsivo, sono fissati alcuni ricordi, momenti della sua vita. Insieme abbiamo intrapreso un viaggio nel tempo, io curioso di conoscere il mio nonno, lui desideroso di lasciare a noi nipoti un suo ricordo.
Il babbo Pietro da Cospaia e la mamma Pia da Stregoleto
“Sono nato da una famiglia contadina – inizia Giovanni – da padre Pietro e mamma Pia. Pietro veniva da Cospaia, erano quattro fratelli e lavoravano tutti al podere, tanta terra e molto bestiame. Per questo i genitori di Pietro decisero di prendere una ragazza in casa come aiutante. Venne Pia, da Stregoleto, di famiglia molto povera, il suo babbo era diventato cieco lavorando come muratore, per colpa della calce che gli finì negli occhi. Pietro, vedovo della prima moglie, morta di parto per dare alla luce Eva, si innamorò di Pia e quando i nonni si accorsero del corteggiamento li buttarono fuori di casa. Troppo tardi: Pietro e Pia si erano già segretamente sposati. Dopo aver raccolto tutti i beni su un pastrano, trovarono casa nella frazione Basilica su per la via della Montagna, chiamata Mangiafichi, e lì iniziarono a crescere la famiglia. Oltre ad Eva, nacquero Tonino (Antonio), Beppa (Giuseppina), Sunta (Assunta), io, Giuliano e spazzanido, Anna”.
La corde del diluvio
“La miseria ci portava via – racconta il nonno – ci arrangiavamo come potevamo. Ad agosto andavamo a raccogliere le bacche di vischio, ne facevamo un bel secchio e le buttavamo in una buca in mezzo al concio in fermentazione. Le lasciavamo li per alcuni giorni a maturare. Tutti i giorni con un paletto le rumavamo fino a farle diventare una matassa. A quel punto si andava al torrente Afra, si impastava forte e si lavorava finché era pulito da semi e bucce. Infine, con attenzione, si metteva su un recipiente con acqua pulita per via che il vischio non si rovinasse. All’occorrenza, se ne prendeva una manciata e si metteva su un tegame a fuoco lento con olio paglierino fino ad ottenere una pasta molto appiccicosa. Occorreva ora costruire il diluvio: una specie di ombrellone formato da bacchette infilate su un ceppo di legno bucato. Ad ogni bacchetta era attaccata una corda che veniva unta con la pasta appiccicosa del vischio. I passerotti attratti dal buon profumo si fermavano nelle corde e rimanevano catturati. A fine inverno una bella cena. Voglio essere sincero, s’era dei grandi disonesti!”
La ragazza con il cappotto rosso
“D’inverno andavo a vagliare la rena al Tevere, si faticava tanto, molto freddo, guadagno poco! L’estate, invece, lavoravo al podere Giallino. Un giorno mentre chiudevo la cimatura del pagliaio lungo la strada, vidi passare una bella figliola, con un cappotto rosso. La osservai, ma non ebbi il coraggio di dirle niente. Passò un anno. In primavera andai a potare i tigli del viale di Porta Fiorentina, allora poco più alti di tre metri, e delle viti in un podere a Palazzo del Pero dovei restai 15 giorni. C’era una bella ragazza, che la mattina mi portava il caffè a letto. Finito il lavoro, il giorno della partenza, fu un gran dolore per tutti e due. Feci la mia valigia e tornai a casa. Quando il destino è dalla tua parte, finisce sempre bene: camminando verso casa, arrivato al Ponte del Diavolo per la via della Montagna, incontrai una pastorella con un branco di pecore. Indovina chi era? La ragazza con il cappotto rosso, Lucia. E li iniziò l’avventura di Giovanni e Lucia”.
A servizio a Firenze
“Quando il signor Baldi, babbo di Lucia, vide che le cose fra me e Lucia erano serie, il regalo che ci fece fu di mandare Lucia a servizio dai Signori Biozzi a Firenze. La Domenica, ogni quindici giorni andavo con il pullman da lei, fu un periodo duro. Un giorno a San Giustino conobbi un quisturino in vacanza, un tipo molto gentile, e parlando mi disse che a Firenze c’era da lavorare in case private. Fissò un appuntamento con la Marchesa della Robbia e dopo qualche giorno iniziammo. Io mi domando che coraggio deve avere un contadino per ritrovarsi in giacca bianca e guanti a servire a tavola signori del genere! Furono la disperazione e la miseria a spingermi. Il bello fu che, finito il mese, lo stipendio non arrivò. C’era a Firenze un’agenzia con i nomi di tutte le famiglie in cerca di personale a servizio. Per fortuna ce n’era una pronta ad assumere: due zitelloni della famiglia d’Acquaroni. Lucia però non si trovò bene e sempre tramite la stessa agenzia ci spostammo in una famiglia di Livorno, lei fiorentina, lui livornese. Fui assunto come cameriere ed infermiere. Dovevo fare pulizia nell’ambulatorio ortopedico, impastare il gesso e tenere fermo il malato come mi diceva di fare il dottore. Mi ricordo bene, un giorno capitò un bambino con un braccio rotto, io dovevo tenerlo fermo mentre era in collo alla mamma. Soffriva molto, berci e lacrime. Finito di ingessare mi saltò al collo e strinse cosi forte che ancora oggi mi sembra di sentire quella stretta, tanto era contento che avessimo finito. Un contadino infermiere! Tutto procedeva bene ma, scarogna, mi ammalai. Tornammo in Valtiberina, mettemmo su casa all’Imposto, vicino all’Afra. Lucia andava a fare qualche ora a servizio e io lavoravo come manovale, entrambi distanti da casa, ma per fortuna avevamo la bicicletta. In poco tempo riuscii a comprare una moto piccola. A quel punto incominciammo a stare tranquilli, nacque Giovanna. Ci trasferimmo prima ad Albiano, dove facevo il guardiano alla villa Buitoni. e poi al Borgo, in via Giordano Bruno, dove nacquero Mariangiola, Mario e Pia.
I vermi da pesca
“Parlando con gli altri muratori venne fuori che la gente cercava le esche da pesca. Io presi la parola in serio, lasciai il lavoro e iniziai a produrre i bachi. Prima produzione ai Laghetti, vicino al Lago del Sole, poi in un posto detto Corsino, vicino a Montecasale, e lì riuscivo a produrre una buona quantità. Per fare i bachi occorrono mosche e carne morta. La carne la trasportavo con la moto, con due taniche agganciate al seggiolino. Vedendo che le cose andavano bene dalla moto passai alla macchina, una Seicento, riuscendo cosi a portare più carne, ma venne il problema del cattivo odore. Fui obbligato a spostarmi diverse volte. Andai in una casa poco dopo l’Osteria di Aboca e poi a Brancialino da un certo Volpi di San Giustino. Qui pensavo di aver trovato la strada e feci una società con mio fratello Giuliano. Mi sbagliavo, durammo solo tre anni per problemi di gelosia fra donne. Da Brancialino andai al Moro ad Anghiari, alla Casaccia a Monte Santa Maria Tiberina. Avevo bisogno di più spazio, mi trasferii alle Ville di Monterchi, comprai due ettari, presi due operai e costruii un bel prefabbricato di 180 metri quadri con il permesso sanitario del dottor Marrani. Da un amico aretino comprai anche una terreno a Palazzo del Pero, posto isolato, fresco, ottimo per i bachi! Costruii un capanno. Appena finito venne la forestale, tutto abusivo. Quando la fortuna è dalla tua parte, tutto si risolve: le guardie, prima di arrivare al capanno, trovarono mia moglie Lucia che era una grande politicona. Li convinse a fare i buoni, o forse videro che c’era la miseria e la voglia di fare e tutto andò bene. A quel punto iniziai a lavorare, una grande soddisfazione! Nacque cosi Sarti Esche, ancora in attività”.