Álvar Núñez, detto Cabeza de Vaca, fu il primo europeo e probabilmente anche il primo uomo ad effettuare un viaggio da una parte all’altra di quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America e il Messico. Il tutto si svolse in otto anni e in circostanze impreviste ed imprevedibili tra il 1527 e il 1535. Il curioso soprannome derivava da un suo avo che aveva l’abitudine di marcare i territori riconquistati dagli spagnoli utilizzando teschi di mucche o tori. Suo nonno era Pedro de Vera, che ebbe il merito di strappare le Isole Canarie al Portogallo per metterle sotto la corona spagnola.
Álvar ebbe quindi origini aristocratiche e visse in una famiglia che godeva di privilegi. Ebbe un’educazione militare e fece parte, a trentasette anni, di una spedizione nelle Americhe che gli avrebbe cambiato la vita e il modo di vedere le cose. Della sua avventura resta un resoconto di viaggio, Naufragi, che ebbe un certo successo e fornì punti di vista molto diversi da quelli all’epoca conosciuti sulla conquista del Nuovo Mondo. Il racconto del viaggio di Cabeza de Vaca non è sicuramente quello più famoso tra quelli degli esploratori del continente americano, però si colloca ai primi posti per l’interesse che suscita nella lettura e per le idee innovative che il protagonista matura durante gli anni di reale difficoltà vissuta.
La spedizione di Pánfilo de Narváez in Florida
Cabeza de Vaca fu aggregato alla spedizione di Pánfilo de Narváez destinata a fare esplorazioni e conquiste in Florida. Narváez sarebbe diventato governatore della regione per conto del re di Spagna se fosse riuscito a fondare degli avamposti da utilizzare come base per la ricerca di oro e della leggendaria fonte della giovinezza che molti ritenevano fosse da quelle parti. Quest’ultimo obiettivo era la continuazione della missione di Juan Ponce de León, già governatore di Porto Rico, che nel 1513 scoprì e mise piede in Florida. Proprio da alcune leggende ascoltate nelle isole caraibiche e da alcune testimonianze dei nativi che vivevano nella penisola della Florida, Ponce pensò che la Fonte della giovinezza potesse trovarsi lì. Si raccontava di uno specchio d’acqua con presunti poteri curativi, dove tra l’altro si recavano le coppie che non riuscivano ad avere figli.
Cabeza de Vaca era il tesoriere della missione, oltre ad aver avuto dalla monarchia spagnola il compito di tenere sotto controllo il capo spedizione. Narváez aveva avuto un passato turbolento, sfociato in conflitti con altri comandanti spagnoli, in particolare in Messico. Allo stesso tempo era un preparato navigante dato che conosceva bene Cuba, Messico e altre terre caraibiche conquistate dalla Spagna. Per la missione in Florida ebbe a disposizione cinque navi e circa seicento uomini e partì dall’Europa a fine giugno del 1527. L’arrivo in Florida – sbarcarono nei pressi della città di Saint Petersburg nella baia di Tampa – avvenne solamente nell’aprile dell’anno successivo dopo lunghe soste a Santo Domingo e a Cuba. Già nelle tappe caraibiche parte dell’equipaggio disertò, mentre per coprire la breve distanza tra Cuba e la Florida le barche incontrarono una serie di insoliti problemi. A lungo rimasero bloccate su banchi di sabbia, poi furono liberate ma riportate indietro da un uragano, quindi scarseggiò il vento ed infine le correnti contrarie resero complessa e lenta la navigazione. Questi eventi costrinsero i marinai a consumare gran parte delle provviste e dell’acqua immagazzinata per le prime settimane di missione in Florida. Una volta sbarcati la prima esigenza divenne procurare cibo per il piccolo esercito.
Lo sbarco e la strana accoglienza
I primi nativi incontrati furono apparentemente cordiali. Accettarono di scambiare cibo con i soliti monili privi di valore che gli europei erano soliti regalare alle popolazioni locali. In questo primo incontro non comparve l’oro, ma poter mangiare cibo fresco sembrò comunque un buon inizio. Nella notte gli abitanti del piccolo villaggio scomparvero tra la sorpresa degli spagnoli. In successivi contatti con altre popolazioni fu indicato ai colonizzatori che l’oro poteva essere trovato presso il popolo degli Apalachee, che viveva più a nord rispetto al luogo dello sbarco.
Pánfilo de Narváez decise di dividere in due gruppi la spedizione: circa cento uomini proseguirono via mare lungo le coste del Golfo del Messico mentre lui stesso, Cabeza de Vaca e altri trecento continuarono l’esplorazione via terra. Quest’ultima risultò molto complessa sia per la mancanza di cibo che per il trasporto dei materiali, tra cui cannoni, che erano difficili da muovere nei territori paludosi. Per aiutare la spedizione furono schiavizzati numerosi nativi, cosa che non contribuì a far crescere il sentimento di amicizia verso la spedizione. Anche per questo attorno a sé trovavano terra bruciata. I villaggi che visitavano erano sempre deserti e gruppi di nativi li seguivano da lontano. La “capitale” degli Apalachee risultò essere un villaggio di quaranta case con poca ricchezza. Dopo essersi riforniti di cibo gli spagnoli presero in ostaggio il capo della tribù locale e altri abitanti del villaggio. Questa diede inizio ad attacchi con metodi da guerriglia che resero ancora più difficile il viaggio del gruppo di Narváez. Assieme alla fame e alle malattie, tutto ciò portò alcuni uomini ad abbandonare il gruppo per cercare di sopravvivere.
Ritornati nei pressi del mare senza essere riusciti ad incontrare di nuovo la parte di spedizione con le navi, decisero di costruirne di nuove, delle grandi zattere, per cercare di tornare verso Cuba o verso il Messico navigando sotto costa. Nel frattempo si cominciò ad uccidere e mangiare i cavalli e forse, i resoconti non lo dicono chiaramente, anche gli uomini che uno dopo l’altro morivano. La spedizione navale con i suoi circa cento uomini continuò oltre un anno a cercare il gruppo che aveva intrapreso il cammino via terra. Alla fine le navi tornarono in Messico senza aver salvato nessuno dei trecento dispersi.
Il naufragio e la schiavitù
I 242 rimasti si erano imbarcati su cinque zattere che una dopo l’altra erano affondate o si erano perse nel mare. Il viaggio aveva portato a numerose scoperte geografiche come la foce del Mississippi, ma i membri della spedizione dovettero ancora lottare contro la fame e contro i popoli ostili che in alcuni casi erano in grado di ferire con le frecce da terra coloro che erano a bordo delle imbarcazioni. Di quasi tutti gli uomini, compreso il capo spedizione Pánfilo de Narváez, si persero le tracce.
Una delle zattere naufragò nell’isola di Galveston, nell’attuale Texas, dove sopravvissero in pochi, tra cui Cabeza de Vaca. Quattro superstiti cercarono invano altri spagnoli continuando a piedi verso il Messico, ma anche di loro si persero le tracce. I restanti, undici, dopo essere stati rifocillati da una tribù locale in un primo momento vissero in modo sereno assieme ai nativi. La notizia del presunto cannibalismo praticato in precedenza tra i membri della spedizione arrivò però anche in Texas e tutti coloro che venivano riconosciuti come europei vennero messi in schiavitù. I superstiti della spedizione furono quindi distribuiti come schiavi ad alcune delle famiglie più importanti delle tribù vicine.
Gli spagnoli, partiti per una missione di conquista, si ritrovarono a loro volta servi di altre popolazioni. Cabeza de Vaca restò prigioniero circa sei anni, durante i quali fu fatto lavorare pesantemente, anche se trattato umanamente. L’occasione di riscatto avvenne grazie ad una malattia del figlio di un capo tribù che Álvar Núñez riuscì a curare con grossolane conoscenze di medicina che portava con sé grazie alla provenienza dal mondo europeo. In cambio del gesto ebbe la libertà.
Il lunghissimo viaggio
Tornato libero riuscì ad incontrare altri tre superstiti del viaggio in Florida. Si trattava di Alonso del Castillo Maldonado, Andrés Dorantes e del suo servitore Estevan. Quest’ultimo, il cui vero nome era Mustapha Zemmouri, era di origine magrebina e con ogni probabilità fu il primo africano a camminare sul continente americano. Decisero di muoversi verso il Messico nel tentativo di raggiungere le città spagnole. Estevan riusciva a comunicare con i nativi mentre la fama di guaritore di Cabeza de Vaca cominciò a circolare di tribù in tribù spesso precedendo il passaggio degli spagnoli. Proprio Cabeza de Vaca effettuò la prima operazione chirurgica nel continente americano estraendo una freccia dalla ferita di un indigeno. Ai veri consigli medici si affiancarono l’imposizione delle mani e le preghiere in lingua latina cosa, che contribuirono ad aumentare il rispetto verso questi uomini bianchi. Tutto questo facilitava la possibilità di rifocillarsi in modo quasi regolare.
Al loro lungo e incredibile viaggio si unirono molti nativi e si creò un consistente gruppo che prima marciò verso ovest, poi invertì la rotta quando ormai era molto vicino ad un insediamento spagnolo del Messico orientale e raggiunse l’oceano Pacifico. Il ritorno verso nord era giustificato dal mito della ricerca dell’oro che continuava ad alimentare i sogni del piccolo drappello. I racconti della presenza del prezioso metallo lontano dai propri villaggi divenne un modo per gli abitanti locali di allontanare fin da subito le attenzioni dei “conquistadores”. La deviazione del viaggio consentì di apprendere informazioni sull’esistenza delle sette città di Cibola, che avrebbero portato altre spedizioni spagnole ad esplorare il sud ovest degli Stati Uniti cercando invano per anni luoghi che non esistevano. In una di queste missioni sarebbe morto il moro Estevan mentre era impegnato a condurre altre missioni spagnole nei luoghi visitati durante il viaggio con Cabeza de Vaca. Proprio Cabeza e i suoi compagni di viaggio furono i primi europei a mettere piede nelle aree che oggi fanno parte degli stati americani dell’Arizona e del Nuovo Messico e in generale in tutta la zona di confine tra Usa e Messico, e furono probabilmente anche i primi a vedere la parte settentrionale del Golfo della California.
Dal mare scesero verso sud e incontrando alcune popolazioni locali che avevano oggetti di provenienza europea capirono che la presenza degli avamposti spagnoli non era lontana. Infatti si incontrarono dove oggi sorge la città di Guasave con una spedizione capitanata da Diego de Alcaraz, impegnata a catturare schiavi e partita dalla non lontana città spagnola di Culiacán. Il tentativo di convincere Cabeza de Vaca a consegnare i propri compagni di viaggio per farli diventare schiavi portò subito ad una controversia tra Alcaraz e lo stesso Cabeza, con quest’ultimo che fu arrestato e rispedito in Spagna nell’anno successivo. Álvar Núñez non era più lo stesso uomo di quando aveva lasciato il continente europeo: la sua forzata convivenza con i nativi lo aveva profondamente cambiato. Se per gli altri spagnoli le popolazioni locali erano composte da esseri più simili a bestie che uomini, per lui l’ottica era ormai profondamente diversa.
Il libro e il viaggio successivo
Il ritorno in Spagna lo vide riottenere la libertà per via dei servigi verso lo Stato, e non molto tempo dopo ebbe anche il titolo di governatore della regione del Rio de la Plata, nell’America meridionale. Visitò le terre di cui era responsabile nel 1540. Viaggiò in molti dei luoghi ubicati nel Brasile meridionale fino a raggiungere Asunción, nell’attuale Paraguay, facendo un viaggio via terra di cinque mesi nel quale scoprì le cascate dell’Iguazo ubicate tra Brasile e Argentina e non lontane dal Paraguay. Arrivato al forte di Asunción non tardò ad entrare in contrasto con gli altri uomini importanti dell’amministrazione del governatorato. Le sue idee di apertura nei confronti delle popolazioni locali portarono al suo arresto e anche alla costruzione di accuse di malgoverno. Fu quindi rispedito in Spagna e da lì inviato in esilio ad Orano nell’Africa spagnola, oggi parte dell’Algeria. Rientrò nel continente europeo pochi anni prima della morte che avvenne nel 1559.
Nel 1542, mentre si trovava in Sudamerica, fu pubblicato il suo racconto di viaggio Naufragi, in cui raccontava le perizie avvenute tra il 1528 e il 1536 tra Florida e Messico. Parte del testo era stato inviato alcuni anni prima al re di Spagna Carlo V con l’intenzione di suggerire un approccio diverso sulle questioni coloniali e sui rapporti con le popolazioni sottomesse. Il testo fu ignorato dal sovrano, o perlomeno non incise nelle successive politiche. Un’edizione successiva fu pubblicata negli anni dell’esilio a ampliata con le vicende sudamericane. Di fatto Naufragi fu il primo trattato etnografico a parlare di gruppi di nativi, descrivendo anche tribù che in alcuni casi sarebbero state sterminate pochi anni dopo dagli stessi spagnoli. Allo stesso tempo rappresenta il primo testo che invita a prestare attenzione al lato umano delle persone che i colonizzatori incontravano nelle loro conquiste.