Negli ultimi venti anni ho letto moltissimi articoli che raccontano la catastrofe ambientale del lago d’Aral, enorme specchio d’acqua salata attualmente al confine tra Kazakistan e Uzbekistan, che nel corso degli ultimi sessanta anni si è lentamente ritirato fino quasi a scomparire. La motivazione ufficiale è legata al prelievo d’acqua dai suoi due immissari, i fiumi Amu Darya e Syr Darya. Tale acqua è servita per sviluppare la coltura del cotone in Asia centrale. Basti pensare alla realizzazione dei quasi 1.400 chilometri del canale Karakum che, con il suo prelievo idrico di tredici chilometri cubici annuali dal corso dell’Amu Darya, ha trasformato milioni di ettari di deserto turkmeno in campi di cotone. È stato calcolato che le parti non impermeabilizzate del Karakum abbiano portato una dispersione d’acqua tra il 30% e il 60% del prelievo idrico.
Ho avuto modo durante la Torino-Pechino del 2018 di visitare assieme ad Alessandra Cenci e Giulia Messina la cittadina di Moynaq, un tempo ridente villaggio sulla sponda meridionale del lago d’Aral e oggi a molti chilometri di distanza dall’acqua. Quello che abbiamo ascoltato dalle persone che vivono e lavorano in questo luogo non è proprio l’esatto racconto che ho sempre letto in passato in libri o giornali, ma qualcosa di molto più complesso.
Il Karakalpakstan
Negli ultimi giorni dell’agosto 2018 siamo in Karakalpakstan, repubblica autonoma facente parte dell’Uzbekistan, poco conosciuta in Occidente, dove si trova anche la parte meridionale di quello che resta del lago d’Aral. La regione appare prevalentemente desertica, ma incredibilmente anche ricca di frutteti proprio grazie al prelievo idrico dall’Amu Darya. L’unica città di una certa rilevanza è la capitale Nukus, raramente visitata dai turisti se non per un importante museo di arte contemporanea che permette anche di scoprire la gentilezza molto spontanea dei suoi abitanti. Da Nukus dovremmo dirigerci verso il confine kazako per poi tornare in Russia. In realtà ci lasciamo tentare dalla vicinanza di Moynaq, che costa una deviazione di circa ottanta chilometri dalla strada principale una volta raggiunta Kungirot, che ricorderemo sempre per le file chilometriche ai distributori di metano. Vista l’ora tarda pomeridiana, sappiamo che all’arrivo avremo anche l’esigenza di procurarci un alloggio. Moynaq, assieme alla città kazaka di Aralsk, è nota per essere uno dei simboli del degrado relativo al ritiro delle acque del lago d’Aral. Le immagini dei cimiteri di barche arenate nei pressi dei vecchi porti del lago che fu quarto al mondo come estensione hanno fatto il giro del mondo. Uscendo da Nukos si attraversa per l’ultima volta un quasi asciutto Amu Darya e ci si imbatte in bancarelle di frutta con le angurie e i meloni più grandi che abbiamo mai visto nella nostra vita. In un certo senso quel fiume in agonia trasmette la vita alle più grandi cucurbitaceae del Karakalpakstan.
L’arrivo a Moynaq
La strada che da Kungirot porta alla ex cittadina rivierasca non è delle migliori. Il benvenuto viene dato dal simbolo della città dove tuttora è rappresentato un pesce. Arriviamo in una giornata di festa con intere strade chiuse e riservate ai pedoni. Se nel nostro immaginario pensavamo di arrivare in una specie di inferno naturale siamo costretti a ricrederci, almeno per questa sera. Per superare questa specie di enorme sagra siamo costretti ad infilarci su strade di sabbia lungo quella che un tempo era la riva del lago. Nei pressi del cosiddetto cimitero delle barche c’è una specie di albergo che in realtà è una serie di grandi yurte con i servizi igenici in un prefabbricato simile ad un vagone ferroviario. Questo complesso, definibile turistico, sorge nei pressi dell’ex faro della città su un piccolo promontorio. L’assenza di illuminazione rende sia il tramonto che la notte davvero affascinanti. Meno gustoso il montone con riso, unico piatto a nostra disposizione nella nostra piacevole location. La buonanotte ci viene data direttamente dalla luna che sorge dal “fondale” del lago.
Affondati in un lago che non c’è
Se ci siamo addormentati con un caldo quasi eccessivo, al mattino ci svegliamo con un insolito freddo. Erano mesi che le nostre felpe non servivano, se non negli oltre tremila metri delle montagne del Pamir. La prima immagine che osserviamo fuori dalla nostra tenda è il nulla assoluto nel nostro orizzonte. Il fondale sabbioso del lago è impressionante e le navi arrugginite appositamente parcheggiate poco sotto la nostra visuale rendono tutto ancora più spettrale. Da sotto il promontorio dove siamo mancano circa otto o dieci metri d’acqua in altezza, mentre quello che resta del vero lago è a circa sessanta chilometri da noi. Sono visibili dei canali prosciugati e in alcuni di questi sono adagiate delle vecchie navi. Via via che il lago si allontanava da Moynaq venivano scavate queste vie d’acqua per permettere alle navi di poter continuare a collegare la cittadina con il grande bacino. Questo è servito a ritardare di qualche anno la fine della principale attività economica di epoca sovietica, ovvero la pesca e la lavorazione e inscatolamento del pesce. Per alcuni anni l’industria ittica ha resistito in modo davvero eccentrico: il pesce arrivava dall’Artico con comodi viaggi aerei per essere lavorato sulle ex rive dell’Aral.
Dopo una prevedibile escursione a piedi tra le barche arenate, non poteva non venirci la poco brillante idea di fare la stessa cosa con il nostro veicolo. In realtà percorrere cinquecento metri sul fondo di un canale pieno di sabbia non è nulla di particolarmente pericoloso, se non per la consapevolezza che se ci fermiamo a fare fotografie è probabile insabbiarsi. Viviamo questa esperienza notando che nei pressi c’è il cantiere di una casa in costruzione: nella peggiore delle ipotesi un trattore o una ruspa potranno toglierci dai pasticci. In effetti tutto va proprio così: facciamo delle foto sicuramente originali in mezzo a un contesto catastrofico, ma rimaniamo insabbiati. Avrò proprio io il privilegio di raggiungere il cantiere e chiedere il necessario aiuto onde evitare che tra venti anni i futuri coraggiosi turisti trovino un vecchio fuoristrada italiano assieme alle navi rugginose. La vera sorpresa è che i nostri soccorritori non prenderanno neppure in considerazione l’ipotesi di usare la ruspa o il trattore, ma solo pale, forza fisica e sacchi vuoti che serviranno per creare attrito sotto le ruote. L’episodio del nostro veicolo affondato in quello che fu il lago d’Aral sarà l’occasione per parlare con la gente del posto con una scusa non banale.
C’era una volta il lago…
Regaliamo ai nostri soccorritori una bottiglia dell’ottima vodka “Karatau” e per la bellezza di circa quindici euro offriamo il pranzo a tutto il cantiere. I muratori sono curiosi di capire perché degli italiani hanno il desiderio di visitare questo posto invece che fare i turisti in luoghi più piacevoli come Samarcanda, Bukhara o Khiva. Rispondiamo spiegando che il luogo dove ci troviamo è piuttosto famoso nel mondo occidentale per la catastrofe ecologica legata al cambiamento dell’ambiente circostante. Tra i nostri interlocutori c’è gente con un età sufficiente per ricordare com’era questa parte di mondo in passato e i racconti che ci vengono fatti non sono per nulla scontati. Nessuno è favorevole al ritorno del lago. L’acqua era salata e oltre a servire l’industria ittica non aiutava la possibilità di coltivare la terra. Oggi grazie al prelievo dell’acqua dolce del fiume ci sono i frutteti e il cotone e per di più in fondo all’ex lago sono stati trovati giacimenti di metano. Questi tre fattori combinati assieme danno un futuro al Karakalpakstan permettendo ai giovani di restare invece che emigrare lontano da qui. Sottolineiamo come dal punto di vista della salute non sia ottimale vivere in mezzo alla polvere, omettendo il fatto che ci sono anche i pesticidi trasportati dal vento, almeno secondo i reportage giornalistici. Su questo concordano, ma dicono che l’acqua dolce permette anche di fare opere di rimboschimento del fondale del lago. Si riferiscono ad un progetto effettivamente in atto di piantumazione di arbusti, oltre che all’espansione delle zone dedicate alla frutta. “C’è più lavoro oggi che in passato”, sostiene un altro dei muratori.
Uno di loro, quello apparentemente più anziano, si occupa di raccontarci anche un aspetto politico molto interessante delle dinamiche che hanno caratterizzato la fine dell’Unione Sovietica e il passaggio della competenza sul lago agli stati succeduti. Il lago è compreso tra l’attuale Kazakistan e l’Uzbekistan, ma i due grandi immissari nascono e attraversano, o raccolgono acque, anche da Tagikistan, Kirghizistan, Turkmenistan e perfino Afghanistan. Viene fuori una forte nostalgia per il periodo sovietico non per ragioni ideologiche, ma semmai per l’aspetto del controllo economico e politico di questo vasto territorio. C’è anche un aspetto nazionale che colpisce molto la popolazione locale, visto il fatto che i karakalpachi sono più vicini culturalmente ai kazaki, dai quali oggi sono divisi da un confine che prima non c’era. “Se fossimo rimasti uniti probabilmente le sorti dell’Aral sarebbero state decise da una sola entità statale e non da cinque repubbliche che mirano solo ai propri interessi e difficilmente potranno accordarsi su cosa fare oggi del lago e dei fiumi”, racconta il capo dei carpentieri. Solitamente si pensa che proprio le politiche sovietiche abbiano causato quello che è davanti ai nostri occhi ed è il concetto che cerchiamo di esprimere. Anche qui la risposta dei nostri interlocutori è immediata, visto che affermano che in realtà sono le attuali politiche che hanno portato la situazione ad un probabile punto di non ritorno. “Fin quando c’era l’Urss”, sottolinea il capocantiere, “le esigenze del cotone, della pesca e degli altri prelievi idrici dai fiumi erano controllate da un’autorità centrale che permetteva a tutte queste attività di non scomparire”. Viene fuori anche che in precedenza c’era un piano per deviare l’acqua di alcuni fiumi russi, come ad esempio il siberiano Ob’ o il Volga, per permettere l’arrivo di grandi masse d’acqua nel lago da nord. Con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la Russia si è disinteressata del progetto.
La nostra chiacchierata assume sempre più l’aspetto del giornalismo d’inchiesta, dato che sembrerebbe di capire che quando c’era un’unica autorità centrale era più semplice stabilire quanta acqua prelevare dai fiumi e quindi quanto cotone coltivare e fino a che livello poteva scendere il lago. Oggi il prelievo idrico fatto da ogni stato non sarebbe assolutamente concordato con gli altri, come naturalmente non esistono quote prestabilite nella produzione di cotone, frutta o nella scelta di irrigare nuove terre da sottrarre alla desertificazione. Di fatto chi è a monte del lago può chiudere il rubinetto per creare nuove terre coltivabili sul proprio deserto. mettendo in difficoltà l’approvvigionamento idrico del Karakalpakstan e del lago d’Aral.
L’inutile lago Aydar Kol
Un esempio chiaro di questo è la presenza di bacini idroelettrici già dalle montagne del Pamir e ulteriori laghi utilizzati come serbatoi per fare in modo che anche nei periodi di magra le centrali idroelettriche tagiche e kirghize possano lavorare a pieno ritmo. Questa pratica crea la conseguenza di aumentare eccessivamente la portata dei fiumi, che quando ricevono l’apporto anche dei propri affluenti danno vita a situazioni imprevedibili. Incredibile è l’esempio dei laghi Shardara e Aydar Kol. Il primo è circa il doppio del lago di Garda ed è un bacino idroelettrico situato in Kazakistan, al confine con l’Uzbekistan. Ogni volta che arrivano piene dalle montagne del Pamir è costretto ad azionare un canale di scolmatura che dirotta l’acqua in abbondanza verso una zona desertica dell’Uzbekistan. Le continue piene hanno portato alla formazione di un ulteriore lago, l’Aydar Kol, che attualmente è sei volte più vasto dello stesso Shardara ed è in continua crescita. L’acqua dei fiumi arriva non salata, mentre quella che ha creato l’Aydar Kol è salata a causa del fondale, pertanto è del tutto inutilizzabile. La crescita di questo lago è un ulteriore disastro ambientale dato che se l’inutile acqua che continua ad allagare parti di deserto fosse rimasta nel Syr Darya sicuramente la portata del fiume sarebbe maggiore, come l’apporto che attualmente continua a dare a quello che resta dell’Aral.
Il recupero della parte kazaka e le prospettive future
Se la parte uzbeka del lago prosegue la sua lunga agonia, che a dire il vero ha avuto negli ultimi anni un cambio di tendenza dovuto a cause naturali e non a seri interventi di ingegneria idraulica, la parte kazaka ha attuato dei piani che hanno prodotto risultati. La parte settentrionale del lago, oggi chiamata Piccolo Aral, per distinguerlo dalle due parti meridionali, è letteralmente rinata. La creazione di una diga finanziata anche con un sostanzioso contributo della Banca Mondiale, i contemporanei lavori di miglioramento della pavimentazione dei canali di prelievo dal Syr Darya e la stessa trasformazione di parte delle coltura da cotone ad altri tipi di agricoltura hanno permesso alle acque di risalire. La costruzione di una seconda diga permetterà il ritorno dell’acqua fino alla città di Aralsk, dove si trovano cimiteri di barche simili a quello di Moynaq. L’industria ittica è già stata riattivata in uno specchio d’acqua che, seppure ricopra circa un decimo della grandezza originale del lago d’Aral, è comunque circa dieci volte il lago di Garda come vastità. Come già descritto, nella parte uzbeka manca la volontà di invertire la rotta. Un miglioramento della situazione potrebbe arrivare da alcuni incontri internazionali tra i Paesi che controllano le risorse idriche della regione avvenuti sotto la spinta del nuovo presidente uzbeko succeduto ad Islam Karimov, padre dell’indipendenza, venuto a mancare nel 2016. Una qualsiasi speranza di riportare l’Aral uzbeko a tempi migliori rispetto agli attuali deve passare per forza da un difficile accordo internazionale tra tutte le realtà dell’area.
Un intero capitolo del libro Eurasia – Dall’Atlantico al Pacifico con il gas naturale (se ne parla qui su TeverePost) è dedicato alla visita dell’Associazione Torino-Pechino al lago d’Aral.