La morte improvvisa del sassofonista Carlo Conti, un grande amico della Valtiberina

Tra Anghiari e Sansepolcro tantissimi concerti e forti legami di affetto. Ne parliamo con Giacomo Marini e Michele Corgnoli, che ricordano la “visione totale” di uno straordinario musicista e la carica umana di un vero e proprio portatore di armonia e buonumore

Carlo Conti a Sansepolcro nel 2013

Carlo Conti a Sansepolcro nel 2013 (tutte le immagini sono gentilmente concesse da MeaRevolutionae)

“Non ho mai conosciuto nessuno con una visione di musica così totale. Per noi, nonostante avesse più o meno la nostra età, è stata scuola. Alla fine non gli importava il genere, aveva una visione che è quella di cui a volte parlano i più grandi, ma non è detto che anche loro riescano a tenerle fede. Pochi o nessuno possono essere a proprio agio con John Coltrane, con il cuban jazz e allo stesso tempo registrare in studio con Steve Albini”. Così Michele Corgnoli descrive il sassofonista Carlo Conti, morto per un malore improvviso nella notte tra venerdì e sabato. Romano, nato nel 1979, era un grande protagonista del panorama jazzistico non solo della Capitale, ed era un grande amico della Valtiberina, dove ha suonato decine di volte nell’arco di quasi venti anni di stretti legami – da cui sono presto nate grandi amicizie – con tante realtà del territorio, come Metamultimedia, MeaRevolutio(nae), Effetto K, Teatro di Anghiari, Kilowatt.

Ad Anghiari nel 2010 per il progetto Tremendo Swing Nights di MeaRevolutio(nae)

Anche il sottoscritto ha avuto il piacere di conoscerlo e ascoltarlo in diverse occasioni, ma è sembrato doveroso parlarne proprio con Michele Corgnoli e con Giacomo Marini, due delle persone che avevano sviluppato un rapporto più stretto con Carletto.

Dobbiamo risalire ai primi anni duemila per trovare il primo incontro tra Carlo e Michele, che lo racconta così: “Da Roma ha cominciato a risalire il Tevere facendo il conservatorio Morlacchi con Mario Raja a Perugia. In quella città aveva conosciuto Filippo Massi, che al tempo gestiva il circolo Metamultimedia di Sansepolcro. La primissima volta che è venuto a suonare da noi è stata in una piccola rassegna organizzata con Filippo ormai quasi venti anni fa. È arrivato con Sergio Gaggiotti: erano i Rossomalpelo, con l’omonimo, storico disco. Un progetto di canzone d’autore in cui Sergio gestiva la musicalità delle parole e Carlo gestiva tutto un mondo. Si è presentato col suo sassofono già a tracolla, senza neanche la custodia”. “Era uno così, non ha mai avuto la fissa dello strumento come altri musicisti”, conferma Giacomo Marini. “Dopo quella prima volta, i Rossomalpelo sono tornati spesso a suonare da noi, è stato il primo gruppo a tornare abitualmente”, spiega Michele, “poi quando abbiamo iniziato a cercare cose sperimentali, i primi a ritornare ripetutamente sono stati i Neo. All’inizio Carlo non c’era, poi hanno cambiato strumentista. Hanno sostituito il bassista con un ragazzetto bravo, de Roma, ci hanno detto. E dopo abbiamo scoperto che era Carletto!”

“Quando i Neo presentarono alla Motina il disco Neoclassico, registrato con Steve Albini, rimasi davvero colpito”, spiega Giacomo. “A me, che suono il basso, piacevano tantissimo i Neo con il basso, quindi ero dispiaciuto che non ci fosse più. Ma sentendoli suonare dal vivo mi sono accorto che non mancava niente, quello che mancava del basso te lo faceva sentire Carlo col sassofono, con una naturalezza spiazzante. Tra l’altro quelle cose erano difficilissime per un musicista anche solo da pensare. Era un grande trio, Antonio Zitarelli e Manlio Maresca sono altri due supermusicisti, e insieme facevano cose incredibili. Sembrava suonassero d’impronta, ma poi ti rendevi conto che era la composizione ad essere stata improvvisata, ma l’esecuzione nei concerti era fedele. Andavi a sentire il disco ed era così, li sentivi dal vivo ed era così. Questi tre si ricordavano partiture che solo immaginarle, per un musicista, era una cosa fuori di testa”.

Ma Rossomalpelo e Neo sono stati solo due dei tantissimi progetti a cui ha partecipato Carlo Conti. “In venti anni di carriera ha fatto veramente di tutto”, ricorda Corgnoli, “poteva fare il jazz più ortodosso e il free, ha suonato con Mike Watt, con George Garzone dei Fringe, con i miti di microgeneri che non si toccano, mentre lui saltellava con leggerezza dall’uno all’altro. È andato a Cuba e ha approfondito la musica cubana: è venuto all’inaugurazione di Kilowatt suonando cuban jazz. E poi è tornato in formazione trio, quartetto, quintetto, progetti senza nome. Per noi è stata una cosa grande, suonava di tutto, lo sentivi suonare anche cose semplici riuscendo a complicarle. È venuto con Bob Gullotti, con i Mostri, sempre con Maresca, o ancora i Mombu, con Luca Mai degli Zu e Antonio Zitarelli. Da noi ha suonato in tantissimi contesti”, racconta ancora Corgnoli, “soprattutto al Circolino, al Bar dello Sport di Anghiari, ma poi nelle piazze, a Kilowatt a Caprese, anche dentro al Pubbone con la Big Band della Pieve: si è messo lì davanti e hanno suonato per tre ore. Lui non diceva mai no, se la questione era suonare. La risposta era sì, poi magari ti chiedeva dove, quando e con chi”.

A Sansepolcro con Jorge “El Toro” Castillo nel 2013

Puntualizza Giacomo: “Il suo percorso in ambito jazz è stato quello di iniziare ad ascoltare i grandi per passare al free, che gli ha dato il la per avere questa grandissima capacità di adattamento in qualsiasi genere. E poi, se lo sentivi suonare, notavi che aveva delle caratteristiche ben precise, Carlo era uno dei pochi che dalle prime tre note sapevi che era lui”. Aggiunge Michele: “Lo potevi sentire in mezzo a un’orchestra o con le batterie tribali, aveva una personalità artistica talmente definita e precisa che dovunque entrasse faceva da traino. Quando era sul palco, sia da protagonista che da gregario, gli sguardi erano spesso rivolti su di lui, senza che questo risultasse mai pesante. Erano tutti sicuri che la differenza la doveva fare lui, era lui quello che ti faceva sempre emozionare di più”. “Oltre a una capacità con lo strumento fuori dal comune”, sottolinea ancora Giacomo, “aveva una personalità che era una forza e che tutti apprezzavano. Non credo che esista al mondo una persona a cui sia stato antipatico o che possa dire di non averlo apprezzato se ci ha parlato anche solo cinque minuti. Era così schietto e sincero che non c’era mai niente di male da dirgli. A me parlare con lui dava una gioia incredibile, quando lo vedevo ero proprio contento!”

“Da quando ho saputo la notizia”, dice Michele, “mi sono sentito per telefono con tanta gente e con tutti alternavamo pianto e riso, perché ripensare agli episodi vissuti con lui ti fa ridere per forza, dava solo buonumore, aveva proprio questo ruolo in qualsiasi contesto. Aveva una carica artistica e umana che portava armonia”. Giacomo: “Era così diretto che percepivi benissimo il fatto che riusciva ad usare lo strumento come si usa la parola, riusciva a comunicare, a trasmettere ogni sfumatura di stato d’animo. Lui questo ce l’aveva innato, mentre moltissimi musicisti ci lavorano una vita e non ci arrivano. La sua peculiarità era questa capacità di usare lo strumento come mezzo di comunicazione, anche con chi di musica magari non ne sapeva niente. Faceva capire la sua personalità con il sassofono: per un musicista questo è un punto di arrivo, una volta arrivato lì può fare tutto. E infatti lui faceva tutto. E poi aveva un modo di suonare particolare, terminava spesso gli assoli con una nota bassa, sembrava che chiudesse un discorso, proprio come quando si parla”.

“Mi preme dire che noi abbiamo un titolo relativo per parlarne”, ci tiene a specificare Michele, “perché in fondo non condividevano con lui la quotidianità. Chi lo faceva ora deve fare i conti col fatto che gli manca proprio nella quotidianità. Ma per noi è stata una presenza fortissima in venti anni e sentiamo la necessita di dire qualcosa perché se n’è andato davvero un grandissimo. In questi casi vengono parole banali, si parla di vuoto incolmabile, si dice che ha lasciato un segno in chi lo ha incontrato. Ecco, nel suo caso non sono banali, semmai sono inadatte per altri, ma lui davvero ha lasciato solchi nelle persone. In tempi di cuori atrofizzati, lui il suo cuore l’ha usato tantissimo, e forse è per questo che gli è bastato solo per 40 anni. Insomma, stiamo cercando di trasmettere un amore che non è neanche la metà di quello che ha dato lui. Poi certo non vogliamo dipingerlo come un santo: era un uomo del popolo, con pregi e difetti e degli enormi talenti”.

E in conclusione di conversazione, sia Michele che Giacomo si soffermano su un’altra peculiarità di Carletto, la sua risata: “Ti portava via”, dicono quasi all’unisono. “Sia per volume che per perfetta intonazione, sembrava suonata anche quella”.

La locandina di un concerto del 2015 alla Motina

Tutte le immagini sono gentilmente concesse da MeaRevolutio(nae).

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