La guerra tra Russia e Ucraina non è alle porte

Leggendo la stampa occidentale si percepisce che la Russia starebbe per invadere l’Ucraina, ma secondo i media russi non è così. Cosa sta succedendo veramente a Kiev e Mosca?

Incontro a Ginevra fra il segretario di stato Usa Blinken e il ministro degli esteri russo Lavrov. Foto U.S. Department of State (pubblico dominio)

Inizialmente si diceva che la Russia fosse pronta ad attaccare per Capodanno. Poi si è passati all’opzione secondo cui sarebbe successo dopo il Natale ortodosso di gennaio. Infine oggi va di moda dire che potrebbe accadere dopo la fine dei Giochi Olimpici invernali di Pechino. Ma a chi gioverebbe una guerra tra Russia e Ucraina? Si potrebbe partire da questa semplicissima domanda per arrivare alla risposta che non converrebbe a nessuno, a partire dai protagonisti della contesa fino ai principali Paesi europei. Meno toccati, come al solito, gli Stati Uniti, che tranne a Pearl Harbour nel 1941 e in occasione degli attentati dell’11 settembre 2001 non hanno mai avuto attacchi sul proprio territorio. A nessuno sfugge che la Russia avrebbe un potenziale bellico maggiore rispetto all’Ucraina, ma i costi economici, sociali e di vite umane sarebbero altissimi per l’una e per l’altra. Cerchiamo di approfondire un tema di forte attualità riportando tutto alla realtà e non agli scenari che impazzano da alcuni mesi nei media, ripartendo anche dalle tematiche affrontate nell’articolo pubblicato da TeverePost circa due mesi fa.

La situazione sul campo

Nonostante i primi venti anni di storia dei rapporti tra Russia e Ucraina siano stati caratterizzati da alti e bassi, lo scenario è radicalmente cambiato dopo i cosiddetti fatti di Maidan a cavallo tra 2013 e 2014. Il cambio della leadership politica a Kiev ha coinciso non solo col rafforzamento di una politica europeista in contrapposizione con quella precedente, considerata in Occidente filorussa, ma anche con una fase di forte instabilità del Paese che ha portato la Crimea a dichiararsi indipendente per poi essere annessa, dopo un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale, alla Federazione Russa. Nelle regioni orientali dell’Ucraina, russofone come lingua e con larga presenza di popolazione russa, si sono autoproclamate indipendenti parte delle oblast’ di Doneck e Lugansk, un’area di circa 20.000 chilometri quadrati in cui vivono oltre quattro milioni di persone. Il tentativo di riprendersi le aree orientali da parte dell’esercito di Kiev riuscì solo parzialmente per via dell’organizzazione di milizie nelle aree indipendentiste, oltre che per il supporto di volontari e armi arrivati dalla Russia e da altre aree ex sovietiche. Gli accordi di Minsk del 2014 e del 2015 sono stati la cornice su cui si sono interrotte le operazioni militari su larga scala che vedevano contrapposte Kiev a Doneck e Lugansk,

Una barricata durante le proteste di Euromaidan a Kiev nel dicembre 2013. Foto E.C.

Gli accordi di Minsk

Per comprendere molte delle dinamiche mal raccontate negli ultimi mesi è importante rifarsi agli accordi di Minsk, sottoscritti nella capitale bielorussa nel settembre 2014 da rappresentanti di Ucraina, Russia, Osce, Repubblica Popolare di Lugansk e Repubblica Popolare di Doneck. Un ulteriore accordo, conosciuto come Minsk II, avvenne nel febbraio successivo alla presenza del presidente ucraino dell’epoca Poroshenko, del russo Putin, del francese Macron e della cancelliera tedesca Merkel. I due protocolli hanno avuto il merito di stabilizzare il conflitto e contenerlo fino ad oggi a scontri di bassa intensità che hanno comunque lasciato sul campo ulteriori vittime. A Minsk furono stabiliti alcuni impegni attuati e altri che tuttora oggi restano in completo stallo. Tra i primi c’è la cessazione del fuoco, il monitoraggio della situazione da parte dell’Osce, lo scambio dei prigionieri e la creazione di una zona cuscinetto di quindici chilometri per parte dalla quale ritirare tutti gli armamenti pesanti. I secondi sono l’oggetto delle accuse reciproche tra Ucraina e Russia sul mancato rispetto degli accordi. Nello specifico Doneck e Lugansk avrebbero dovuto effettuare elezioni amministrative sotto il rispetto della legge ucraina e permettere da parte di Kiev il controllo delle frontiere esterne verso la Russia. L’Ucraina avrebbe dovuto approvare una modifica costituzionale per consentire una maggiore autonomia e il rispetto linguistico delle aree insorte e allo stesso tempo un’amnistia nei confronti dei combattenti delle due aree ribelli. Assieme a questo ci sono accuse reciproche di non rispettare del tutto il punto sul ritiro degli armamenti pesanti sulla fascia demilitarizzata. In realtà in Ucraina il tentativo di attuare la propria parte di accordi, in particolare la concessione dell’autonomia alle due repubbliche popolari, ha trovato puntualmente un aumento della tensione politica ogni volta che sia stata presentata una proposta. Nelle due aree filorusse si è continuato a votare con le proprie regole e i confini non sono controllati da Kiev.

Mappa delle zone cuscinetto stabilite dagli accordi di Minsk. Immagine Goran tek-en (CC BY-SA 4.0)

La questione delle garanzie Nato

Altra vicenda spesso collegata con le tensioni attuali è la questione delle garanzie che la Russia ha chiesto a Nato, Stati Uniti ed Unione Europea. Pensare che sia questa la scintilla che possa far nascere un conflitto armato è sbagliato, almeno nell’immediato. La Russia in più di una serie di incontri ha manifestato l’interesse a una diminuzione della tensione ai propri confini, chiedendo di non procedere ad ulteriori allargamenti dell’Alleanza Atlantica. Il riferimento è in particolare alle Repubbliche ex sovietiche, in primis Ucraina, Georgia e Moldavia. La posizione di Mosca parte da lontano, dalle trattative tra Unione Sovietica, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e le due Germanie per acconsentire la riunificazione tedesca. Sia in quell’occasione che in incontri successivi l’Urss chiese che il proprio disimpegno dai Paesi orientali un tempo facenti parte del Patto di Varsavia non diventasse un’occasione di espansione della Nato. Negli anni a seguire puntualmente avvenne il contrario, con l’ingresso nell’Alleanza di quasi tutti i Paesi dell’est e pure delle tre Repubbliche baltiche ex sovietiche. La Nato sembrerebbe disponibile a trattare sulla possibilità di non dispiegare alcuni tipi di armi nelle vicinanze dei confini russi, mentre non sarebbe favorevole ad accogliere veti sui possibili allargamenti che dovrebbero essere libere scelte dei Paesi che potrebbero candidarsi ad aderire. Entrambe le parti hanno dimostrato disponibilità a continuare a confrontarsi e la mancanza di un accordo che soddisfi entrambi potrebbe far salire la tensione nelle aree in questione, ma sicuramente non su tempistiche brevi.

La guerra è imminente?

Secondo le indiscrezioni pubblicate dalla stampa occidentale sì, secondo quelli che la dovrebbero fare – o almeno in base alle posizioni delle leadership russe e ucraine – no. Attualmente sono schierati attorno all’Ucraina circa centomila uomini delle forze armate russe. Questi non sono solo soldati ma pure personale di supporto. Voci che i russi avrebbero spostato scorte di sangue nei pressi del confine, notizia ripresa da molte testate italiane, è una bufala mediatica. Anche l’individuazione di una leadership fedele a Mosca è una falsa notizia utile solo a screditare uno dei leader politici della fazione filorussa al parlamento di Kiev. Gran parte dei soldati russi sono stabilmente presenti nella parte più occidentale del Paese, ma contestualmente sono in corso manovre militari con l’alleato bielorusso, aspetto che allarga notevolmente l’area di dispiegamento dei militari. L’Ucraina ormai da anni riceve armamenti dal mondo occidentale e di fatto sta fortemente ammodernando il proprio esercito. Ufficialmente si tratta di armi difensive pronte a contrastare possibili invasioni. Di fatto potrebbero servire anche per l’esatto contrario, qualora Kiev decidesse di tentare di riprendersi con la forza le aree ribelli. Il vero rischio per la relativa stabilità dell’area è la creazione ad arte di un incidente bellico per giustificare l’agire di uno dei contendenti. Non è da escludere che questo possa avvenire anche con la complicità di Paesi terzi interessati alla completa destabilizzazione dell’area.

Qui Kiev

Quello di cui non si parla mai in Occidente, e che invece monopolizza i programmi alla Bruno Vespa russi, è la situazione politica interna all’Ucraina. Dopo Maidan il paese è stato guidato dall’industriale del cioccolato Petro Poroshenko, colui che ha sottoscritto gli accordi di Minsk. Nel 2019 ha perso le elezioni contro l’attuale presidente, l’ex comico Volodymir Zelenskyj. Quest’ultimo era stato protagonista di tre stagioni televisive satiriche in lingua russa dove interpretava un presidente ucraino eletto per caso ed impegnato a combattere contro la dilagante corruzione del Paese. Il successo mediatico è stato tale da portarlo ad inventarsi, assieme ad autori e finanziatori del telefilm, un partito con lo stesso nome della serie Sluga naroda (Servo del popolo). Naturalmente ha stravinto le elezioni, presidenziali e poi parlamentari, riuscendo per la prima volta a conquistare quasi tutte le regioni ucraine, sia quelle antirusse dell’ovest che quelle storicamente filorusse a est. Tra Zelenskyj e Poroshenko non c’è mai stata simpatia, così come tra i sostenitori del primo e quelli del secondo. Dopo una serie di schermaglie politiche e dopo aver alzato la tensione in occasione di ogni passo di Zelenskyj verso la trattativa con Doneck e Lugansk, Poroshenko è al momento sotto inchiesta per “alto tradimento” e “sostegno al terrorismo” e gli è stato revocato il passaporto. Durante il mandato presidenziale avrebbe comprato carbone dalle due Repubbliche popolari, quindi di fatto finanziandole. Vere o false, le accuse sono un ulteriore passo verso una forte spaccatura della società ucraina, divisa tra chi vedrebbe volentieri uno degli uomini più ricchi del paese in manette e chi lo ritiene tuttora la figura che deve sostituire Zelenskyj il prima possibile. Tutto questo nel corso di una crisi economica sempre peggiore che vede annualmente centinaia di migliaia di persone trasferirsi in Unione Europea o in Russia per cercare lavoro. Armamenti e sostegni economici che tengono in piedi l’Ucraina non sono regali ma prestiti destinati a legare Kiev all’Occidente ancora di più che l’eventuale adesione alla Nato. Non mancano nelle ultime settimane le immagini di persone che si arruolano come volontari o che effettuano addestramenti in mimetica. Questo nonostante le più alte autorità dello stato siano intervenute a calmare la situazione ribadendo che la tensione con la Russia c’è ormai da otto anni e non viene ritenuta imminente una guerra. La presa di posizione assume particolare importanza non solo per tranquillizzare mercati e investitori in fuga dal Paese, ma anche nella prospettiva di comunicare a Mosca, o in alternativa bluffare, che non è all’ordine del giorno una riconquista con le armi delle aree di Doneck e Lugansk.

Incontro a Kiev tra il presidente ucraino Zelenskyj e la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock. Foto President.gov.ua (CC BY 4.0)

Qui Mosca

Nell’agosto del 1995 la Croazia si riprese militarmente, e nel giro di tre giorni, la gran parte dei territori filoserbi che si erano autoproclamati indipendenti nel 1991 col sostegno militare dell’esercito jugoslavo e poi delle milizie serbe. La Croazia tollerò per quattro anni questa presenza, anni in cui pensò bene di armarsi, riorganizzarsi e preparare il terreno per la riconquista. Il risultato fu una fuga di massa dalla Krajina verso la Serbia e le parti di Bosnia abitate da serbi. Una catastrofe umanitaria che coinvolse circa 250.000 persone a cui vanno aggiunte le esecuzioni sommarie avvenute al momento della riconquista. Per i russi la situazione è molto simile, ma con due differenze: la prima è che in Donbass vivono circa quattro milioni di persone e la seconda che all’epoca la Serbia non intervenne, mentre in caso di attacco ucraino alla popolazione russa e russofona del Donbass l’intervento di Mosca sarebbe altamente probabile. Le autorità russe, in primis il presidente Putin e il ministro degli esteri Lavrov, ribadiscono che la Russia non intende attaccare nessuna nazione. La popolazione è ampiamente contraria ad una guerra e alle sue conseguenze, ma allo stesso tempo nessuno prende veramente in considerazione l’ipotesi di un ritorno della Crimea all’Ucraina o che si debba assistere senza muoversi ad un eventuale attacco alla popolazione russa di Doneck e Lugansk. Tutto gira attorno al Donbass, o almeno così sembrerebbe nella delicata partita a scacchi che tutto il resto del mondo riconduce all’espansionismo russo o al nazionalismo ucraino. La Russia è sicuramente consapevole dei costi umani e politici che una tecnicamente possibile invasione dell’Ucraina potrebbe significare, ed è il principale motivo per il quale questo scenario difficilmente si configurerà. Se l’Ucraina tentasse di entrare in Donbass con la forza è probabile un intervento russo in stile Georgia 2008, quando la repubblica caucasica cercò di riprendersi con la forza l’Ossezia del sud di fatto protettorato di Mosca.

Il presidente russo Vladimir Putin. Foto Kremlin.ru (CC BY 4.0)

Qui Europa

Oltre ai due diretti interessati sarebbe l’Europa a pagare i costi di una guerra ad est in termini di profughi e conseguente crisi umanitaria e in termini economici ed energetici. Come al solito l’Unione Europea si dimostra incapace di attuare una politica estera comune e gli approcci alla crisi sono completamente diversi. Ci sono Paesi storicamente nemici della Russia come la Polonia e le tre Repubbliche baltiche su una posizione, mentre altri che fanno affari con Mosca su un’altra. Non è un caso che i più attivi sul fronte delle trattative siano Francia e Germania, che sull’approccio differiscono molto dagli Stati Uniti. Parigi e Berlino hanno la consapevolezza di essere i primi che avrebbero guai da un aumento della tensione. In ballo c’è anche il North Stream 2, il metanodotto che collega direttamente Russia e Germania e che se attivato ridurrebbe i costi del gas naturale giunti oggi al massimo storico. Al contrario se rimarrà con le valvole chiuse, vista l’impossibilità nel medio periodo di trovare consistenti fonti energetiche alternative, i costi delle energie saliranno ulteriormente portando l’Europa a scenari imprevedibili. Macron e i cancellieri Merkel e Scholz cercano anche di ridare un ruolo al vecchio continente e non lasciare i soli Stati Uniti a dare le carte. In tutto questo l’Italia ha un ruolo di secondo piano nonostante negli otto anni di sanzioni abbia perso importanti fette di mercato in Russia. Sul non vendere armamenti all’Ucraina l’Italia sembrerebbe per il momento allineata con Francia e Germania. Londra, invece, ormai fuori dall’Unione e autosufficiente in importazioni di gas, è pienamente allineata con gli Stati Uniti.

Qui Usa

Gli Stati Uniti non solo seguono la vicenda ma sono attivi protagonisti. La politica ucraina, in particolar modo quella che vuole il completo distacco da Mosca, ha visto fin da subito Washington come principale interlocutore, comprendendo la debolezza e la divisione dell’Unione Europea nella politica estera, ancora di più quando si ha a che fare con la Russia. Gli Usa cavalcano una posizione sapendo che non avranno alcun problema diretto da un’eventuale guerra. Non sono a rischio reale di attacco, non avranno profughi che arriveranno direttamente nel loro territorio e non subiranno contraccolpi economici, anzi su quest’ultimo tema potranno addirittura guadagnare con le ricostruzioni, i prestiti e con ulteriori forniture belliche. In ogni caso difficilmente l’opinione pubblica americana sarebbe entusiasta di un conflitto, soprattutto dopo una fase di disimpegno bellico in alcuni scenari del mondo dove erano impegnati. Infine l’amministrazione Biden difficilmente potrebbe tollerare che la Russia possa occuparsi di armare Cuba, Venezuela o altri paesi dell’America latina, scenario possibile come rappresaglia alle ingerenze americane nell’Europa orientale.

L’Ucraina può davvero ambire ad entrare nell’Unione Europea e nella Nato?

Forse tra qualche decina di anni, ma al momento troverebbe la strada sbarrata. Nell’Unione Europea molti paesi sono seriamente preoccupati da quanto potrebbero pesare gli oltre quaranta milioni di ucraini negli equilibri comunitari, oltre al fatto che un Paese grande il doppio della Francia avrebbe bisogno di enormi investimenti economici per raggiungere un livello di sviluppo almeno simile alle nazioni attualmente meno ricche della Ue. Al momento per avviare negoziati di adesione all’Unione è necessario il consenso dei Paesi membri e questo è ciò che al momento non rende possibile il percorso di avvicinamento. Stesso discorso in chiave Nato. Aderire all’organizzazione atlantica significa che in caso di attacco contro un Paese membro gli altri debbano intervenire in difesa. Al momento non è immaginabile che l’opinione pubblica di molti paesi Nato possa accettare il rischio di una guerra con la Russia. Questo è compreso da tutti gli attori dello scenario, ma giornalisticamente è più semplice usare questo tema come principale motivo della crisi in atto. In estrema sintesi non può essere, almeno oggi, la dinamica Nato a portare la Russia ad una improbabile invasione dell’Ucraina.

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