La fine della Seconda guerra mondiale in Italia, Germania e Giappone

La cessazione delle ostilità non avvenne ovunque nello stesso momento e la guerra nel Pacifico continuò drammaticamente altri quattro mesi. Le dinamiche di tre rese incondizionate molto diverse tra loro

Il ministro degli esteri giapponesi firma la resa

La fine della Seconda guerra mondiale in Europa avvenne nei primi giorni di maggio del 1945. Più di una data può essere considerata il momento cruciale. In Italia si valorizza l’insurrezione del 25 aprile e la morte di Mussolini tre giorni dopo. In realtà la resa venne firmata a Caserta solamente il 29 aprile, con entrata a pieno regime il 2 maggio successivo. La guerra in Italia era finita esattamente nello stesso momento in cui terminava la battaglia di Berlino. I reggenti del Reich dopo la morte di Hitler cercarono di organizzare una capitolazione nelle mani degli anglo-franco-americani ipotizzando di proseguire la guerra contro i sovietici. Gli alleati si rifiutarono di accettare una resa parziale e di conseguenza si arrivò alla firma della capitolazione in due momenti separati, ma che prevedevano la cessazione delle ostilità alle 23.01 del giorno 8 maggio dell’ora dell’Europa centrale.

Se la primavera portò la pace nel vecchio continente, la guerra continuava sul Pacifico con il Giappone che non aveva alcuna intenzione di arrendersi. Anche in questo caso i giapponesi avviarono una trattativa con i sovietici nella vana speranza di una pace separata. Gli americani scelsero di usare le bombe atomiche a Hiroshima e a Nagasaki per costringere l’Imperatore Hirohito ad accettare la resa incondizionata che arrivò, non senza turbolenze all’interno del governo e dell’esercito nipponici, il 15 agosto. L’atto di resa fu firmato il 2 settembre, nella baia di Tokyo, a bordo della corazzata statunitense Missouri.

Il Patto Tripartito o… Roberto

L’accordo che definiva l’alleanza e le sfere di influenza nel mondo se la guerra fosse stata vinta da Germania, Italia e Giappone veniva chiamato in Italia col nomignolo “Roberto”, dalle iniziali delle capitali dei tre “imperi”: Roma, Berlino e Tokyo. Fu firmato il 27 settembre del 1940 a Berlino e nei sogni dei tre governi definiva il diritto ad esercitare la propria influenza della Germania in Europa, dell’Italia nel Mediterraneo e del Giappone nell’Asia orientale e sul Pacifico. Il Patto Tripartito era di fatto il successivo sviluppo dell’Asse Roma-Berlino e del Patto d’Acciaio che vedeva inizialmente coinvolte solo Germania ed Italia. Si unirono poi all’accordo del 1940 altri alleati che abbracciarono, convintamente o sottomessi, l’ideologia nazista o l’imperialismo giapponese. Formalmente sottoscrissero il patto anche Romania, Ungheria, Jugoslavia, Bulgaria, Slovacchia e la Croazia di Ante Pavelić. La guerra ebbe una lunga prima fase dove le vittorie delle potenze del Patto potevano far sembrare addirittura possibile un congiungimento territoriale dei due principali firmatari europei con quello asiatico, soprattutto se l’Unione Sovietica avesse perso la guerra. Non andò così e a partire dal 1943 una lenta ed inesorabile inversione dell’andamento del conflitto portò tutti e tre ad avvicinarsi alla propria capitolazione nel 1945.

La fine della guerra in Italia

Le dinamiche che portarono alla fine della guerra in Italia sono figlie di quello che accadde nell’estate del 1943, quando con l’allontanamento e l’arresto di Mussolini la monarchia cercò di salvare il Paese e sé stessa dall’imminente sconfitta. Gli anglo-americani erano già sbarcati in Sicilia e si apprestavano a risalire l’Italia verso nord. Il nuovo governo Badoglio concordò l’armistizio con il nemico per poi ribaltare di fatto le alleanze e schierarsi contro i tedeschi. La Germania, già presente in Italia con il proprio esercito, occupò la parte centrosettentrionale della Penisola, liberò Mussolini e permise la nascita di un governo repubblicano in opposizione a quello monarchico. Per quasi due anni esistettero due “Italie”, una alleata con gli americani ed inglesi e l’altra con Hitler. In mezzo a tutto questo anche un forte movimento partigiano che contribuì a destabilizzare i tedeschi e i fedeli alla Repubblica sociale italiana. Nell’aprile del 1945 il governo fascista si trasferì a Milano e, convinto del sostegno della Germania, tentò di negoziare un passaggio dei poteri al Comitato di Liberazione composto da tutti i partiti italiani che si opponevano al Fascismo. In realtà il comando tedesco in Italia aveva già negoziato la resa seppure in contrasto con gli ordini che arrivavano da Berlino. Il governo fascista a questo punto lasciò Milano nell’ipotesi di rifugiarsi in Valtellina per un’ultima resistenza, o di cercare di scappare in Svizzera. Il generale Rodolfo Graziani, a capo dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, preferì consegnarsi agli anglo-americani ed arrendersi, mentre Mussolini e i fedelissimi furono catturati e passati per le armi dai partigiani. Il giorno successivo avvenne la Resa di Caserta, firmata nella Reggia borbonica dal comando tedesco in Italia e dai rappresentanti dell’esercito inglese e statunitense. È interessante che la cessazione delle ostilità sul territorio italiano non vide alcun cittadino italiano prendere parte all’accordo che sarebbe entrato in vigore il 2 maggio successivo. L’esercito della Rsi, tramite Graziani, delegò i tedeschi a firmare la resa mentre gli accordi tra Italia e potenze alleate successivi all’Armistizio di Cassibile cedevano qualunque potere su questo tema. L’Italia negli anni successivi ebbe modo di scegliere la propria forma istituzionale eliminando la monarchia dallo scenario attraverso il referendum del 2 giugno 1946, di dotarsi di una propria Costituzione e di sopportare una limitata occupazione militare di cui oggi permane ancora traccia nelle basi militari rimaste a disposizione degli Stati Uniti d’America. Sicuramente il cambio di rotta nell’estate del 1943 contribuì a diminuire l’impatto dell’occupazione alleata nel dopoguerra e permise alla politica italiana di poter continuare ad esercitare un ruolo nella fase di riorganizzazione dello Stato.

Mussolini il 25 aprile 1945 a Milano

La fine della guerra in Germania

Nelle stesse ore in cui si concludeva la guerra in Italia, la Germania venne tagliata in due dagli eserciti anglo-americano e sovietico. Il 25 aprile 1945 lungo le sponde del fiume Elba le avanguardie si riconobbero e non mancarono i momenti di felicità per la consapevolezza della fine imminente della guerra. Nel frattempo Berlino era circondata e le notizie che arrivavano dai vari fronti facevano comprendere alla leadership nazista che non c’erano speranze di ribaltare le vicende belliche a favore della Germania. Himmler e Göring in due differenti occasioni cercarono di avviare trattative separate con gli anglo-americani per proporre di proseguire la guerra contro i sovietici. La stessa cosa la provò a fare Karl Dönitz una volta avuto il potere dopo la morte di Hitler, ma anche in questo caso la coerenza dei Paesi che avrebbero vinto la guerra fu inamovibile. Dönitz inviò il 6 maggio il generale Alfred Jodl a Reims dove si trovava il comando alleato per avviare una trattativa di resa. Dopo i colloqui con Eisenhower, nelle prime ore del 7 maggio, ottenne il permesso dal governo tedesco di firmare una resa incondizionata valida sia sui fronti occidentali che in quelli orientali. L’orario di cessazione delle ostilità fu quello delle 23.01 del giorno 8. I sovietici pretesero l’invio di una delegazione ufficiale tedesca a Berlino, stavolta guidata dal feldmaresciallo Whilelm Keitel, per una seconda firma di resa anche davanti ai vertici militari dell’Unione Sovietica nella tarda serata dell’8 maggio, quando a Mosca era già il giorno successivo. Questo è il principale motivo per il quale negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale viene considerata la fine della guerra nello scenario europeo il giorno 8, mentre nell’ex Urss e in Europa orientale il giorno 9.

Hitler con Joseph e Magda Goebbels e tre dei loro sei figli uccisi dai genitori nel bunker

La Germania e Berlino furono poi spartite in quattro aree di controllo, oltre a territori ceduti in modo permanente alla Polonia e all’Unione Sovietica. Le aree francese, inglese e americana diedero vita il 23 maggio 1949 alla Repubblica Federale Tedesca, quella sovietica successivamente, il 7 ottobre del 1949, alla Repubblica Democratica Tedesca. Le due entità statali ritroveranno la propria unione a seguito della riunificazione del 3 ottobre 1990. Tecnicamente quest’ultima fu un’annessione di uno dei due stati all’altro. Tuttora oggi, nella parte occidentale del Paese, permangono basi militari americane.

La fine della Guerra in Giappone

Le dinamiche della conclusione della guerra in Europa non sembrarono avere immediate ricadute sul prosieguo del conflitto in Giappone e sul Pacifico. La determinazione del governo nipponico e la tempra dell’esercito giapponese non lasciavano presagire un’immediata fine del conflitto, nonostante ormai da alcuni mesi l’Impero del sol levante perdesse inesorabilmente terreno. Nel 1945 gli scontri erano ormai attorno all’arcipelago giapponese, gli americani ipotizzavano uno sbarco pur temendo che non avrebbero potuto prendere facilmente il controllo della situazione. Alle conferenze successive alla caduta della Germania, gli alleati chiesero ai sovietici di aprire un secondo fronte per indebolire il Giappone. La cosa avvenne solo ad inizio agosto, quando parte dell’Armata Rossa venne spostata dall’Europa alla zona delle nuove operazioni. Nel frattempo il Giappone avviò tentativi diplomatici per cercare prima una pace separata con i sovietici e poi arrivare attraverso una loro mediazione ad una fine del conflitto diversa dalla capitolazione. Ad accelerare le cose ci pensarono gli Stati Uniti con la discutibile decisione di lanciare la prima bomba atomica della storia dell’umanità sulla città di Hiroshima il 6 agosto e la seconda su Nagasaki tre giorni dopo. Per il Giappone le due catastrofi nucleari costituirono un colpo mortale, date le centinaia di migliaia di vittime e le conseguenze militari e psicologiche.

Contemporaneamente iniziò anche l’attacco militare sovietico che occupò la Manciuria, la Mongolia interna, parte della penisola coreana, la parte meridionale di Sachalin e le isole Curili. La prima bomba atomica e l’invasione sovietica portarono il gabinetto imperiale a confrontarsi su cosa fare. Per la prima volta il consenso unanime a continuare il conflitto venne meno e i “sei grandi” – così si chiamava informalmente il Consiglio Supremo per la guerra – erano divisi a metà sull’ipotesi della resa. Per l’esattezza tre componenti erano pronti ad accettare le imposizioni stabilite a Potsdam dopo la fine della guerra in Europa mentre gli altri tre volevano negoziare condizioni più favorevoli. La riunione decisiva avvenne mentre veniva sganciata la bomba su Nagasaki. L’ipotesi che una terza bomba avrebbe potuto colpire Tokyo fece uscire allo scoperto la posizione dell’Imperatore che scelse di appoggiare la parte di consiglio favorevole alla resa. Il giorno 10 fu trasmessa la notizia agli americani e per alcune ore cessarono i bombardamenti. La scelta di Hirohito non fu digerita da una parte dell’esercito che preferiva un attacco kamikaze di massa piuttosto che la resa, mai avvenuta nella storia millenaria giapponese. Il discorso di resa dell’Imperatore fu trasmesso dalla radio giapponese il giorno 15 agosto dopo che la notte precedente e la mattina dello stesso Ferragosto un tentativo di colpo di stato cercò invano di rendere impossibile la trasmissione del messaggio. Ci vollero altre due settimane perché la resa venisse firmata nella baia di Tokyo a bordo della corazzata Missouri. La capitolazione giapponese riuscì a salvare le istituzioni e soprattutto la figura dell’Imperatore. A quest’ultimo, ovviamente in accordo con gli Stati Uniti, non vennero attribuite responsabilità militari relative al conflitto mondiale e nella ristrutturazione del sistema politico giapponese dovette limitarsi a rinunciare alla propria presunta natura divina. Hirohito riuscì, pur sacrificando la gran parte della classe politica del proprio paese, ad accreditarsi presso i vincitori della guerra come una pedina importante per gli scenari successivi, cosa non riuscita in alcun modo alle autorità fasciste in Italia o a quelle naziste in Germania. Naturalmente a distanza di 76 anni permangono basi americane in Giappone.

Numero delle vittime della Seconda Guerra Mondiale

Non è facile calcolare quante persone abbiano perso la vita tra il 1939 e il 1945 a causa della Seconda guerra mondiale. La cifra considerata indicativa è quella di poco meno di settanta milioni, considerando tutti i fronti. Di questi quasi due terzi furono civili e poco più di un terzo militari.

Le nazioni che subirono le peggiori conseguenze furono l’Unione Sovietica e la Cina con rispettivamente circa 27 e 20 milioni di morti. Nell’elevato numero di vittime cinesi deve essere considerato che circa la metà morì a causa delle guerra civile. La Germania raggiunse 7,5 milioni, la Polonia 5,5 e il Giappone poco più di 2,5 milioni, di cui il 10% solo nei due bombardamenti nucleari. Nel dato polacco e tedesco sono compresi anche parte dei cittadini di origine ebraica morti nei campi di concentramento. L’Italia ebbe poco meno di mezzo milione di vittime, delle quali circa 150.000 civili e il resto militari. Nella percezione che spesso si ha delle vicende belliche viene percepito come elevato in termini di caduti il contributo militare dato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna alla sconfitta dell’espansionismo tedesco, italiano e giapponese. Nella realtà dei numeri gli Stati Uniti ebbero circa 400mila caduti, quasi tutti militari, mentre i britannici 365.000, dei quali un terzo civili. Di fatto gli Usa ebbero complessivamente un numero di vittime minore a quelle dei sovietici nella sola Battaglia di Stalingrado.

Un veterano il 9 maggio 2019 a Kazan’ (Russia)

Il valore del ricordo negli stati coinvolti

Le modalità con cui si valorizza il ricordo dei fatti relativi alla Seconda Guerra mondiale varia molto in base agli effetti che la guerra ebbe nel proprio paese o al numero delle vittime subite. L’esempio più chiaro di questo aspetto è come viene vissuta la data del 9 maggio dagli stati succedutesi all’Unione Sovietica. Il “Giorno della Vittoria” è la festività civile più importante del calendario dove si onora il sacrificio dei circa 27 milioni di cittadini sovietici morti tra il 1941 e il 1945. Nella storiografia russa e sovietica si ridimensiona l’impegno bellico precedente all’invasione tedesca quando l’Urss invase parte della Polonia e della Finlandia. Il periodo di guerra durante l’invasione tedesca e la conseguente vittoria con la conquista di Berlino viene ricordata con la Grande Guerra Patriottica in quasi tutte le aree un tempo sovietiche. Almeno in Russia è stata ripristinata l’usanza di esporre la bandiera rossa con falce e martello appartenente al reggimento che occupò il Reichstag di Berlino. Assieme a questo avviene la marcia del reggimento immortale, dove discendenti di combattenti del conflitto mondiale portano con sé una foto del proprio caro morto durante o dopo la guerra. Nella giornata del 9 maggio assumono particolare importanza i pochi veterani ancora in vita che di solito assistono alla parata della vittoria che si svolge al mattino nelle principali città. Negli Usa ebbe in passato maggiore rilevanza la data del 2 settembre, ovvero la fine della guerra sul fronte giapponese, rispetto all’8 maggio e al termine delle operazioni in Europa. Gran Bretagna e Francia ricordano l’8 maggio ma senza particolari eventi se non in occasione dei decennali o di anniversari solenni della fine della guerra. I popoli asiatici sono più legati alla data della fine della guerra contro il Giappone. In Italia la giornata passa inosservata preferendo ricordare il 25 aprile come momento di massima importanza della fase conclusiva della guerra. Il Giappone, pur non riconoscendola come festa, ricorda il giorno della propria resa e quelli delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Nella Repubblica Democratica Tedesca si ricordava l’8 di maggio come il giorno della liberazione, usanza persa dopo la riunificazione con la Germania occidentale.

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