La Cappuccia d’Anghiari, fasti e scomparsa di una razza pregiata

Grazie a uno studio di Mirco Draghi ripercorriamo la storia di un suino autoctono rimasto vittima del progresso e della modernità

Fine XIX secolo, bambini con una famiglia di suini in un'aia nell'Alta Valle del Tevere (Archivio Alvaro Tacchini)

Si intitola giustamente Dalle stelle alle stalle la ricerca (scaricabile qui in formato pdf) realizzata dall’appassionato di storia locale Mirco Draghi e dedicata a una pregiata razza suina, la Cappuccia d’Anghiari. Parente stretta della Cinta senese, oggi avrebbe avuto tutte le carte in regola per diventare un simbolo gastronomico della Toscana. Ma la storia è andata diversamente, e la razza anghiarese non esiste più dagli anni settanta del secolo scorso.

La Cappuccia, detta anche Casentinese o Chianina, deve il suo nome al contrasto tra lo scuro mantello color ardesia e la colorazione bianca del muso. Oppure, secondo un’altra versione, a ricordare un cappuccio sarebbero le lunghe orecchie penzolanti davanti agli occhi. Allevata soprattutto in Toscana e Alta Umbria, quella anghiarese era “una razza rustica, pascolatrice, di facile ingrasso e che produceva una carne sapida, del lardo spesso ma di buona qualità”. I suoi prosciutti erano pregiati ed esportati anche all’estero, in particolare dal Casentino verso Germania e Inghilterra. Le scrofe erano molto prolifiche, mentre i verri si trovavano nella gran parte dei casi a subire l’asportazione di un testicolo perché si riteneva così di calmarne spiriti troppo bollenti.

Nel ricostruire la storia della Cappuccia d’Anghiari, Draghi parte dalla citata somiglianza morfologica e organolettica con la Cinta per ipotizzare che ne fosse “una ‘variazione’ col tempo adattata al luogo e forse incrociata con altri suini locali, come era comunemente in uso nell’800”. Ad ogni modo, la prima attestazione rintracciata dall’autore risale ad un resoconto ministeriale del 1875 secondo il quale “nella Valle Tiberina si alleva una razza locale di porci di corporatura vantaggiosa e facile da ingrassare”.

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Fu proprio negli stessi anni che dalla contea inglese dello Yorkshire arrivò in Italia il suino che nel corso del tempo avrebbe fatto scomparire la Cappuccia e messo in secondo piano le altre razze locali: il maiale Large White, quello rosa oggi di gran lunga più diffuso, che nel 1873 venne introdotto dal “Deposito di animali miglioratori di Reggio Emilia”. In questa prima fase l’approccio era quello di incrociare razze estere e autoctone cercando di unire le più grandi dimensioni e il più rapido sviluppo delle prime con la maggiore sapidità delle seconde. Nonostante i risultati tendessero a non essere quelli attesi, soprattutto dal punto di vista della qualità, tuttavia la pratica prese sempre più piede, in particolare in Emilia e Lombardia dove l’allevamento si praticava già su scala quasi industriale.

Molto più diffidente verso le razze estere era invece l’approccio nel nostro territorio e in generale in Toscana. “Questa mentalità ‘autarchica’ – sottolinea Draghi – permise alla Cappuccia e alle razze toscane di continuare le loro discendenze in purezza almeno per qualche altro decennio”. I primi del Novecento segnarono una fase di prosperità per la razza anghiarese, che nel 1903 era tra le tre più diffuse e pregiate in Toscana e si espanse poi ampiamente, soprattutto nel Casentino. Dopo una breve flessione all’inizio della Prima guerra mondiale, per lo più a causa della circolazione del tifo petecchiale dei suini, la produzione di Cappuccia si rilanciò già prima della fine conflitto e proseguì negli anni successivi, che però coincisero con una crescita nell’importazione di suini anglo-americani e una maggiore diffusione della pratica dell’incrocio. La Nuova enciclopedia agraria italiana, nel 1927, cominciava a lanciare i primi allarmi sui pericoli corsi dalla Cappuccia.

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Nonostante ciò, ancora negli anni trenta se ne registrò una diffusione importante, anche in Umbria e nel Senese, e nel 1941 il Ministero dell’agricoltura la inserì nell’elenco delle 10 “razze pregiate”. È però nel secondo dopoguerra che la situazione peggiorò drasticamente, perché l’obiettivo di ricostruire e modernizzare il Paese e gli albori del consumismo portarono a badare più alla quantità che alla qualità, favorendo “la sostituzione delle vecchie razze locali con quelle estere più grandi di dimensioni e più rapide nell’ingrasso”. Ormai non si parlava più di incroci, ma della diffusione sempre maggiore del Large White in quanto tale.

La Cappuccia ancora resistette, ottenendo nel 1950 anche il “Premio di primo grado” alla prestigiosa “Rassegna nazionale dell’allevamento suini” di Reggio Emilia, ma i numeri parlavano chiaro: nel 1949 nell’Italia centrale quelli di razza anghiarese erano rimasti il 6,4% di tutti i maiali, contro il 45,2% dei Large White. Nel 1958 la Cappuccia venne inserita dalla Fao nell’elenco dei suini più importanti allevati in Italia, ma un censimento dell’anno dopo ne attestava in Toscana solo 12.570 esemplari, a fronte degli oltre centomila maiali inglesi, di cui nel frattempo stava aumentando anche la qualità.

Il colpo di grazia negli anni sessanta arrivò da un lato dallo spopolamento della campagna che riduceva il numero di piccoli allevatori, più tradizionalisti; dall’altro dalla diffusione di stili di vita che richiedevano un minor apporto calorico. Le leggi del mercato guidarono nella direzione di suini giovani e magri e per le razze antiche non ci fu più spazio. Secondo il World Dictionary of Livestock Breeds la Cappuccia risulta estinta nel 1976.

Di una storia durata quindi esattamente un secolo resta soprattutto un rimpianto: se infatti la Cappuccia d’Anghiari avesse resistito qualche altro anno avrebbe avuto l’occasione di raggiungere una fase di rinnovata attenzione verso le razze autoctone e le specificità locali: a titolo di esempio basti di nuovo citare la vicina Cinta senese che, ridotta a pochi esemplari per dinamiche analoghe a quella della “cugina” anghiarese, è stata recuperata da alcuni piccoli allevatori negli anni novanta per diventare oggi una razza particolarmente apprezzata.

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