Jonata Chimenti, classe 1976, è un biturgense doc cresciuto davanti al Giardino di Piero della Francesca. Dopo le esperienze giovanili come giocatore di pallacanestro e una lunga parentesi di vita nel settore della ristorazione e dell’intrattenimento ha iniziato una felice carriera nel mondo dell’allenamento della pallacanestro. Da Sansepolcro a Casale Monferrato passando dalle importanti esperienze di Umbertide, Ferrara e Roma. La sua storia, non solo sportiva, raccontata a TeverePost.
Come ti sei avvicinato al mondo della pallacanestro?
Il sabato pomeriggio sulle reti Rai e su Telecapodistria si poteva seguire la pallacanestro. Era uno sport che mi affascinava, ma ho iniziato a giocare solo per una persona, Magic Johnson, che negli anni ‘80 era uno dei più forti giocatori del mondo. Non potevi non amarlo, lui era lo spettacolo e pensavo che quello che faceva lui lo avrei potuto fare anche io. Naturalmente non è andata così! Però ho cominciato a giocare proprio per quello.
Non ti sei occupato solo di basket, ti ricordiamo impegnato in altri ambiti.
Nella vita si deve pur fare qualcosa e una delle mie passioni è stata fare ristorazione e cucinare. Per questo ho fatto la scuola alberghiera ad Assisi, ho viaggiato e ho fatto più esperienze in questo settore. La svolta è stata lavorare in discoteca perché mi ha dato più libertà nel muovermi e nel vedere le cose sotto altri aspetti, conoscere gente, confrontarmi e naturalmente ascoltare musica. Lavorare in discoteca mi ha riempito la vita e tuttora coltivo amicizie sparse per l’Italia grazie a quel tipo di esperienza durato fino a circa undici anni fa. Avevo 34 quando ho deciso di prendere un’altra strada.
Come è iniziata la tua carriera da allenatore e quali sono state le precedenti esperienze prima di Casale Monferrato?
Ho deciso di fare l’allenatore grazie ad un dj che mi sentiva sempre parlare di pallacanestro. Ho cominciato da Sansepolcro come assistente di Alessandro Rossi e Lamberto Cornioli, le due persone che mi hanno cresciuto in questa strada. Ricordo come nel primo allenamento i ragazzi mi fecero tante domande a cui non sapevo rispondere, abituato ad essere io stesso giocatore. Chiesi consiglio ad Alessandro che mi consigliò il libro di Sandro Gamba su come costruire una squadra e da lì in poi la mia curiosità non si è più fermata e da Sansepolcro sono finito ad Umbertide dove ho iniziato i primi approcci alla pallacanestro femminile. Devo ringraziare Lorenzo Serventi perché mi ha accolto e mi ha insegnato ad essere un allenatore differente dagli altri. Avere una disciplina, una scuola, un pensiero che porti a pensare la pallacanestro in maniera differente. Non è stato semplice cambiare tutto a 34 anni. Ho avuto la fortuna di conoscere giocatrici che hanno vinto titoli o che giocano in Eurolega e che hanno contribuito a costruire il mio essere allenatore. All’inizio pensavo che fosse solo un gioco ma in realtà è un pensiero, una cosa importante perché parli con i giovani, con i ragazzi, con le donne che sono completamente diverse rispetto alla pallacanestro maschile. All’inizio si sbaglia, ma poi si riesce a trovare la propria quadratura. Ringrazio Umbertide che mi ha permesso di iniziare questo cammino.
Come è proseguito il tuo percorso sportivo?
Dopo anni in Umbria, dove abbiamo raggiunto le semifinali del campionato e quelle di Coppa Italia, ho trovato una seconda casa a Ferrara. Sono rimasto lì tre anni con una finale di Coppa Italia e una finale promozione. Riesco a costruire una bella storia nella città estense. L’ultimo anno ha coinciso con il mio primo anno da primo allenatore in A2 femminile, quando ho costruito un legame con un gruppo con il quale ancora mi sento regolarmente. Era un ambiente dinamico, spesso caratterizzato anche da confronti ma che hanno portato tutti a fare passi avanti e centrare ottimi risultati. Ferrara la porto sempre nel cuore. Poi è arrivata Vicenza, una squadra che ha una storia importante nella pallacanestro italiana. Negli anni ’80 Vicenza riuscì a centrare sette finali consecutive di Coppa dei Campioni, vincerne cinque rimanendo imbattuta per quattro anni e mettendo fine al dominio delle squadre sovietiche e dell’Europa orientale. Vicenza è una delle poche squadre che ha vinto più di dieci campionati e che può vantare la stella sulla maglia. Entrare nello staff di una società prestigiosa è il sogno di ogni allenatore, come se nel calcio avessi potuto allenare il Milan, la squadra italiana con il maggior prestigio in Europa. Ho fatto una stagione buona e sono stato premiato come miglior secondo allenatore della stagione. Dopo il Veneto c’è stato un cambio di vita, perché sono andato alla Stella Azzurra di Roma, un’eccellenza nel mondo della pallacanestro maschile, e ho sposato il progetto di costruire il basket femminile. Ringrazio ancora chi mi ha accolto in questa bellissima famiglia e dal quel momento mi porto dietro un diverso pensiero di lavoro. Tra l’altro siamo riusciti a vincere un campionato di serie B lavorando a tutto tondo anche con i settori giovanili.
Cosa significa per un’importante realtà cestistica come Casale puntare sul settore femminile?
Ci sono arrivato per caso. Dovevo andare in un’altra realtà ma poi il trasferimento è sfumato per la mancanza di accordo. Sono stato chiamato a Casale, un’altra società dove sono passati giocatori importanti nella storia di questo sport. Casale è una piccola città che è riuscita a vincere uno storico scudetto nel calcio ed è sempre stata un punto di riferimento della pallacanestro non solo in Piemonte. La nuova società ha deciso di costruire anche una esperienza di basket femminile ed io sono qui per aiutarli in questa scommessa.
Come ha influito il Covid sulla vostra stagione agonistica?
L’esperienza a Casale non è iniziata bene proprio via della pandemia di Covid-19 che ha rallentato tutto il processo in atto. Per rendersi conto del tipo di controllo che abbiamo basti pensare che, essendo anche secondo allenatore in A2 maschile, sono sottoposto a due tamponi a settimana. I protocolli sono molto rigidi anche nel settore giovanile femminile che seguo. Il Covid ha rallentato la motorietà e la psicomotorietà, la capacità di ragionamento e di reazione degli atleti. Hanno perso la voglia di fare cose. A volte sembra che l’allenamento venga fatto come un dovere, si è perso parte dell’entusiasmo che deve accompagnare la crescita di un atleta. Assieme a questo si è fatta sentire in modo importante la mancanza di spazi liberi di gioco. A tal proposito si può citare come esempio proprio Sansepolcro, dove mancano luoghi non privati dove fare sport di squadra come il calcio e tanto meno la pallacanestro. Mancano in generale posti dove svolgere attività libera all’aperto, anche chi corre spesso lo deve fare in mezzo alle auto. Lo sport dovrebbe essere un’attività libera ma è diventato sempre più un attività chiusa se non addirittura elitaria o privata. A Sansepolcro ci sarebbero spazi per creare campetti liberi. Mettere una porta da calcio, una rete da pallavolo o un canestro non dovrebbe essere un problema.
Quali prospettive professionali vedi per il tuo futuro?
Mi pongo degli obiettivi e cerco di raggiungerli. Il prossimo passo potrebbe essere cercare di allenare una società di A1 femminile. Nel maschile ho raggiunto il traguardo di essere assistente in A2, però sono cresciuto nel femminile e probabilmente sono più pronto per proseguire la carriera con le donne, dato che in A2 ho fatto bene e penso che potrei fare altrettanto nella prima serie. Poi c’è il sogno che è quello di avere un ruolo nello staff della rappresentativa nazionale, anche giovanile, per avere la possibilità di fare un campionato europeo o mondiale. Indossare la divisa o la maglia del mio Paese, ascoltare l’inno, penso che debba essere l’aspirazione di ogni atleta o allenatore. In un futuro così complesso dato quello che stiamo vivendo è difficile riuscire a fare programmi che vadano oltre le proprie aspirazioni. Bisogna saper cogliere le occasioni e pensare che tutta l’esperienza immagazzinata possa servire per affrontare nuove sfide.
Hai mantenuto saldi i legami con Sansepolcro e la Valtiberina?
Certamente, con famiglia e amici ci sentiamo e la Valtiberina, ogni volta che rientro, mi trasmette senso di pace, anche perché non ci sono molti eventi e quei pochi che ci sono sono classici borghesi che non apprezzo particolarmente. Il mio essere biturgense me lo porto sempre dietro, dalla parlata ai modi di essere. Da quando avevo 14 anni, quando ho cominciato a studiare fuori, ad oggi che ne ho 45 credo di essere stato al Borgo non più di tre anni. Affetti, luoghi, anche bar, sono quei posti che mantengono un forte legame con le proprie radici. A Sansepolcro parlo poco di pallacanestro, diciamo che gli argomenti sono sempre altri. Non apprezzo quando vengo indicato come allenatore aretino ed ogni volta rivendico la mia esatta provenienza. Preferisco essere accostato alla storia, ai personaggi e alle tipicità di Sansepolcro e non di un luogo diverso. Spesso mi chiedo se Sansepolcro sia consapevole che ci sono molte persone che portano il nome della nostra città in giro per l’Italia e nel mondo. A volte forse è stata scarsa l’attenzione delle istituzioni per coloro che tramite lo sport o altre attività fanno rimbalzare il nome del Borgo anche in luoghi dove nessuno ha la più pallida idea di dove sia Sansepolcro. Raccontare queste esperienze sarebbe anche di esempio per aiutare altri ad intraprendere questo tipo di percorsi.