Difensore affidabile e “roccioso”, autentica colonna di quella squadra che, pur non vincendo il campionato di Serie D 1995-1996 a causa dei 14 punti di penalizzazione, è rimasta nella storia del Sansepolcro. Dopo le interviste a Giorgio Lacrimini, Giulio Franceschini e Pippo Renzoni, è oggi il turno di Italo Franceschini. Nelle stagioni vissute in maglia bianconera si mise in mostra per il suo rendimento sempre di alto livello e per la sua capacità di guidare assieme agli altri compagni di reparto una difesa quasi impenetrabile. Italo è nato il 29 gennaio 1964 a Senigallia e prima di arrivare a Sansepolcro è stato protagonista nel Gubbio, nel Perugia di Ravanelli e Di Livio e nel Bisceglie, totalizzando oltre 200 presenze in Serie C2, dimostrando le sue qualità da leader e “rendendo difficile la vita” dei vari attaccanti affrontati. Una carriera ricca di soddisfazioni, ma anche caratterizzata da brutti infortuni che gli hanno forse impedito di raggiungere palcoscenici ancora più prestigiosi. Italo Franceschini, al contrario di molti suoi compagni, non è rimasto nel mondo del calcio, ma lavora come rappresentante in un’azienda di profumi e di cosmetica ed abita a Gubbio assieme alla moglie Tiziana e alla figlia Maddalena. Su TeverePost la sua storia calcistica, dai primi passi fino agli anni più belli.
Quando hai iniziato a giocare a calcio?
Da bambino, nella Vigor Senigallia, società della mia città che a quel tempo aveva un buon settore giovanile e che con la prima squadra militava in Serie D. Ovviamente a quell’epoca il calcio era lo sport più praticato e con i miei amici sognavamo di arrivare a giocare in prima squadra. Dopo passai all’Audax Senigallia, società sempre della mia città che fu fondata da un ex dirigente della Vigor. Qui completai la trafila tra i giovani e feci l’esordio in Seconda Categoria quando ancora non avevo 18 anni. Giocavo a centrocampo e segnavo qualche gol, tanto che in un torneo giovanile fui premiato come capocannoniere. Conservo tuttora quella medaglia, anche perché successivamente di reti ne realizzai poche.
Altri ricordi di quegli anni?
Ricordo benissimo le prime scarpette che mi comprò mio padre, erano firmate “Sandro Mazzola” e per me erano la cosa più bella del mondo. Poi in una partita del settore giovanile ci fu un episodio particolare, da non crederci se raccontato ora. Ci venne infatti assegnato un rigore che i nostri rivali contestarono, tanto che il loro mister fece uscire tutti i giocatori dal campo, compreso il portiere. Quando andai sul dischetto calciai quindi a porta vuota. Non ricordo contro chi giocavamo, ma fu davvero una sensazione strana.
Dopo gli anni all’Audax Senigallia quali furono le tappe della tua carriera?
Andai al Pergola in Promozione. Furono 2 stagioni positive per la squadra e per me, che venni impiegato per la prima volta da terzino destro. Quante battaglie in quel periodo, in un calcio in cui tutto era permesso, se mi passi questa definizione. Duelli fisici, rudi e tanta intensità, dentro e fuori dal campo. Il mio rendimento fu buono e così nella stagione 1984-1985 mi chiamò il Gubbio in Serie D, società a cui devo praticamente tutto e in cui sono cresciuto come calciatore e come uomo, perché trovai persone corrette ed innamorate dei propri colori, rossoblù ovviamente. Anche con i tifosi fu amore a prima vista.
In campo come andarono le cose?
Il primo anno, con mister Fiorindi, fu la mia prima esperienza importante, perché uscivo per la prima volta fuori regione, giocando con squadre forti come Latina e Viterbo. Arrivammo se ben ricordo al 3° posto in un campionato molto difficile e molto “caldo”. Il secondo anno in panchina arrivò Roscini, persona corretta e preparata. Grazie al mister imparai a giocare a zona e questo mi permise di sfruttare al meglio le mie doti e le mie potenzialità. Noi, la Vis Pesaro ed il Riccione guidato da Alberto Zaccheroni chiudemmo al 1° posto pari merito. Nello spareggio a tre per la promozione, noi battemmo il Riccione, ma perdemmo con la Vis Pesaro che salì in C2 vincendo l’altro scontro diretto. La delusione per l’esito finale non cancellò quanto di buono avevamo fatto in quella stagione.
Tu in Serie C2 andasti comunque, visto che in estate passasti al Perugia.
Mister Roscini fu chiamato in panchina e mi chiese di seguirlo. Il Perugia veniva da due retrocessioni di fila e da spiacevoli situazioni extra-campo, ma la nuova dirigenza lavorò al meglio per ricreare le giuste condizioni e per riportare la squadra ai suoi livelli. Il primo anno non fu entusiasmante e l’avventura di Roscini terminò prima della fine del campionato. Al suo posto arrivarono prima Pierluigi Frosio, poi Mario Colautti. Ad inizio stagione giocai diverse gare, ma purtroppo nel girone di ritorno mi ruppi il tendine d’Achille, infortunio che mi pregiudicò anche l’annata seguente. Una volta rientrato non fu facile ritrovare la condizione ed inserirsi, in una squadra che girava a mille. Mister Colautti infatti rimase e vincemmo il campionato, centrando con il Casarano la promozione in C1. Giocai poco, ma cercai di farmi trovar pronto sfruttando ogni chance. Essere protagonista in uno stadio come il Curi e di fronte a tifosi appassionati come quelli perugini fu comunque un sogno realizzato. Quella poi era una squadra formidabile in cui spiccavano Manfrin e tre giovani davvero interessanti: Angelo Di Livio, Fabrizio Ravanelli e Giovanni Bia.
Giocandoci accanto e allenandoti con loro, pensavi che Ravanelli e Di Livio avrebbero fatto una carriera così importante?
Avevano una marcia in più e si vedeva. Ravanelli veniva dal settore giovanile e vinse la classifica marcatori in quella stagione, la sua seconda in prima squadra, appena ventenne tra l’altro. Fisicamente era fortissimo e aveva tanta voglia di arrivare. Determinazione e impegno non gli sono mai mancati, i gol li segnava anche da giovane, poi è evidente che negli anni è maturato diventando giocatore completo. Di Livio tecnicamente è sempre stato molto bravo e poi il soprannome “soldatino” era appropriato, dato che svolgeva con grande applicazione il suo compito. Una garanzia. Erano forti e non a caso arrivarono alla Juve e in nazionale.
Dopo quel campionato vinto, da Perugia tornasti a Gubbio. Quattro stagioni da protagonista in Serie C2 e in una realtà che ha significato molto per te.
Tornai a Gubbio e sentì subito la stima di dirigenti e tifosi. Quel quadriennio fu importante per me. Giocai con continuità e mi rilanciai dopo i problemi fisici di Perugia. Nelle prime 3 stagioni ci piazzammo sempre nei piani alti della classifica, giocando un buon calcio, soprattutto da quando arrivò in panchina Francesco Giorgini, allenatore preparato che con un 4-3-3 molto “zemaniano” ci fece fare un bel salto di qualità. Fu fondamentale anche per la mia crescita: mi adattai bene allo schieramento, iniziai a modulare la difesa e potevo ricoprire tutti i ruoli del pacchetto arretrato anche se spesso giocavo a destra. Morbiducci era il riferimento in avanti, ma tutta la squadra si esprimeva al massimo. In quegli anni ricordo i duelli con il Baracca Lugo di Zaccheroni e con il Fano di Renzoni e Hubner, attaccante tosto già da giovane. Posso aggiungere una cosa sul mio amico Pippo Renzoni?
Certo…
Voglio dirgli che contro di noi ha quasi sempre perso, soprattutto quando giocavamo sul nostro campo. È una battuta e lui lo sa, ma è anche la verità perché in casa eravamo veramente forti.
Tutto cambiò nella tua quarta ed ultima stagione in maglia eugubina. Cosa accadde?
Purtroppo le cose non andarono bene a il campionato si concluse con la retrocessione in Serie D. Pagammo a caro prezzo le difficoltà societarie e le problematiche extra-campo senza riuscire a invertire una tendenza negativa anche a livello di risultati. Fu un grande dispiacere per me perché al Gubbio ero e sono legato non soltanto a livello calcistico, però non sempre le cose vanno come si vorrebbe. A fine stagione mi arrivarono delle proposte dalla Toscana, ma decisi di seguire mister Giorgini e andai al Bisceglie in C2. Campionato di metà classifica il primo, salvezza in extremis nel secondo, ma nel complesso non fu un’avventura felice per me. Mi ruppi l’altro tendine d’Achille e il giusto feeling con l’ambiente non scattò, così decisi di cambiare di nuovo aria e arrivai a Sansepolcro.
Come fu l’approccio con la società bianconera?
Mi dissero che era una bella realtà e così fu. Ebbi subito una buona impressione parlando con il direttore sportivo Becci e con gli altri dirigenti, quindi sposai il progetto. Arrivai a gennaio con mister Fraschetti alla guida della squadra e trovai un grande ambiente. Una società familiare e organizzata tipo quella che c’era a Gubbio e anche con i compagni scattò subito un’ottima intesa. Ero uno dei calciatori più esperti in una rosa formata da giocatori giovani e di grande talento, come poi hanno dimostrato Tardioli, Recchi e Bocchini. Un bellissimo gruppo che nella stagione 1995-1996 fu protagonista di una meravigliosa annata.
Scontato parlare di quella cavalcata segnata pesantemente dai 14 punti di penalizzazione. Cosa ti rimane dentro a circa 25 anni di distanza?
La consapevolezza di aver dato tutto e l’amarezza per aver dovuto fare i conti con una sanzione esagerata, frutto di una regola che non aveva ragione di esistere. L’errore ci fu ed è innegabile, ma fu ingiusto darci perse tutte le partite in cui Guidotti aveva giocato, dato che aveva solo un turno di squalifica da scontare. In campo vincemmo le prime 7 gare di quel campionato di Serie D, ma tutti i punti ottenuti ci vennero tolti. Noi però non mollavamo e giocavamo un gran calcio, in tutti i campi e contro ogni squadra. Fu un bellissimo duello con l’Arezzo ed avremmo meritato di giocarci il successo fino alla fine. Purtroppo così non fu, ma non avevamo nulla da rimproverarci. Quanti ricordi però! Il successo di San Giovanni resta uno dei momenti più belli. Vincemmo 1-0 e a fine partita Cucchi si arrabbiò moltissimo con Renzoni che non gli aveva passato un pallone in contropiede. Era una furia! Questo perché ci credevamo e perché volevamo sempre il massimo. Per un guerriero come me era la situazione ideale, ma tutta la squadra reagì con forza a una penalizzazione che avrebbe potuto stroncare chiunque. Non noi però. Io giocavo prevalentemente a destra in una difesa solidissima, aiutata da tutta la squadra, a partire dal centravanti Giulio Franceschini, bravo nel segnare e nel far salire la squadra. Eravamo un gruppo unito e andavamo d’accordo, dentro e fuori dal campo.
L’anno seguente per te arrivò un altro infortunio.
Mi ruppi il crociato e persi quasi tutta la stagione. Già lavoravo da rappresentante e forse era il momento di rallentare, invece volevo dare ancora molto al Sansepolcro, società a cui ero legato profondamente e città che per me rappresentava e rappresenta ancora oggi una seconda casa. L’anno dopo ritornai al Gubbio in una squadra unita e forte che annoverava tra le sue fila calciatori di valore, come l’attaccante Pino Lorenzo, e vincemmo il campionato di Serie D, conquistando la promozione in C. L’anno dopo tornai al Sansepolcro, su richiesta di mister Trillini e della società. Una chiamata importante perché mi fece capire che verso di me c’erano ancora stima e affetto, da parte dei dirigenti e di una tifoseria che ci seguiva sempre con passione. Purtroppo dopo tre gare mi infortunai all’altro ginocchio e da lì decisi di smettere con il calcio.
Senti ancora i tuoi ex compagni?
Per telefono o su Facebook sono in contatto con molti amici di quel Sansepolcro e ogni volta che per lavoro passo in città ci troviamo con alcuni di loro, ad esempio Franceschini o Lacrimini. In questi anni ho sempre seguito seppur a distanza i risultati della squadra bianconera. Sentivo l’affetto della gente, mi sono trovato benissimo e il legame rimane forte. Sansepolcro e Gubbio sono le squadre del mio cuore, oltre al Milan per ciò che riguarda la Serie A, anche se il calcio lo seguo con meno passione rispetto a prima. Una volta smesso di giocare non ho voluto né allenare, né fare il dirigente. Mi sono dedicato a lavoro e famiglia e sono felice così. L’ultima gara che ho visto allo stadio è stata in Serie B qualche anno fa quando il Gubbio giocava con il Pescara guidato in panchina da Zeman e in campo da Immobile, Verratti e Insigne.
Giocando in difesa immagino che tu abbia segnato pochi gol. Ne ricordi qualcuno in particolare?
Forse nella mia carriera avrò segnato al massimo 10 gol quindi si fa presto a ricordarli. Ne ho in mente uno che realizzai a Castel San Pietro con la maglia proprio del Sansepolcro. Un tiro al volo da fuori aria con palla infilata all’incrocio opposto. Bello il gol e bella l’esultanza con un balletto che coinvolse tutta la squadra. Poi un altro nel primo anno di Gubbio. Giocavamo a Genzano, contro il Pro Cisterna in una gara che per loro era decisiva ai fini della vittoria del campionato e in un ambiente molto “caldo”. Loro andarono in vantaggio, io segnai il pari con un gol meraviglioso, sempre al volo di destro da fuori all’incrocio opposto. Io esultavo, ma nessuno dei miei compagni venne ad abbracciarmi. La partita poi finì 2-1 per loro.
Quali erano le tue caratteristiche migliori in campo?
Ero un difensore forte fisicamente e di testa, giocavo sull’anticipo, intuivo le doti migliori degli avversari e cercavo di limitarli, potevo ricoprire tutti i ruoli del pacchetto arretrato e non mi tiravo mai indietro. Non volevo perdere, davo sempre l’anima e mi trovavo bene nel gioco a zona. Il piede non era eccezionale e più che spingere la priorità per me era difendere. Fuori dal campo mi piaceva ridere e scherzare, ma durante gli allenamenti e la domenica no. Bisognava pedalare forte e io ero sempre sul pezzo. Ho fatto mia la frase che una volta pronunciò mister Giorgini. Un giornalista gli chiese cosa temesse della squadra che andavamo ad affrontare e lui rispose: “il problema non sono mai gli avversari, seppur forti, ma semmai i miei giocatori se avranno la testa tra le nuvole”. Aveva proprio ragione: molto dipende da noi e dalla nostra concentrazione.
Chi ti ha messo più in difficolta tra gli attaccanti affrontati?
Ne ho incontrati molti, ma quelli che mi hanno messo in difficoltà non sono stati poi tantissimi. Corrente del Casarano, Luiso del Sora e Hubner del Fano.
Come valuti la tua carriera calcistica?
Gli infortuni mi hanno penalizzato, ma fanno parte del gioco. Ho avuto un bel percorso e al calcio ho dato tanto. Sono felice di questo, delle esperienze vissute e delle persone incontrate. Direi che non è poco!