La dottoressa Isabelle Barciulli, originaria di Sansepolcro, nella sua vita non si è occupata solo di psicologia. Vanta infatti un passato nell’automobilismo sportivo, che l’ha vista diventare la prima donna a vincere un mondiale FIA dedicato alle energie alternative. Si è inoltre concessa più di un’occasione nel mondo della moda e del cinema prima di trasferirsi lontano dall’Italia una volta laureata. Vive in Australia da 5 anni, dove attualmente è psicologa nel settore assicurativo e si occupa della gestione del trauma in incidenti sul lavoro o in automobile.
In quale zona dell’Australia ti trovi e com’è la situazione?
Mi trovo a Sydney, nel Nuovo Galles del Sud, il soggetto federale più popoloso tra quelli che compongono l’Australia. Siamo in “fase 3”, usando la terminologia locale che indica la serietà della situazione in una scala di 4 livelli. Le scuole sono chiuse, il lavoro da casa è consigliato, ristoranti e bar sono chiusi, aperte solo farmacie, studi medici e supermercati. È consentito lo sport in solitaria. Le passeggiate sono permesse solo in due oppure fra stretti familiari. Matrimoni e funerali sono permessi con un massimo di 5 persone i primi e 10 persone i secondi.
Com’è la situazione nel resto del paese e come si sono mosse le autorità federali?
Tutti gli stati che compongono l’Australia sono in fase tre. Il governo centrale è stato lungimirante e si è mosso per tempo, avendo visto quello che era successo in Europa. Le restrizioni sono entrate in vigore gradualmente in circa tre settimane, cosa che ha permesso alla gente di abituarsi a lavorare da casa e non assaltare i supermercati. Nell’emisfero australe è estate, quindi qui sono chiuse anche le spiagge mentre i parchi sono aperti ma con divieto di assembramenti o pic-nic. I confini esterni all’Australia e tra i soggetti federali sono chiusi e possono essere superati solo per gravi e comprovate necessità.
Al momento nell’intero paese si sono registrati poco meno di 6.000 contagi e circa 40 morti. L’area più colpita è quella occidentale dove mi trovo io, ma del resto è anche quella maggiormente popolata.
Come sono cambiati la tua vita e i rapporti tra le persone?
La mia vita è cambiata ma non più di tanto. Io devo comunque lavorare in ufficio perché ho l’esigenza di incontrare una parte dei clienti faccia a faccia. Con altri, quelli che già seguo da tempo, posso colloquiare via “Zoom”, ma con quelli nella prima fase di trattamento è necessario l’incontro. Diciamo che circa un 70% sono seguiti da casa e un 30% di persona.
Le precauzioni sono le distanze di sicurezza e non le mascherine o i guanti. Mi reco al lavoro con il treno e di questi tempi ci sono spesso meno di tre persone a vagone, quindi è facile non stare vicini. Evito di toccare qualunque cosa e appena arrivata in ufficio mi lavo le mani. È evidente che le tecniche per seguire i pazienti da remoto non sono le stesse di quando li seguivamo di persona. Abbiamo dovuto reimpostare molte terapie basandosi molto di più sulla voce o sull’osservazione. Questi cambiamenti sulla terapia hanno un impatto molto grande, una nuova sfida ma anche l’occasione per sperimentare nuovi sistemi terapeutici. Diciamo che è una nuova ed imprevista fase esplorativa del mio percorso professionale.
È curioso che all’aumento della distanza fisica nei rapporti tra le persone si sia implementata la socialità via telefono o tramite le nuove tecnologie. Sento più spesso rispetto a prima la mia famiglia in Italia e con gli amici australiani tramite internet si praticano yoga, sport o semplicemente si condividono e commentano i contenuti della rete. Senza dubbio questo porta anche ad un affaticamento cognitivo perché ci si relaziona con gli altri solo attraverso dispositivi tecnologici. È sicuramente limitante ma del resto è l’unico modo per conservare una socialità.
Come reagisce la gente ai provvedimenti presi dalle autorità?
Le persone sono molto rispettose dei provvedimenti attuati e lo noto quando mi muovo per andare e tornare dal lavoro. Non c’è neppure particolare severità nel far rispettare le regole della fase 3, ma allo stesso tempo la gente ha perfettamente compreso l’importanza dei comportamenti preventivi. La paura di quello che sta succedendo in Europa gioca un ruolo determinante.
Come viene raccontata nei media la situazione in Italia e in Europa?
Viene raccontata in maniera fattuale ma con la sfumatura che bisogna correre ai ripari se non si vuole fare la fine del vecchio continente e soprattutto dell’Italia. Più volte ho dovuto spiegare ad amici e colleghi che l’Italia, contrariamente all’Australia, è densamente abitata e le dinamiche avute in Italia non sono paragonabili in nessun modo a quelle locali, anche grazie al fatto che molte azioni sono avvenute molto prima che la situazione potesse aggravarsi. I numero qui salgono come in tutto il mondo ma molto più lentamente che in altri paesi.
Come psicologa come analizzi quello che ci sta succedendo attorno?
Da professionista della salute mentale ammetto che questo è un periodo che genera stress da tanti punti di vista. Però è anche un periodo che può aiutare a riscoprire il significato della resilienza. Nel mio ambito lavoro molto con gli infortuni e traumi psicologici e sotto certi aspetti tutti stiamo vivendo qualcosa di simile.
In più c’è l’effetto di sentirsi tutti sulla stessa barca, sapere che in tutto il mondo tutti affrontiamo una situazione di disagio e che tutti si dovranno rimboccare le maniche per ripartire meglio che sarà possibile. Emerge già da ora la voglia di tornare a fare, ad esempio attraverso il lavoro, chi lavora negli ospedali deve avere più ruoli e anche stimolare la motivazione per aiutare a guarire prima. Vanno considerati non solo i lati negativi che la situazione globale porta con sé e non soffermarsi solamente sull’obbligo a isolarsi, sulle perdite di persone, del lavoro, sulla futura crisi economica.
In Australia abbiamo anche la consapevolezza di essere più fortunati di altri. C’è un’economia forte e una situazione sociale e sanitaria non paragonabile ad altri paesi che dovranno affrontare situazioni molto più difficili.