A quasi due mesi dall’inizio di quella che in Russia è chiamata “Operazione militare speciale” ed in Occidente “invasione dell’Ucraina” la situazione sembrerebbe essersi stabilizzata. Non intendo quella militare, che in un modo o nell’altro dovrà per forza avere delle evoluzioni, ma piuttosto vorrei analizzare l’aspetto comunicativo e il sentire comune in Russia. Come al solito lo faccio dal mio osservatorio privilegiato e continuo a ritenere che essere in Russia in un momento come questo sia un’esperienza importante della mia vita, perché mi permette di vedere ed ascoltare una serie di informazioni che in Europa non arrivano. Contrariamente a quello che molti possono pensare, ricevo anche tutte le informazioni dai media europei ed in particolar modo italiani. Non frequento le piazze e i bar, reali e virtuali, dell’Italia ma ho la fortuna di scambiare quotidianamente pensieri ed opinioni con amici, conoscenti, lettori di TeverePost e del canale Telegram “Cronache Tartare” che ho avviato in occasione di questa crisi internazionale.
Difficoltà a definire la verità
Fin dai primi giorni di conflitto ho posato la mia attenzione su due episodi non fondamentali per l’andamento militare di quello che sta succedendo tra Russia e Ucraina. Il primo era il carro armato che nel quartiere Obolon’ di Kiev investiva un’auto apparentemente di proposito. Il secondo era l’episodio della resistenza ucraina nella piccola Isola dei Serpenti. Sono stati i primi esempi di quello che avremmo potuto vedere nelle settimane a seguire e di come la guerra sul campo della comunicazione avrebbe contato di più di quella con i fucili.
Il carro armato di Obolon’, quartiere dove i russi non sono mai entrati con i propri mezzi militari, era ucraino ed accidentalmente investiva un’auto locale. In un primo momento veniva raccontata la violenza dei militari russi che schiacciavano di proposito un’auto con a bordo un semplice cittadino. Poi una volta verificato che il veicolo militare era ucraino è venuta fuori l’ipotesi che fosse stato rubato e guidato dai russi. Oggi sappiamo che i russi non centravano nulla con l’episodio ma nell’immaginario collettivo restano colpevoli.
Nella piccola isola al largo della foce del Danubio si è consumato un fatto ordinario in occasione di un conflitto bellico. La guarnigione di soldati inizialmente rifiutava di arrendersi e mandava a qual Paese, via radio, la nave russa che minacciava la piccola base ucraina. La sera stessa i tredici soldati ucraini diventavano degli eroi anche per aver sacrificato la vita senza arrendersi all’invasore. In seguito si è scoperto che si sono arresi senza un graffio, che hanno passato alcune settimane in Crimea e poi sono stati riconsegnati all’Ucraina. Ma ormai la storia ha fatto il giro del mondo e restano eroi al punto che è stato dedicato un francobollo al soldato che aveva risposto al messaggio radio russo. Poco importa anche che in realtà fossero circa ottanta e non tredici e che non abbiano affatto combattuto prima di arrendersi.
Queste due storie sono state soltanto alcune delle prime notizie usate come arma di consenso o di demonizzazione dell’avversario. Non entro sul tema dei fatti accaduti a Buča perché anche solo ipotizzare di aspettare l’esito di una inchiesta indipendente rischia di farsi etichettare come negazionista. Bianco o nero, filoucraino o filorusso, buono o cattivo, per il mondo della comunicazione è ormai troppo difficile accettare che possano esistere posizioni intermedie nell’interpretare i fatti. Le posizioni non schierate non servono alla causa, confondono e quindi è meglio classificarle come voce del nemico.
Telegram batte Facebook
Per la prima volta i social network assumono un ruolo decisivo nel formare le opinioni durante un conflitto bellico. Fermare o favorire un flusso informativo di una parte o dell’altra diventa fondamentale per indirizzare l’opinione delle masse. Facebook, Instagram e Twitter si sono da subito schierati contro la Russia e lo hanno fatto non solo bloccando account istituzionali o informativi legati a Mosca o impedendo la diffusione di messaggi a pagamento filorussi, ma soprattutto veicolando un’enorme serie di video di propaganda antirussa nei propri canali. Da qui la risposta russa di sospenderli temporaneamente sul proprio territorio. Molti diranno che con un semplice VPN si può aggirare il blocco e infatti tanti lo fanno, i più importanti “influencer” e molti russi continuano ad usare questi social. La differenza è che grazie al VPN, che si appoggia in paesi terzi, si aggira anche il bombardamento di notizie mirate per il pubblico russo.
Il social che sta aumentando di popolarità in tutto il mondo è Telegram grazie al fatto che attraverso i propri canali molti corrispondenti di guerra, giornalisti, media e esponenti politici, sia legati a Kiev che a Mosca, hanno la possibilità di comunicare liberamente tutto quello che vogliono. La maggior parte dell’informazione libera o di parte passa da Telegram senza alcun filtro, comprese le immagini raccapriccianti di quello che una guerra o “operazione militare speciale” produce. Nessun effetto cinematografico, neppure lo sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan si avvicina a ciò che circola sui social da quasi due mesi. Telegram aiuta a farsi un’idea più reale di quello che sta accadendo in ogni angolo dell’Ucraina, ma anche della Siria o dell’Afghanistan. Abbondano i canali filoucraini o filorussi, ma soprattutto ci sono anche tanti freelance, alcuni di essi italiani, che fanno un ottimo lavoro e spesso sono più preparati di chi da uno studio televisivo a duemila chilometri dal fronte pretende di raccontare quello che accade.
Eroi solo a casa propria
Tutti si ricordano Marina Ovsjannikova, giornalista del primo canale della televisione russa che irruppe con un cartello durante l’edizione serale di Vremja, il telegiornale russo più seguito. L’Occidente ha lodato la donna per il coraggio della propria azione; in Ucraina invece in un primo momento si è pensato che la cosa fosse organizzata per mostrare come in Russia sia tollerato il dissenso e in un secondo momento si è accusata la Ovsjannikova di non essere nella posizione di prendere le distanze da tutto quello che aveva fatto fino a poche ore prima, ovvero collaborare con la tv di stato russa. Al soldato ucraino Roman Hrybov, autore della già citata risposta offensiva nei confronti della nave russa che chiedeva di arrendersi alla guarnigione dell’Isola dei Serpenti, è stato dedicato un francobollo per il valore simbolico del suo gesto. Qualcuno sottolinea che, non avendo in realtà il gruppo di soldati opposto alcuna resistenza, la vicenda stona nei confronti di un qualsiasi soldato morto in battaglia difendendo la terra ucraina.
Infine la babuška ucraina con la bandiera rossa la cui identità è al momento sconosciuta raccontata da un video Telegram girato proprio dall’esercito ucraino. La storia è da subito diventata molto popolare in Russia, al punto di vedere comparire murales in molte città e addirittura una statua. Ovviamente in occidente ed in Ucraina la vicenda resta sconosciuta. In un villaggio non noto dell’Ucraina, probabilmente lungo la linea del fronte, due soldati ucraini portano cibo ad una famiglia di anziani. La signora, convinta di avere a che fare con i russi, esce di casa e li accoglie come liberatori con la bandiera dell’Unione Sovietica. Gli ucraini prendono in giro la nonna, consegnando comunque il cibo, prendendo la bandiera e calpestandola. La signora, compresa la situazione, restituisce il cibo e rimprovera i soldati dicendogli che stanno calpestando la bandiera per la quale sono morti i suoi genitori.
Il curioso ruolo della simbologia sovietica nel conflitto
Come è noto l’Unione Sovietica non esiste più dalla fine del 1991, ma nella narrativa di questa guerra è tornata ad avere un ruolo centrale e non sempre in modo lineare. Nel discorso di Putin dedicato al riconoscimento delle repubbliche di Doneck e Lugansk viene identificata come il soggetto politico che avrebbe fatto nascere l’Ucraina come la conosciamo oggi e che quindi gli ucraini dovrebbero essere grati a Lenin e compagni di poter oggi avere un proprio territorio. Al contrario l’Ucraina è impegnata, da dopo il 2014, ad un’opera di cancellazione di tutto ciò che ricorda l’Urss. Con la legge di “decomunistizzazione” negli ultimi anni città e strade hanno cambiato nome, le statue di Lenin sono state abbattute, il partito comunista messo fuori legge, l’uso della simbologia sovietica vietata e perfino i programmi scolastici cambiati declassando il russo, parlato in gran parte del Paese, a lingua straniera e cambiando radicalmente la storia fino a quel momento studiata sui libri scolastici.
In alcune dichiarazioni i politici ucraini hanno riportato l’origine della propria statualità alla breve esperienza pre-sovietica dell’entità ucraina esistita nella parte occidentale del Paese tra la rivoluzione russa e la nascita dell’Unione Sovietica, per poi definirsi “occupati” da una potenza straniera nella lunga epoca sovietica. La cosa è piuttosto paradossale poiché gran parte dei territori sotto la sovranità di Kiev sono realmente stati assegnati in epoca sovietica, e affondare le proprie radici a periodi storici precedenti e disconoscere il periodo sovietico come legittimo significherebbe dare la possibilità a tutti i Paesi confinanti di rivendicare i territori persi in favore di Kiev. Oggi, con il conflitto in corso, la tendenza a criminalizzare il periodo sovietico è ulteriormente aumenta aggiungendo l’equiparazione Urss uguale Russia. Con questo si è arrivati a bandire tutti i partiti politici, ben presenti nel parlamento di Kiev e rappresentanti nei collegi uninominali di molte aree dell’est e del sud del Paese, che abbiano avuto posizioni di dialogo verso la Russia. Vengono abbattute le statue e rinominate strade e scuole dedicate a scrittori di origine russa, praticamente quasi tutti, dato che fino alla seconda metà XIX secolo la letteratura ucraina non aveva un’importante diffusione.
Quello che impressiona di più l’opinione pubblica russa è l’abbattimento delle statue dei generali sovietici e dei memoriali delle vittime della Seconda guerra mondiale, una cosa insensata e della quale non si fa molto pubblicità in occidente. L’Urss ha avuto tra il 1941 e il 1945 circa ventisei milioni di morti a causa della guerra dei quali, secondo alcune fonti, almeno otto milioni erano ucraini tra civili e militari. Allo stesso tempo l’esaltazione del mito di Stepan Bandera, guida dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini e dell’Esercito insurrezionale ucraino, complice della deportazione di migliaia di ebrei ucraini e polacchi e della guerriglia contro l’Armata Rossa, è uno dei temi che lascia stupita la popolazione russa e nell’indifferenza la comunità internazionale.
Un altro aspetto che colpisce molto è il tentativo ucraino di disfarsi della storia sovietica nonostante l’Ucraina abbia avuto un protagonismo assoluto nel corso dei settanta anni di vita della federazione. Oltre alla vittoria della Seconda guerra mondiale e alla guida politica del paese per quasi trenta anni, grazie a due segretari etnicamente ucraini come Chruščëv (1953-1964) e Brežnev (1964-1982), gli ucraini hanno contribuito ai principali successi aerospaziali e tecnologici dell’Unione Sovietica. Non trascurabile il contributo dato dagli sportivi ucraini nelle competizioni internazionali, individuali o di squadra, quando i due Paesi erano ancora sotto la stessa bandiera. Come già scritto in altre occasione, cinema e musica non sfuggivano alla logica del vivere insieme con l’uso della lingua russa utilizzata anche dopo il 1991 proprio per indirizzare il proprio lavoro artistico al mercato più ricco e più grande dello scomodo vicino.
Proprio per tutta questa serie di dinamiche e il rifiuto dell’esperienza sovietica russi e soldati delle repubbliche popolari di Doneck e Lugansk fanno largo uso sia della bandiera sovietica sia, una volta insediatisi nei territori conquistati, del ripristino della toponomastica, dei memoriali della Seconda guerra mondiale e in qualche caso anche delle statue di Lenin.
Sono anche questi gli elementi che contribuiscono a rafforzare il sostegno di oltre quattro russi su cinque all’operato della propria classe dirigente. L’apparente inefficacia, almeno per ora, delle sanzioni, la resistenza del rublo e le posizioni univoche del mondo europeo e statunitense contribuisce a rafforzare un sentimento nazionale di difesa che con il proseguire del conflitto tende ad aumentare. Allo stesso tempo c’è la consapevolezza che il mondo non è più unipolare e la certezza che una grossa fetta di popolazione del pianeta continuerà a lavorare con la Russia se non addirittura a sostenerla in questa “missione” di multipolarizzazione del pianeta. Di questo aspetto in Europa si parla troppo poco, continuando ad ascoltare le voci che arrivano da Washington e non tutelando gli interessi della popolazione europea.