Nel giorno di oggi di oltre 450 anni fa, il 24 marzo 1571, fu battezzato a Sansepolcro Pompeo Giovanmaria Signorucci, compositore che nel corso di una pur breve esistenza seppe ritagliarsi un posto di rilievo nella storia della musica.
Definito per la leggiadria delle sue note “dolce cigno”, operò principalmente proprio nella città natale, dove però con ogni probabilità non fu apprezzato come meritava: se ne lamenta il concittadino e coevo Simeone Siri in un componimento poetico a lui dedicato: “il Borgo tuo […] poca stima facea di te”, scrive rivolgendosi al musicista. E lo stesso Signorucci nel 1603 se la prende con “alcuni malevoli”, il cui numero è “hoggidì […] quasi infinito”, che manifestano “l’ignoranza loro […] col biasimare hora una fuga, hora un passaggio” e che si fanno “giudici di quelle cose delle quali appena hanno imparato li primi principi”. Questi elementi, insieme al fatto che di lì a poco Signorucci avrebbe lasciato Sansepolcro, fanno concludere alla musicologa umbra Catiuscia Marionni che il musicista “poteva aver avuto al Borgo dei problemi”.
Proprio il volume del 2004 di Marionni, intitolato O che felice incontro e dedicato al Primo libro dei Madrigali a cinque voci di Signorucci, raccoglie in apertura le non troppe informazioni biografiche reperibili sul nostro. Dopo quella relativa al battesimo, la prima attestazione è del 1590, quando Pompeo, diciannovenne, era già sacerdote e venne nominato maestro di grammatica dal governo cittadino. Succedette al defunto don Taddeo Guazzi e venne eletto col voto espresso tramite 14 lupini bianchi, favorevoli, e solo uno nero, contrario.
L’incarico venne confermato due volte nei mesi successivi, ma già nel giugno 1591 Signorucci chiese di esserne dispensato per motivi di salute. Da quell’anno è attestata una continuativa collaborazione con la Confraternita di Misericordia in qualità di organista, ruolo che svolse anche presso il Duomo, dove insegnava inoltre grammatica, musica e “humanità”. Nel frattempo venne pubblicata la sua prima composizione, inserita in una raccolta edita a Venezia nel 1594 e curata dal biturgense Gasparo Torelli, che in seguito sarebbe diventato superiore dell’Accademia degli Avveduti di Padova. A Sansepolcro Signorucci collaborò anche con la Confraternita di San Bartolomeo, rivestendo il ruolo di cappellano di San Nicolò in pieve, oggi Sant’Agostino.
Le prime opere pubblicate a nome di Signorucci sono del 1602, anche queste stampate a Venezia. Dalle dediche di questi lavori si desume il rapporto di Pompeo con il cardinale Pietro Aldobrandini e con un nobiluomo perugino di cui non si hanno altre notizie, che con buona probabilità ebbe il ruolo di introdurre il nostro nell’ambiente di Perugia e in particolare presso la prestigiosa Accademia degli Unisoni, di cui Signorucci fece parte. Da altre due opere dell’anno successivo si traggono ulteriori informazioni, come la volontà del compositore di servire il concittadino Ventura Venturi, divenuto priore di San Lorenzo a Firenze, nella speranza di trovare in quella città maggiori opportunità. Nello stesso contesto compaiono i testi che sottolineano lo scarso feeling di Pompeo con la città natale.
Le notizie successive risalgono poi alla fine del 1607, quando Pompeo divenne cappellano dell’altare della Madonna di Sotto gli Organi e maestro di cappella della Cattedrale di Pisa. Nell’anno successivo risultò però spesso assente da quella città, sia perché tornava periodicamente a Sansepolcro, sia perché ammalato. In quel periodo fece ancora in tempo a pubblicare un nuovo lavoro, ma le precarie condizioni di salute lo condussero alla dipartita di lì a poco, e precisamente il 15 novembre 1608, a 37 anni di età. La morte avvenne a Sansepolcro, e il musicista fu sepolto in vescovato.
La fama di cui godette in vita Signorucci è attestata dal fatto che parlò di lui in ben due opere l’illustre musicista dell’epoca Adriano Banchieri e che suoi brani furono inseriti in varie raccolte degli anni successivi. La sua riscoperta risale poi a un convegno organizzato nel 1979 dall’Università degli Studi di Perugia dedicato ai “compositori umbri del Cinquecento e del Seicento”, da cui avrebbe preso le mosse lo stesso lavoro di Catiuscia Marionni citato in precedenza.