Fu a Livorno che il 21 gennaio 1921 venne proclamata la nascita del Partito Comunista d’Italia. Sulla città toscana era concentrata l’attenzione internazionale fin dal giorno 15, quando si erano aperti i lavori del XVII Congresso del Partito Socialista. Le giornate dedicate ai lavori congressuali furono turbolente: d’altra parte era chiaro dall’inizio che il PSI, che fino ad allora aveva rappresentato unitariamente le masse lavoratrici nel nostro Paese, sarebbe uscito diviso da Livorno. O ne sarebbe stata espulsa l’ala destra, riformista, guidata da Filippo Turati, o ne sarebbe fuoriuscita l’ala sinistra, comunista, quella di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci. La fase non rendeva possibile la convivenza delle due correnti dentro lo stesso partito. La prima guerra mondiale aveva compromesso molti partiti socialisti e socialdemocratici (ma non quello italiano), che avevano appoggiato le cause nazionali dei rispettivi governi, portando al tracollo dell’Internazionale socialista. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, i bolscevichi marcarono la differenza cambiandosi nome, da Partito operaio socialdemocratico a Partito comunista russo, e promuovendo la nascita dell’Internazionale Comunista. Proprio il II Congresso del Comintern, tenutosi in Russia nel 1920, aveva inserito tra le condizioni di adesione all’organizzazione l’espulsione dei riformisti. Da qui la crisi nel Partito italiano, all’interno del quale vi era una forte minoranza riformista che andò a comporre una delle “frazioni” congressuali. Dall’altro lato i comunisti, che chiedevano il rispetto delle condizioni del Comintern e quindi l’espulsione di Turati e dei suoi sostenitori. In mezzo la maggioranza massimalista di Giacinto Menotti Serrati. Anche questa frazione si definiva comunista, ma aggiungendo l’aggettivo “unitaria”: lavorava cioè per cercare di coltivare i rapporti con Mosca salvando al tempo stesso il legame con i riformisti.
Nella settimana di congresso furono tantissimi gli inviati di giornali italiani e stranieri che seguirono l’infuocato dibattito. Ne furono protagonisti anche i rappresentanti del Comintern, che dovevano essere il presidente Grigorij Zinov’ev e Nikolaj Bucharin, ma ai due russi fu negato il visto d’ingresso. Vennero perciò sostituiti dal bulgaro Christo Kabakčiev e dall’ungherese Mátyás Rákosi, che perorarono con intransigenza la causa dei comunisti. Senza successo: alla fine la maggioranza decise di non espellere i turatiani (sarebbe tuttavia avvenuto un anno e mezzo più tardi). Dopo la votazione la frazione comunista abbandonò il Teatro Goldoni, dove si svolgevano i lavori, per insediarsi al Teatro San Marco e dare vita a quello che inizialmente si chiamò “Partito Comunista d’Italia – Sezione dell’Internazionale Comunista”. Era il giorno di oggi di cento anni fa.
Da allora e fino al XX Congresso del PCI – che nel 1991 voltò pagina dando vita al Partito Democratico della Sinistra – si sviluppò una lunga storia che ben presto si scontrò con l’avvento del regime fascista. Arrivarono quindi l’attività clandestina, poi il protagonismo nella Resistenza e nella costruzione dell’Italia repubblicana. Quindi la lunga stagione all’opposizione a livello nazionale e al governo di tanti territori. Anche in Valtiberina, come in gran parte dell’Italia centrale, il PCI svolse per decenni un ruolo di primissimo piano. Proprio ad alcuni esponenti della politica locale passata e presente TeverePost ha chiesto un commento sulla ricorrenza odierna e sull’eredità della storia e della tradizione del Partito Comunista in Italia.
Del Furia: “Avevi sempre sullo sfondo l’ideale da raggiungere”
Il nostro primo interlocutore è Ivano Del Furia, esponente storico del PCI e sindaco di Sansepolcro dal 1976 al 1988, che ha posto l’accento sull’organizzazione strutturata del partito: “Era una macchina che ti formava: cominciavi da pioniere, poi entravi nella Federazione dei Giovani Comunisti, poi a 21 anni, con la maggiore età, entravi a tutti gli effetti nel Partito Comunista e via via potevi avere sempre più responsabilità, diventare assessore, stare vicino al sindaco che ti guidava, e poi diventare sindaco a tua volta. Era un percorso serio, non come adesso, che invece di iscriversi ai partiti ci si iscrive direttamente alla segreteria e che i sindaci vengono trovati per strada. D’altra parte questa è la storia dei partiti del Novecento, ma per il Partito Comunista, che concettualmente era un po’ come una chiesa, valeva in modo particolare”.
Un’altra differenza che Del Furia coglie con il presente è quella della progettualità: “Avevi sempre sullo sfondo l’ideale da raggiungere. Non si poteva ottenere subito quello che sognavamo, ma cercavamo di andare per quella strada passo passo, anche facendo compromessi. Il progetto politico che elaboravi per una campagna elettorale locale lo costruivi tenendo conto di questo ideale e del progetto del partito. La casa a tutti, il lavoro a tutti, l’istruzione a tutti: partivi da questi concetti e su queste basi dovevi realizzare il programma amministrativo. E allora anche il progetto della tua città nasceva dalla tua idealità, tenendo conto dei bisogni dell’uomo incastonati in questo disegno. E allora il piano dell’edilizia popolare, le zone industriali, il villaggio sportivo, c’era tutto ma con una concezione diversa da oggi, che era quella di progettare una società. Anche nella costruzione della città di Sansepolcro non si può dire che non ci sia un sentimento disegnato da questo Partito Comunista, quello italiano, che ha saputo essere parte di un movimento internazionale ma con le proprie idee di società, diverse da quelle del partito sovietico”.
Mollicchi: “Dal dibattito di Livorno idee che ancora oggi influenzano la politica italiana”
Parlando della “scissione di Livorno”, e quindi dell’origine della spaccatura tra PSI e PCI, non poteva mancare il contributo di un esponente del socialismo locale. Per Franco Mollicchi “quella del 1921 fu una pagina molto importante della storia della sinistra e del socialismo in Italia, tanto che da quel dibattito, da quello scontro, si sono sviluppate idee che ancora oggi influenzano la politica italiana. Lo scontro reale avvenne sul partito guida – puntualizza – c’era chi diceva che bisognava fare di Mosca il partito guida e chi diceva no, e su questo si unirono i massimalisti e i riformisti. Non fu solo una questione di come implementare il socialismo”. Mollicchi ricorda che “il marxismo all’epoca era particolarmente importante nella cultura italiana, nel dibattito, nelle lotte operaie. Quello che a me un po’ dispiace – commenta – è che si pensa che ne fu protagonista solo la tradizione comunista, invece ne fu protagonista l’intero movimento socialista, operaio e contadino”.
“La sinistra italiana laica, riformista e marxista – prosegue Mollicchi – ha contribuito nel dopoguerra a un grande progresso e sviluppo del paese e ha movimentato la scala sociale attraverso scelte politiche come lo Statuto dei diritti dei lavoratori o il presalario all’università, che ha consentito a molti figli di operai, di contadini, di persone non abbienti di diventare classe dirigente. Dispiace che oggi chi ne ha beneficiato magari sostiene le cosiddette scuole di eccellenza, le università private e quant’altro”. “Un’eredità del PCI in senso stretto – dice ancora Franco Mollicchi – secondo me non c’è più: i dirigenti del Partito comunista non hanno eredi perché avevano un senso dello Stato, un senso della politica e una visione dell’uomo, giusta o sbagliata, che era lungimirante, di prospettiva. Il loro obiettivo era realizzare una società giusta, come lo era per i socialisti e per la sinistra riformista e liberale (non in senso economico). Oggi non c’è più la missione dello Stato nel costruire la giustizia sociale. Quando mai la tradizione comunista o quella socialista avrebbero accettato di privatizzare servizi essenziali per la qualità della vita come l’acqua?” Per un esempio sul tema Mollicchi ricorda Emanuele Macaluso, dirigente del PCI recentemente scomparso: “È una persona con cui la mia appartenenza si è sempre scontrata, ma oggi dobbiamo prenderlo ad insegnamento come uomo solido, di grande struttura morale, che aveva dei valori in cui credeva fermamente e non aveva problemi a dire le cose che riteneva giuste, che portassero consenso o no. Questo è il grande esempio che dovremmo prendere oggi quando la ricerca del consenso prevale sulle convinzioni e sulla realtà dei fatti, in danno alla società in cui si opera”.
Andreini: “Un pezzo di storia che ha tante cose da dirci”
TeverePost ha sentito anche Chiara Andreini, segretaria del PD di Sansepolcro: “Il Partito Democratico nasce da due storie – ha detto – quella del Partito Comunista e quella della Democrazia Cristiana, che si sono unite e hanno trovato una sintesi proprio negli aspetti sociali che sono sempre stati frutto di dialogo tra questi due partiti e soprattutto tra alcune aree di questi due partiti. Io credo che il lascito più grande del Partito Comunista nel PD ma in generale in Italia sia la nostra Costituzione, apertamente antifascista. Il Partito Comunista è stato in prima linea nel combattere il fascismo con ogni mezzo e si è formato proprio nell’antifascismo, nella lotta dura, aspra al totalitarismo italiano. Questo ha trovato la sua sintesi nella nostra Carta costituzionale, frutto di un grande lavoro corale di uomini straordinari che avevano vissuto momenti drammatici e che sono poi stati in grado di ricostruire insieme il Paese. Nella Carta costituzionale ci sono secondo me due passaggi particolarmente importanti, il diritto a un lavoro dignitoso per tutti e il superamento delle differenze sociali, che apre a tutti la possibilità di accedere a un’istruzione pubblica di qualità e a cure sanitarie, di aver diritto ad una casa”. Andreini evidenzia poi “una visione che è incarnata anche nel PD, quella secondo cui non si può essere felici e vivere una vita serena se gli altri non sono nelle stesse condizioni. E quindi lo Stato deve aiutare a superare le barriere e dare a tutti la possibilità di esprimersi al meglio delle proprie potenzialità”.
Inoltre, la segretaria del PD pone l’accento sulla “visione internazionale del PCI, che non si concentrava solo sulla questione italiana ma abbracciava tutto il mondo in un’idea di cambiamento radicale verso una società più giusta e più equa, nella quale si progredisce e si progredisce tutti insieme”. Il riferimento finale è a Berlinguer e alla sua “scelta europeista forte che è anche quella del Partito Democratico”. “Su questi pilastri si fondano i principi e i valori del Partito Democratico – conclude Andreini – e ricorrenze come questa dei 100 anni dalla fondazione del Partito Comunista possono essere molto utili anche per rileggere insieme un pezzo di storia: che anche adesso che stiamo vivendo momenti difficili ha tante cose da dirci, grazie all’esempio di chi da prospettive diverse si è messo insieme per scrivere la Costituzione e per dare nuova speranza e nuova vita ad uno Stato che era completamente distrutto”.
Il PRC di Sansepolcro: “Senza partiti comunisti di massa meno tutele per i lavoratori”
Il circolo “XIX Marzo” di Rifondazione Comunista di Sansepolcro ha invece dedicato un lungo comunicato stampa al centenario del Partito Comunista d’Italia, che “per tanti decenni è stato l’anima politica, economica e sociale di questa regione”. La nota ripercorre la storia del partito fino al suo scioglimento, che “ha impoverito notevolmente il tessuto politico italiano”. Per quanto riguarda l’ambito locale, per il PRC “è impossibile non riconoscere ai comunisti molte delle importanti azioni che hanno permesso a Sansepolcro e alla Valtiberina di raggiungere un benessere ed una pace sociale invidiabile da molte altre realtà territoriali italiane. A Sansepolcro – si legge nel comunicato – siamo l’ultima realtà politica comunista organizzata dotata di una sede e una presenza istituzionale, anche se al momento all’interno di una lista civica, Insieme Possiamo, con cui è in atto un percorso di collaborazione. I comunisti a Sansepolcro sono sempre stati presenti nelle Istituzioni dalla fine del fascismo ad oggi – ricorda il PRC – Oggi, nonostante la maggior parte dei membri del circolo di Sansepolcro di Rifondazione Comunista non abbia potuto militare nel PCI per questioni anagrafiche, crediamo di esserne eredi senza ripudiare alcun aspetto di quella storica esperienza politica. Nel nostro caso chiamarsi compagni e sentirsi comunisti è un preciso senso di appartenenza e di rispetto per le nostre radici storiche”. La nota sottolinea l’imperativo di “continuare a portare avanti un’idea e tramandarla alle giovani generazioni”, in un’epoca in cui “i lavoratori dipendenti, parte di quelli autonomi, le partite IVA e perfino i piccoli imprenditori vivono un processo di sfruttamento con dinamiche simili a quelle individuate da Marx ed Engels”. Mentre “lentamente ed inesorabilmente si sono smontate sia le tutele che la solidarietà tra lavoratori – scrive Rifondazione – va rifondato il rapporto umano, e uno spazio politico comunista serve anche a questo: la scomparsa di un Partito Comunista di massa, sia in Italia che nel mondo, ha corrisposto ad un impoverimento della capacità delle classi lavoratrici di aiutarsi reciprocamente e di avere una tutela politica nelle Istituzioni”.
Le immagini sono tratte dal libro Sessanta anni nella storia, a cura di Luciano Gruppi, 1981.