Damiano Lanzi, 32enne di Sansepolcro, è un polistrumentista (“ma l’unico strumento su cui ho avuto una formazione scolastica è il basso”, spiega, “gli altri li suono da autodidatta”) ed è l’anima del progetto Lenz, rispetto a cui non va tuttavia dimenticato il ruolo della misteriosa quanto indispensabile “percussionista e producer” Lidia Manzano. I Lenz compiono quest’anno dieci anni di attività: si sono formati infatti nel 2010, raccogliendo l’eredità dei Paranoia Go Go, “Si trattava di un gruppo nato sull’onda del revival post-punk e new wave di quegli anni”, ricorda Damiano, “e in realtà molti dei primi pezzi dei Lenz – una buona metà del primo album De Fault del 2013 – erano brani dei Paranoia Go Go”.
Quali sono le influenze dei Lenz?
“Il post-punk, il post-rock, la musica alternativa anni ’80-’90, con una componente abbastanza importante di industrial per quanto riguarda le ritmiche, che spesso sono marziali, e la parte elettronica. La forma canzone è quasi folk, nel senso che molte delle mie canzoni hanno un giro di accordi e una melodia molto semplice, anche immediata, tanto è vero che spesso dal vivo suono da solo con la chitarra acustica, sono canzoni che si possono suonare anche semplicemente con una chitarra strimpellata in allegria. Però quello che di solito voglio fare è fondere questo aspetto con un lavoro di produzione elettronica, di innesti elettronici o di effetti synth. Mi piace molto l’aspetto della produzione di un contenuto musicale, quindi di essere più produttore che musicista, lavorare con i suoni, con gli effetti, creare un sound personale”.
Come si è evoluto il progetto in questi dieci anni di attività?
“Partiamo dal fatto che i miei album sono tutti registrati nel mio studio personale, quindi è una sorta di home recording, una registrazione fatta con mezzi comunque professionali ma non in uno studio di registrazione, visto che la tecnologia ormai offre diverse possibilità per registrare anche in casa. Sul primo album, De Fault, ero un po’ alle prime armi con questo metodo di registrazione, se si esclude l’album dei Gordon Cole, che è un altro gruppo su cui ho suonato. Quindi sicuramente si è trattato di un album un po’ più rozzo dal punto di vista sia della registrazione che della forma canzone. Fino a quel momento ero stato abituato a suonare in gruppi, quindi a provare i pezzi in sala prove, a confrontarmi con altre persone sulla struttura, anche a vedere banalmente se un pezzo fila tutto insieme, se ha una sua coerenza, una sua completezza. Lavorando da solo questo è un po’ meno immediato, perché magari ti metti lì, metti un beat di batteria, poi ci suoni sopra una cosa, magari dopo ci metti la chitarra e ti rendi conto che il tempo è troppo lento, o troppo veloce, oppure stratifichi tutta una serie di arrangiamenti e poi il pezzo finito è un guazzabuglio di sonorità incoerenti. Quindi riascoltando a posteriori De Fault, per quanto sia ancora affezionato ai pezzi, ci trovo un po’ di immaturità stilistica”.
Discorso diverso per Time Spent Together.
“L’ultimo album, uscito a fine 2019, per ora è un lavoro di cui sono più soddisfatto, è più organico, spesso e volentieri con un arrangiamento più semplice: ho fatto ricorso molto meno a sintetizzatori e molto più a strumenti suonati dal vivo, chitarre, bassi. È un album un po’ più diretto, più genuino, che ancora mi piace. Ancora sono abbastanza soddisfatto del risultato, poi dopo tendo sempre col tempo a perdere un po’ di affezione per i lavori passati, a rinnegarli un po’, perché di solito prendo sempre una direzione diversa. Tra l’altro nel periodo lockdown ho di fatto finito anche la composizione del terzo full length album dei Lenz, ho registrato le demo e spero di registrare la versione definitiva dell’album dopo l’estate. Con tempi più rapidi del solito: almeno una cosa positiva data dal lockdown è stata la possibilità di lavorare in studio e scrivere questo album, che già è molto diverso da Time Spent Together”.
Da quali punti di vista?
“Sono mediamente pezzi più lunghi e più matematici, in un certo senso, quindi ritmiche con metriche dispari, irregolari, cambi di tempo frequenti, un po’ più progressive. Direi che è un album anche un po’ più duro come suoni, con più chitarre distorte. Forse è nato un po’ tutto dalla delusione parziale dell’album dei Tool che è uscito nel 2019. È uno dei miei gruppi preferiti, e come tutti i fan dei Tool sanno, il tempo di attesa medio tra un album e l’altro è di 15 anni. Ho aspettato per tantissimo tempo quello nuovo e mi ha lasciato un po’ con l’amaro in bocca”.
Vuoi fare l’album che avresti voluto dai Tool?
“No, questa è una pretesa un po’ eccessiva, il mio è molto più semplice. Però voglio provare a fare qualcosa di un pochino più… non dico virtuoso perché è fatto con un approccio do it yourself e non virtuosistico, però un po’ meno immediato, più strano all’ascolto, più criptico. Questo disco vuole simboleggiare un credo che si manifesta attraverso la costruzione di un tempio. Anche perché con il lockdown ora non si potrà più andare a suonare in giro e bisognerà inventare qualcos’altro per esprimere al meglio un album e un progetto. Quindi l’idea è quella di creare un album e anche un tempio, un mausoleo, un qualcosa di questo genere. Nella copertina dell’album e nell’artwork ci saranno i progetti del tempio che simboleggia questo disco, da costruire su una montagna qui sopra la nostra valle oppure, se non ci danno i permessi da queste parti, pensavo a uno di quei paesini del Lazio un po’ rurali, un po’ abbandonati, dove penso che ce lo faranno fare sicuramente. Penso a un’opera in granito, fortemente simbolica”.
Qual è il tema di questo credo?
“Ogni canzone rappresenterà una rinuncia a un atteggiamento negativo, a qualcosa di tossico che possiamo sperimentare nei rapporti con gli altri oppure nel modo in cui ci rapportiamo ai beni materiali o al mondo in generale. E questa rinuncia porta parallelamente a una ricompensa, ad acquisire qualcosa di positivo e di elevante per l’individuo. Ho inteso l’album come una sorta di percorso di formazione per raggiungere un ideale morale, un ideale di pace zen con il mondo, che si potrebbe raggiungere appunto in un tempio. Tutto è nato da un mio sogno ricorrente: spesso mi capita di visitare questa struttura, che ha di volta in volta fattezze diverse. Spesso sono sogni lucidi in cui mi so muovere all’interno di questa struttura, e in qualche modo al risveglio cerco di capire quali simbologie ci può aver messo dentro il mio inconscio e di elaborarle in qualche modo. È un progetto un po’ ambizioso, ancora l’impianto tematico è in una fase un po’ embrionale, però ci si arriverà”.
Se ho capito bene l’idea è quella di costruire il tempio anche materialmente.
“Sì, ci dovrà essere l’album, l’artwork con i progetti, e poi il coronamento dell’opera sarebbe la costruzione di questo tempio. Visto che tra Time Spent Together e quest’album presumibilmente ci sarà un tempo breve – mentre anch’io sono abituato a far passare molto – così tra questo e quello dopo bisognerà aspettare che abbia finito di costruire il tempio, quindi ci potranno volere anche 20 anni!”
Tornando alla tua produzione precedente, la maggior parte delle tue canzoni sono in inglese o in altre lingue, e comunque non in italiano. Che tipo di ragionamento c’è alla base di questa scelta?
“A me piacerebbe molto anche scrivere in italiano, tra i miei ascolti ci sono anche i cantautori italiani, soprattutto De André, De Gregori, che ascoltavo fino da piccolo perché mia madre ne era appassionatissima, Vecchioni. Sono molte le canzoni che sono rimaste nella mia memoria, però mi sembra che confrontarsi con questo tipo di precedenti sia veramente pericoloso. De André penso che sia uno degli autori più attuali che ci sia mai stato in Italia. Anche quando parlava di attualità ha sempre saputo renderla in qualche modo al di fuori del momento storico, leggibile anche ai giorni nostri e probabilmente interpretabile, in maniera diversa, anche tra 50 anni. Cosa che invece il cantautorato attuale italiano non riesce secondo me a fare, e quindi per scrivere in italiano dovrei trovare una forma di scrittura che mi soddisfacesse. Forse un giorno ci arriverò ma non è ancora questo il momento. L’inglese è sicuramente più semplice a livello metrico e crea un po’ quella barriera tra l’ascoltatore e l’autore che scherma l’immediatezza della comprensibilità del testo. Fa sì che l’autore abbia una libertà più completa di essere onesto con sé stesso e di scrivere cose che in italiano magari non riuscirebbe a mettere nero su bianco con la stessa facilità. Alla fine se uno il testo lo legge capisce benissimo il significato, però è come se l’autore si potesse preoccupare di meno di mettere a nudo quello che vuole dire”.
Nell’ultimo album c’è anche un pezzo in francese.
“Sì, è O Dieu, Père des Humbles, ma non l’ho proprio scritta io, è stata elaborata da un santino della Beata Nennolina che ho trovato anni fa a Civita di Bagnoregio. Era scritto in francese e suonava bene così. Cogliere le occasioni del caso spesso mi affascina nel processo di scrittura come nell’artwork dei lavori. Quando percepisci che qualcosa che stai vivendo può essere un’ispirazione allora non va lasciata scappare, va in qualche modo fissata. Anche la copertina di De Fault era una foto fatta in Slovenia a una statua equestre. Qualcuno aveva appoggiato una felpa sul muso del cavallo e se l’era dimenticata lì. Dall’angolazione in cui l’avevo vista io, sembrava che avessero messo un velo sul muso del cavallo, che provasse vergogna. L’immagine in quel momento mi illuminò e sentii che dovevo farci qualcosa”.
Tra quelle scritte finora, qual è la tua canzone che ti piace di più?
“Sicuramente tra quelle già pubblicate la traccia che dà il titolo all’ultimo album, Time Spent Together, è forse quella a cui sono più legato, quella della cui resa finale sono più contento. Sia per le tematiche che sono affrontate – l’ho scritta proprio in un periodo in cui c’era bisogno di mettere nero su bianco quella storia di cui si parla, e quindi è stata una canzone anche catartica; sia perché dopo averci lavorato tantissimo e avere cambiato più volte l’arrangiamento sono molto soddisfatto del risultato. Anche grazie a Michele Pazzaglia, il fonico che ha lavorato a tutti i miei album ma che su quella canzone ha fatto veramente un lavoro difficile, perché è un pezzo molto lungo, con molte sezioni diverse, con tantissime tracce. Gli ho fatto cambiare mix tantissime volte, ma alla fine il risultato era quello che volevo. Su quel brano non avrei accettato niente di meno”.
Ci hai detto che il blocco per il Covid ti ha aiutato a scrivere il prossimo album, ma gli effetti dell’emergenza sono per lo più negativi, in particolare sulla musica dal vivo. Che scenario vedi?
“Sulla musica dal vivo l’impatto è stato grande. Lo vedo su di me, il lockdown è stato pochi mesi dopo l’uscita dell’album, avevamo fatto in tempo a fare un concerto di presentazione a dicembre alla CasermArcheologica di Sansepolcro, che era andato molto bene e ci aveva dato buone speranze anche per la risposta del pubblico. Quindi volevamo cercare altre date e promuovere l’album in maniera più estesa, anche perché avevamo trovato una buona formazione dal vivo con cui ci divertivamo a suonare. E invece poi è arrivato il fermo totale dell’attività. Dopo, durante il lockdown ci sono stati anche tanti musicisti che hanno fatto esibizioni in casa, ma sinceramente quel movimento mi dava un po’ di tristezza. Rispetto chi lo ha voluto fare per espressione personale o anche semplicemente per avere un supporto economico, però è chiaro che è un ripiego. Mi piacerebbe che la musica dal vivo tornasse come era prima, non so se è un pensiero nostalgico e un po’ ingenuo, anche perché probabilmente in tempi brevi non riusciremo a suonare o vedere un concerto con la stessa spensieratezza e voglia di fare festa di prima. Ma mi piacerebbe che si tornasse il prima possibile a vedere un concerto – che è uno dei piaceri più intensi della vita – in maniera tranquilla”.
Invece sono molte le realtà in difficoltà.
“Molte realtà che fanno musica dal vivo per forza di cose si trovano in difficoltà estreme, soprattutto quelle che fanno proposte più alternative, e quindi hanno un giro minore di pubblico e fanno pagare biglietti non così salati come i concerti più importanti. Probabilmente molti saranno costretti a smettere di fare musica dal vivo, e saranno proprio le realtà più alternative e più indipendenti. Questa la vedo come una cosa grave, perché si perde tutta una scena, tutta una serie di persone con esperienza sul campo, penso anche a chi lavora nel settore degli impianti, dei service audio. Se queste persone non riescono a ripartire con la loro attività saranno costrette a fare qualcos’altro nella vita e si perderà tutto un bagaglio di esperienza di locali, di persone che lavorano nell’intrattenimento, e paradossalmente continueranno ad esserci i superconcertoni che costano tantissimo. Ormai negli ultimi anni sono diventati quasi un intrattenimento per ricchi, anche i festival che una volta erano cose per giovani sono diventati un passatempo di lusso, un intrattenimento di élite. Quello rimarrà anche dopo il coronavirus, invece la musica indipendente rischia di avere una battuta d’arresto forte”.
Tutte le immagini sono state concesse da Damiano Lanzi.