Guerra alle porte o solo schermaglie diplomatiche?

Per la stampa occidentale la Russia sarebbe a un passo dall'invadere l’Ucraina. La realtà è molto più complessa e non viene raccontata seriamente quasi mai. Sullo sfondo anche la crisi del gas

Kiev, monumento di epoca sovietica all'amicizia tra i popoli ucraino e russo. Foto E.C.

Da alcune settimane il tam tam informativo in Occidente riporta come la guerra tra Russia e Ucraina sia pronta ad esplodere al punto che il presidente statunitense Biden e quello russo Putin si sarebbero videoincontrati solo per parlare di questo. Mosca viene dipinta come quasi ansiosa di mettere le mani su Kiev, ma raramente si cerca di approfondire cosa sia già successo negli ultimi anni e cosa stia accadendo ora. Inutile ribadire che per poter comprendere le situazioni bisogna farsi un’idea ascoltando entrambi i contendenti e quando possibile andare a comprendere il problema direttamente sul posto. Spesso chi scrive su questo tema non è mai stato nelle zone al centro delle attenzioni internazionali o forse si è limitato a visitare Kiev in un viaggio aereo. Aver attraversato l’Ucraina da parte a parte più volte, aver soggiornato in Donbass ed in Crimea quando ancora sventolava la bandiera ucraina è per me un grande privilegio, che mi ha aiutato a capire meglio le dinamiche di queste complicate parti del mondo. Allo stesso modo poter leggere e comprendere i media occidentali e russi aiuta a farsi un’idea delle ragioni delle due parti.

Storia dell’Ucraina

I confini odierni dell’Ucraina sono frutto di ampliamenti territoriali in epoca sovietica. La fine del grande stato comunista ha congelato le linee di demarcazione così come erano state disegnate nei decenni passati. Come in altre aree dell’ex Urss milioni di persone si sono trovate dall’oggi al domani ad avere difficoltà ad attraversare quelli che prima erano semplici confini amministrativi divenuti improvvisamente limiti tra due nazioni.

Circa tre secoli fa l’area dell’attuale Ucraina era divisa in tre diverse entità. La parte più occidentale era sotto l’influenza lituana e polacca per poi finire nell’orbita dell’Impero austro-ungarico. Quella più orientale faceva parte dell’Impero russo. Quella a sud, comprendente l’intera costa sul Mar Nero, era sotto il controllo dell’Impero ottomano. Durante il regno di Caterina II la Russia scacciò i turchi e prese possesso di tutto il meridione compresa la penisola di Crimea. In questo periodo i russi fondarono la città di Odessa come importante porto senza la problematica del ghiaccio in inverno. L’Ucraina che conosciamo sulle carte geografiche completa la sua forma dopo le due guerre mondiali, quando i confini della Polonia furono spostati più ad ovest permettendo l’annessione di vaste aree fino ad allora non sotto il controllo sovietico. In mezzo a tutto ciò anche l’occupazione tedesca e la controffensiva dell’Armata Rossa che lasciarono sul campo otto milioni di persone tra cui moltissimi ebrei deportati nei campi di concentramento nazisti. L’ultimo ritocco, decisamente rilevante per la storia futura, fu il passaggio della Crimea dalla Russia all’Ucraina nel 1954 in occasione dei trecento anni dell’unione tra Russia e Ucraina. Se questo non bastasse, andando indietro di mille anni, proprio a Kiev nacque lo stato russo.

Francobollo dedicato al 50° anniversario della Repubblica socialista sovietica ucraina (1967)

L’Ucraina in epoca sovietica era la seconda nazione più popolosa dell’Unione e con un potenziale agricolo e industriale molto importante. Da qui vennero numerosi leader sovietici, scienziati, atleti, artisti. L’integrazione di gran parte della popolazione era reale, anche se va tenuto conto di alcune aspetti. Nell’ovest del paese continuò, anche dopo la seconda guerra mondiale, un movimento indipendentista che con azioni di guerriglia e terrorismo rivendicava l’indipendenza dell’Ucraina o perlomeno dei territori occidentali che avevano tradizioni e lingua diverse dal russo. In effetti tuttora oggi la lingua ucraina, unica lingua ufficiale dello Stato, è parlata prevalentemente ad ovest e nord, mentre il russo è l’idioma più utilizzato nel meridione e a oriente. Kiev si trova al centro di tutto questo e oltre all’utilizzo delle due lingue la popolazione parla una sorta di lingua ibrida tra il russo e l’ucraino.

Dopo l’indipendenza del 1991, per circa dieci anni il Paese è stato guidato da una classe politica che professava equidistanza dalla Russia e dall’Europa. Nella società si andavano affermando due tendenze: quella filo-europeista principalmente nelle zone occidentali e settentrionali, quella filorussa a sud ed a est. Divisioni figlie della storia con in mezzo vasti territori, Kiev compresa, dove vivevano persone di entrambe le sensibilità. La polarizzazione geografica di quanto raccontato si evince in modo chiaro dai risultati elettorali dei partiti che guardavano più verso l’Europa, che vincevano sempre nelle aree occidentali, e di quelli orientati su Mosca che naturalmente ottenevano i migliori risultati nelle zone dove era forte la popolazione di lingua russa. Varie elezioni nazionali hanno portato all’alternanza di governi attivi verso l’integrazione europea o tendenti a fare accordi con Mosca.

Maidan e conseguenze

Nel novembre del 2013 il presidente considerato filorusso Viktor Janukovič decide di non prorogare l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea di fatto riavvicinando il paese alla Russia. Nella piazza principale di Kiev la gente manifesta contro questa scelta. Nel corso delle settimane le proteste diventano un presidio permanente e nel corso dei mesi porteranno a violenti scontri, numerosi morti, la cacciata del presidente ed elezioni anticipate. Per l’Europa e gli Stati Uniti è il trionfo della democrazia, per la Russia è un colpo di stato.

Il consiglio comunale di Kiev trasformato nel quartier generale della rivolta, dicembre 2013. Foto E.C.

Nelle settimane successive alla fuga di Janukovič le regioni orientali e la Crimea, storici serbatoi di voti dell’ex presidente, si ribellano alle nuove autorità di Kiev. In Crimea e nella città di Sebastopoli i governi locali, supportati da milizie russe in parte presenti nelle basi militari in affitto dall’Ucraina e in parte arrivate per l’occasione e ben accolte da parte dalla popolazione, dove è sempre stata largamente maggioritaria l’etnia russa, prima dichiarano l’indipendenza dall’Ucraina e poi con un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale chiedono di essere annessi alla Federazione Russa, cosa che puntualmente avviene.

I soldati ucraini presenti nella penisola disertano in massa e vengono arruolati nell’esercito di Mosca, mentre altri preferiscono essere riportati in Ucraina. In molte città orientali vengono presi d’assalto i palazzi del potere locale e vengono proclamate delle repubbliche secessioniste. Se le azioni a Charkov e Odessa vengono fermate, i bacini carboniferi di Doneck e Lugansk resistono al ritorno dell’esercito di Kiev. Inizia una guerra civile che si fermerà solo in occasione degli Accordi di Minsk tra fine 2014 e inizio 2015. Da allora la situazione è rimasta congelata con la Repubblica Popolare di Doneck e la Repubblica Popolare di Lugansk che si sono proclamate indipendenti dall’Ucraina e che sopravvivono grazie all’appoggio economico della Russia.

Una barricata a Kiev durante le proteste di Euromaidan, dicembre 2013. Foto E.C.

Oggi in Crimea

Nonostante sia continuamente al centro di dibattiti internazionali e oggetto di sanzioni verso la Federazione Russa, in Crimea si respira normalità e la situazione è migliore rispetto ad altre zone dove il conflitto è in atto. Sebbene il passaggio alla Russia sia privo del riconoscimento internazionale di fatto la penisola è pienamente sotto il controllo russo. Moneta, targhe automobilistiche, leggi applicate, sistema di tassazione e fuso orario sono quelli di Mosca. È stato costruito un ponte stradale e ferroviario che consente un collegamento diretto con la Russia e le località turistiche sono tornate ad essere popolate ogni estate grazie ad un forte e incentivato esodo turistico da parte di vacanzieri russi. Il fatto che la maggior parte della popolazione abbia voluto il passaggio dall’Ucraina alla Russia è un fatto indiscutibile.

Alcune organizzazioni di tatari della Crimea, la popolazione turcofona che viveva nella penisola prima dell’arrivo degli slavi tre secoli fa, denunciano invece che i loro diritti non sarebbero rispettati e che preferivano vivere nella Crimea ucraina.

Sicuramente Mosca negli ultimi anni ha investito fortemente nelle infrastrutture dei trasporti (ponte, autostrada, nuovo aeroporto di Simferopoli) ed è in corso d’opera la risoluzione del problema maggiore dopo il distacco dall’Ucraina, quello dell’approvvigionamento idrico, dato che Kiev ha chiuso il principale canale che portava l’acqua del fiume Dnepr in Crimea. Nonostante siano stati allestiti dei posti di blocco sul confine terrestre tra Crimea e Ucraina non è possibile per la maggior parte delle persone, soprattutto stranieri, attraversarli.

Celebrazioni a Mosca per il secondo anniversario dell’annessione della Crimea, marzo 2016. Foto E.C.

Oggi nel Donbass

Se in Crimea non è stato quasi sparato alcun colpo durante la crisi di primavera 2014, nella regione del Donbass, nei territori delle regioni di Doneck e Lugansk c’è stata una cruenta guerra che ha visto molte vittime sia tra i civili che i militari. Il congelamento del conflitto ha visto le due realtà cominciare a dipendere in modo sempre più diretto dalla Russia. Molti si sono rifugiati proprio nella Federazione per poter lavorare e allo stesso tempo la Russia ha permesso a tutti gli abitanti delle due repubbliche di poter avere il passaporto russo. La moneta usata a Doneck e Lugansk è il rublo russo. Il confine tra Doneck e Lugansk con l’Ucraina è di difficile attraversamento mentre quello con la Russia è più permeabile ed è diventato un cordone ombelicale con Mosca.

A distanza di sette anni dagli accordi di Minsk gli unici progressi reali sono stati la non ripresa della guerra su larga scala e lo scambio dei prigionieri. I principali nodi irrisolti per la completa attuazione dei protocolli riguardano il controllo delle frontiere esterne e la mancanza, da parte ucraina, dell’approvazione di una legge che garantisca autonomia ai territori contesi. Da quando il comico Volodymyr Zelens’kyj ha stravinto le elezioni presidenziali ucraine prendendo il posto di Petro Porošenko e prediligendo l’azione diplomatica, la situazione continua ad essere in completo stallo se non per l’aumento periodico di presenze militari ai confini da ambo le parti, e scaramucce di lieve entità contribuiscono all’allungamento della lista di morti e feriti causati dal conflitto.

Il precedente georgiano

Quello che accadde tra Russia e Georgia nell’estate del 2008 è utile a comprendere meglio gli scenari futuri possibili e perché nessuno ha interesse a ripetere tale esperienza. Durante la disgregazione dell’Unione Sovietica due aree geografiche della Georgia proclamarono a loro volta l’indipendenza dalla repubblica dove si ritrovarono. Abcasia e Ossezia del sud non ne vollero sapere di far parte della Georgia post sovietica.

Tra il 1992 e il 1993 scoppiarono dei conflitti tra ribelli e governo di Tbilisi che portarono all’indipendenza di fatto delle due realtà. La situazione rimase congelata, con a presidiare il cessate il fuoco un contingente russo, georgiano, abcaso e osseto, fino all’estate 2008, quando in coincidenza con l’apertura dei giochi olimpici di Pechino il presidente georgiano Saakashvili ordinò di attaccare l’Ossezia per ripristinare l’integrità territoriale della Georgia.

La resistenza degli osseti e soprattutto l’intervento della Russia in loro difesa portò ad una rapida guerra dove i georgiani furono sbaragliati. La Russia occupò temporaneamente le città di Poti e Gori e fermò la propria avanzata a pochi chilometri dalla capitale. Successivamente una mediazione dell’Unione Europea portò la Russia al ritiro e la Georgia all’impegno che non avrebbe tentato nuove azioni di forza verso le due repubbliche ribelli. A fine conflitto la Russia decise in modo unilaterale di riconoscere l’indipendenza di Abcasia e Ossezia ed intrattenere rapporti diplomatici con le due nazioni.

Soldati ceceni del battaglione russo Vostok in Ossezia del Sud nel 2008. Foto Jana Armelina (CC BY-SA 3.0)

La posta in gioco alle porte dell’Ucraina

Le concentrazioni di soldati russi nei pressi dei confini ucraini sono un tormentone più volte ascoltato nel corso degli ultimi anni. Non che il tema non sia reale, anzi da parte russa non c’è alcuna smentita, ma viene ribadito che si tratta di normali movimenti di truppe all’interno dei propri confini. Se la retorica occidentale sostiene come la Russia sia pronta da un momento all’altro ad invadere mezza Ucraina, i russi mettono l’indice sul fatto che in questi anni l’esercito di Kiev sia stato armato con efficienti strumenti da parte del mondo occidentale e ultimamente anche con i droni turchi risultati determinanti nel recente conflitto in Nagorno-Karabakh. In sintesi ad Occidente si fa presente che la Russia può invadere da un momento all’altro, ad Oriente si ribadisce che l’Ucraina si sta armando per riprendersi le aree ribelli. Essendo la popolazione di Doneck e Lugansk prevalentemente di etnia e ultimamente anche di passaporto russo, non solo il Cremlino ma gran parte dell’opinione pubblica russa ritiene che in caso di attacco ucraino la Russia debba supportare i propri connazionali. Complessivamente la grande maggioranza dei russi è convinta che l’Ucraina vada aiutata a liberarsi di una classe politica incapace e che porterà Kiev ad allontanarsi sempre di più da quello che è considerato il proprio bacino naturale, il mondo slavo.

Sulla pelle delle popolazioni delle due aree ribelli si gioca anche una partita molto più grande, ovvero l’eventuale espansione dell’Alleanza atlantica fino alla porte della Russia. Su questo tema a Mosca è molto in voga ricordare gli impegni che Gorbacëv, quando era presidente dell’Unione Sovietica, prese in occasione della riunificazione tedesca. Lo stesso Nobel per la pace, da sempre più popolare in occidente che in patria, ricorda ancora oggi che al ritiro delle basi sovietiche nei Paesi dell’Europa orientale, questi non avrebbero dovuto venire inglobati nella Nato e costituire una minaccia per Urss ed eredi legali. Ad oggi la Nato ha assorbito tutti i Paesi che un tempo erano del Patto di Varsavia oltre alle tre repubbliche baltiche che erano parte integrante dell’Urss.

Nel periodo successivo allo scioglimento dell’Unione Sovietica la Nato si è di fatto trasformata da un’alleanza con puri scopi difensivi ad uno strumento di attacco. Lo dimostrano gli scenari dove si è impegnata negli ultimi decenni, come l’intervento in Jugoslavia, Afghanistan o Libia, tutti Paesi che non avevano di certo attaccato le nazioni della Nato e quindi non potevano aver fatto scattare la clausola che tutti devono collaborare alla difesa del Paese colpito. L’intervento in Iraq del 2003 formalmente non avvenne sotto l’egida Nato, anche se la gran parte dei paesi aderenti presero parte al contingente internazionale. Georgia e Ucraina, seppure con intensità diverse a seconda della leadership politica di turno, chiedono di entrare a far parte dell’Alleanza atlantica, cosa che la Russia non è intenzionata ad accettare passivamente. La Nato circonda la Russia sia a sud con la Turchia, a nord-ovest con i Paesi Baltici, mentre a nord la presenza della Norvegia e la relativa vicinanza a Canada e Stati Uniti porta comunque ad un alto livello di attenzione.

Nel recente colloquio Putin-Biden è emersa la necessità della Russia di confrontarsi con i paesi Nato su quello che viene definito lo spazio vitale, ovvero non avere i missili puntati a soli cinque minuti di volo da Mosca, oltre ad essere smentita categoricamente l’intenzione di attaccare militarmente l’Ucraina.

A proposito di impegni disattesi, è necessario citare anche quello relativo al Memorandum di Budapest del 1994 quando Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti, a seguito della rinuncia ucraina alla parte di arsenale nucleare sovietico ereditato, si fecero garanti della sicurezza di Kiev, con la Russia che avrebbe trasferito e smaltito le testate nucleari. Spesso l’Ucraina ricorda ai tre paesi che questo impegno non è stato mantenuto.

Il prezzo del gas a contorno del dibattito politico-militare

Spesso viene utilizzato il termine “finlandizzazione” per spiegare cosa vorrebbe esattamente la Russia. Questa parola nasce dagli accordi successivi alla seconda guerra mondiale tra Unione Sovietica e Finlandia. La seconda era stata per anni parte dell’Impero russo e indipendente dalla fine del 1917. Dopo la guerra che vide i finlandesi creare diversi problemi ai sovietici venne stabilito che lo stato scandinavo sarebbe rimasto neutrale senza aderire a nessuno dei due schieramenti post bellici. L’impegno fu considerato da Mosca talmente serio che venne restituita ad Helsinki, dopo appena undici anni, la sovranità sulla strategica base marina di Porkkala che sarebbe dovuta rimanere in mano sovietica per almeno cinquanta anni. Un discorso molto simile riguarda l’Austria che a fine guerra fu occupata sia dai sovietici che dagli anglo-americani. L’occupazione fu tolta in cambio della neutralità permanente e dell’impegno a non cercare una futura riunificazione con la Germania. La neutralità di Austria e Finlandia diminuirono i chilometri di confine diretto in Europa tra Nato e Patto di Varsavia, permettendo ad entrambe le parti di militarizzare e controllare una minore parte di territorio.

Quello che oggi la Russia chiede è qualcosa di simile, in modo che la creazione di stati cuscinetto o la demilitarizzazione di zone definite le permettano di sentirsi meno minacciata. In tutto questo a fare da sfondo c’è la crisi del gas che sta caratterizzando l’autunno europeo e che indirettamente è un tassello di questa dinamica. Le maggiori forniture di metano arrivano in Europa dalla Russia, che ha costruito il gasdotto sotto il mar Baltico per ridurre i quantitativi di gas naturale che oggi transitano dall’Ucraina. Il collegamento diretto dalla Russia alla Germania abbasserebbe i costi agli europei ma toglierebbe un’importante entrata al governo di Kiev. Proprio su questo si concentra l’ostilità degli Stati Uniti che però non possono fornire direttamente alternative energetiche all’Europa. Il metano in questa fase di transizione energetica è una delle risorse meno inquinanti e quindi più ricercate, e la Cina è già da tempo attiva sul mercato russo ed intercetta parte di questi quantitativi.

Una guerra tra Russia e Ucraina vedrebbe una serie di conseguenze anche in questo settore. L’Europa dovrebbe pagare il gas ancora di più rispetto al prezzo attuale, l’Ucraina rimarrebbe in pieno inverno senza riscaldamento, la Russia perderebbe commesse economiche importanti per il proprio bilancio statale, oltre al costo di vite umane elevato da entrambe le parti. Parte di queste conseguenze dovrebbero far comprendere che Mosca non ha alcun interesse a fare la prima mossa. Resta il fatto che in Ucraina c’è un livello di conflittualità politica esplosiva sia tra le fazioni europeiste che tra quelle filorusse. Il vero rischio è che scoppi un problema interno al paese slavo e che possa portare ad ulteriore instabilità politica. Su questo la Russia probabilmente non resterebbe inerte e neppure gli Stati Uniti, mentre l’Europa, da sempre divisa sulla politica estera, faticherebbe a trovare un posizione unitaria. Proprio l’Europa dovrebbe essere protagonista della distensione degli animi, in quanto soggetto che da un conflitto in Ucraina avrebbe di più da perdere.

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