Gorizia tra tragedie e paradossi della geopolitica

La storia del confine orientale attraverso sanguinose battaglie e repressioni (con testimonianze in Valtiberina), strade, piazze e cimiteri divisi, partite di pallavolo e gioco d'azzardo. Fino al Covid che ha fatto tornare per due mesi la “cortina di ferro”

Il piazzale della Transalpina dal lato italiano. Sullo sfondo la stazione, in Slovenia

Per quasi due mesi, a causa delle problematiche relative al Covid-19, la parte toscana della Valtiberina è rimasta divisa da quella umbra. Un confine tra due regioni che, come abbiamo più volte raccontato nelle nostre pagine, è figlio di dinamiche storiche che hanno coinvolto quelli che fino a 160 anni fa erano degli Stati sovrani. Ma nella storia i valtiberini non sono sicuramente il popolo più noto ad essere rimasto diviso da un confine. Il caso più emblematico è probabilmente quello di Berlino, la cui popolazione è stata separata da un confine per circa 45 anni, e per 30 addirittura da un muro. Oggi Berlino è tornata una città unita e amministrativamente parlando è un solo comune, oltre che un Land federale tedesco. Anche al confine italiano c’è stata, e sotto alcuni punti di vista c’è ancora, una Berlino. Neppure tanto piccola, visti i circa 40.000 abitanti totali di Gorizia e Nova Gorica, in Slovenia. Durante la fase centrale dell’epidemia gli accessi tra la parte italiana e quella slovena sono stati di nuovo chiusi: per la precisione l’intero confine, completamente permeabile da fine 2007 grazie all’ingresso dello stato sloveno negli Accordi di Schengen, è tornato ad essere temporaneamente invalicabile, anche più di quanto non lo fosse in epoca in cui tra Italia e Jugoslavia i rapporti non erano ottimali.

Storia di un confine da sempre discusso

Dopo l’unità d’Italia e la terza guerra d’indipendenza il confine tra il Regno d’Italia e l’Austria-Ungheria (la Jugoslavia era ancora ben lontana dal nascere) vedeva l’odierno Trentino-Alto Adige e parte della provincia di Udine e quelle di Gorizia e Trieste fare ancora parte dell’Impero asburgico. Tuttora oggi dispersi nella campagna attorno a Palmanova è possibile incontrare cippi di confine in buone condizioni che portano la data del 1911, ovvero quando una commissione bilaterale si occupò di piccole modifiche. Tra l’Italia e Gorizia c’erano circa 15 chilometri e il fiume Isonzo. All’inizio della Prima Guerra Mondiale quella manciata di chilometri fu percorsa con enormi perdite da parte del Regio Esercito. Gorizia divenne italiana nell’estate del 1916 per essere persa di nuovo a fine 1917 dopo la disfatta di Caporetto. Il crollo dell’Impero Austro-Ungarico e la fine della Grande guerra nell’autunno del 1918 permisero all’Italia di avanzare oltre ogni aspettativa ben oltre Gorizia. Tra le conseguenze del collasso austriaco ci fu la nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che in seguito assumerà il nome di Jugoslavia. Con questo nuovo soggetto giuridico internazionale venne definito il confine che vide l’Italia, grazie al Trattato di Rapallo prima (1920) e quello di Roma poi (1924), riuscire ad entrare in possesso di Gorizia, l’intera valle dell’Isonzo, Trieste e l’attuale territorio sloveno fino a Postumia, l’Istria, la città di Fiume, molte isole del litorale dalmata e Zara, che diventò un’enclave italiana all’interno della Jugoslavia. Gli anni tra le due guerre videro particolari problematiche per le minoranze etniche slave che vivevano nei nuovi possedimenti italiani. La repressione culturale e linguistica nei loro confronti fu cruenta con arresti, deportazioni ed esecuzioni. In Valtiberina abbiamo tracce di queste tristi storie sia nell’ex Campo di internamento fascista di Renicci che nel Sacario jugoslavo del cimitero di Sansepolcro.

Cippo del 1911 sul confine italo-austriaco

La Seconda guerra mondiale segnò ulteriormente la storia del confine orientale. Se nella prima fase l’Italia si espanse fino a comprendere Lubiana, ulteriori territori della Dalmazia, Albania, Montenegro e parte degli attuali Kosovo e Macedonia, dopo l’Armistizio del 1943 la gran parte dei territori passò sotto il diretto controllo dell’ex alleato germanico. In questa parte di mondo la guerra venne vinta dall’Esercito di liberazione jugoslavo, che arrivò anche ad occupare per quasi due mesi Trieste e Gorizia. Questa volta le persecuzioni avvennero verso gli italiani, portando ad esecuzioni sommarie e al trasferimento in Italia di numerosi esuli. I nuovi equilibri internazionali resero la Jugoslavia non più un regno ma una Repubblica federale socialista. La definizione del confine divenne un tema delicato e che fu completamente risolto in tre tempi con il Trattato di Parigi del 1947, con gli accordi di Londra del 1954 e, molto tempo dopo, con quello di Osimo del 1975. Trieste tornò all’Italia ma tutta l’Istria e la Dalmazia passarono alla Jugoslavia. Stessa sorte per la valle dell’Isonzo e per parte della città di Gorizia, che visse la situazione più surreale.

Collocazione delle urne al Sacrario degli Slavi di Sansepolcro nel 1973 (imm. orig. Museo della Resistenza, pubblico dominio)

La Berlino italiana

Sette diverse bandiere hanno sventolato sul Castello di Gorizia tra il 1915 e il 1945. Questa volta per una bandiera italiana che riprende a sventolare sulla parte più antica della città c’è una bandiera con una stella rossa che sventola nei sobborghi orientali. La divisione del territorio di Gorizia vede la Jugoslavia prendersi circa il 60% del territorio comunale, poca popolazione, circa il 15%, ma molte importanti infrastrutture. La più importante è la linea ferroviaria che di fatto, restando in Jugoslavia, segna il confine tra le due nazioni. La piazza davanti alla stazione resta divisa a metà, con l’edificio dove arrivano e partono i treni in terra slava e le strade che arrivano in quella piazzetta in Italia. Prima una linea di gesso disegnata sulla polvere della piazza, poi un rotolo di filo spinato ed infine un muretto con una rete metallica segnano la divisione. Il Muro di Gorizia è in realtà una rete di ferro alta circa un metro e mezzo, sufficiente a separare una città e la sua popolazione. La stazione, che oggi ospita un interessante museo sulla storia del confine, faceva mostra di una grande stella rossa naturalmente visibile sul lato italiano del confine, accompagnata della scritta in lingua slava “Noi costruiamo il Socialismo”.

La stella rossa che campeggiava sulla stazione di Nova Gorica, ora all’interno del museo

Nasce Nova Gorica

Di fatto alla Jugoslavia era stata assegnata la gran parte della provincia storica di Gorizia, ma senza il centro urbano dell’antica città. A ridosso del confine, e in modo di costruire un collegamento urbano tra le frazioni di Gorizia passate sotto il governo di Belgrado, fu dato il via alla costruzione di Nova Gorica, Nuova Gorizia. Molta della popolazione arrivata ad abitare il nuovo insediamento proveniva non solo dalla Slovenia ma da molte zone dell’allora Jugoslavia. La città ebbe uno sviluppo urbanistico moderno e caratterizzata dal classico stile socialista, ma non mancarono interessanti costruzioni che diedero la possibilità a prestigiosi architetti ed urbanisti di realizzare le proprie fantasie. Per Tito Nova Gorica doveva apparire come lo specchio dell’efficienza del sistema socialista jugoslavo. Il risultato ottenuto e il contrasto urbano tra le due Gorizie costituiscono ancora oggi un elemento di grande interesse.

La rete di confine

Per alcuni anni dopo la fine della guerra la situazione rimase molto tesa, con enormi difficoltà a passare da una parte all’altra della città. Successivamente furono introdotti dei lasciapassare destinati alle due comunità e questo ravvivò le reciproche economie. Molti venivano in Italia per comprare vestiti e prodotti di uso quotidiano spesso non abbondanti in Jugoslavia, mentre gli italiani si spostavano oltre confine per comprare benzina, sigarette, alcolici e carne a prezzi molto convenienti. Al centro di Gorizia un solo valico di frontiera, di fatto simile al Check Point Charlie berlinese, aveva la qualifica di “internazionale”, ovvero aperto a tutti i cittadini di qualsiasi paese, mentre numerosi erano i valichi di seconda categoria aperti ai soli goriziani, e quelli agricoli, che permettevano di lavorare i terreni rimasti a cavallo del confine. Ci sono anche foto di partite di pallavolo tra i due lati del muro, oltre a racconti di palloni non sempre restituiti dalla guardie incaricate di controllare il confine.

Il Sabotino e la Strada di Osimo

Considerato “Sacro alla Patria”, il monte Sabotino divenne zona monumentale già nel 1922. Alto poco più di 600 metri, è posizionato in una zona strategica che su un lato domina la piana friulana e Gorizia, mentre sull’altro controlla lo stretto inizio della valle dell’Isonzo. Fu un punto chiave delle battaglie della Prima guerra mondiale e cercare di conquistarne la vetta costò enormi tributi di sangue. Per l’Italia una delle beffe degli accordi del secondo dopoguerra fu il passaggio della parte sommitale della montagna alla Jugoslavia, ma il Trattato di Osimo del 1975 modificò il confine del Sabotino riportando la vetta sotto la sovranità italiana. In cambio l’Italia costruì una strada che taglia in due la montagna e permette il collegamento di Nova Gorica con il Collio sloveno, accorciando di molti chilometri l’unico percorso all’epoca possibile. La particolarità della Strada Internazionale di Osimo è che poco più di un chilometro e mezzo passa in territorio italiano senza essere di fatto controllato dall’Italia, da cui non è accessibile. Alcuni cavalcavia permettono il superamento della strada collegando la parte superiore del Sabotino con il resto dell’Italia. Sul lato meridionale della montagna, poco oltre i cippi che delimitano l’Italia, su un prato che guarda verso Gorizia e Nova Gorica si trovava una enorme scritta NAŠ TITO, il nostro Tito, realizzata con pietre. Dopo il 1991 più volte è stata vandalizzata, rimossa, modificata, ma tuttora oggi la scritta guarda verso le due città limitandosi alla sola parola TITO.

Il cimitero di Merna

Quella del cimitero di Miren, Merna in italiano, pochi chilometri a sud di Gorizia, è forse una delle situazioni più assurde della divisione successiva agli accordi di Parigi del 1947. All’art. 3, punto 7 si legge:

Allontanandosi dalla ferrovia, la linea quindi piega a sud-ovest, lasciando alla Jugoslavia la città di San Pietro ed all’Italia l’ospizio e la strada che lo costeggia ed a circa 700 metri dalla stazione di Gorizia-S. Marco, taglia il raccordo ferroviario fra la ferrovia predetta e la ferrovia Sagrado-Cormons, costeggia il Cimitero di Gorizia, che rimane all’Italia, passa fra la Strada Nazionale n. 55 fra Gorizia e Trieste, che resta in Italia, ed il crocevia alla quota 54, lasciando alla Jugoslavia le città di Vertoiba e Merna, e raggiunge un punto situato approssimativamente alla quota 49”.

Queste fredde parole furono il vangelo delle truppe alleate che tracciarono la linea di confine provvisoria, e nel caso del paesino di Merna significava tagliare in due il cimitero. La linea era puramente geometrica e il risultato fu che perfino alcune tombe divennero internazionali. Anche in questo caso prima fu il gesso, poi il filo spinato e infine cippi e barriere ad aiutare i frequentatori del luogo a capire come non superare il limite del proprio Stato. Solamente gli accordi di Osimo del 1975, applicati due anni dopo, misero fine a questa assurdità ridisegnando il confine attorno al cimitero e passandolo in Jugoslavia. Tuttora oggi è conservata la linea di confine in mezzo alle tombe in modo da ricordare quello che successe tra il 1947 e il 1977.

Gorizia oggi città quasi aperta

Gli eventi ad inizio estate 1991 furono drammatici anche nelle due Gorizie, con l’obiettivo di controllare i posti di confine che portò a severi scontri tra la neonata polizia slovena e l’Esercito federale jugoslavo. Sparatorie ed incendi coinvolsero giocoforza anche la parte italiana, che dovette accogliere i primi profughi proprio tra coloro che lavoravano alle dogane. Per la Slovenia il conflitto durò appena dieci giorni, poiché il vero campo di scontro sarebbero diventate la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. Scalpellini e addetti alla segnaletica dovettero lavorare intensamente per sostituire il nome Jugoslavia con quello Slovenia nella cartellonistica e pure in ogni cippo di confine. La Slovenia, favorita anche da un coinvolgimento davvero minimo nella crisi che portò alla dissoluzione della Jugoslavia, intraprese un rapido cammino di integrazione europea. Fin dagli anni ottanta era già possibile andare in Jugoslavia con la sola carta d’identità, cosa naturalmente proseguita con la Slovenia, che nel 2004 entrò a far parte dell’Unione Europea. I controlli di confine, seppure poco severi, rimasero fino a fine 2007, quando furono completamente aboliti.

Immagini della rimozione del confine

Per Gorizia e Nova Gorica il dicembre del 2007 rappresenta in piccolo il novembre berlinese del 1989. Tutti i punti di passaggio del confine vengono aperti senza limitazioni tra cittadini locali e non residenti. In alcuni punti la barriera divisoria viene smantellata e finalmente anche il Piazzale della Transalpina si unisce alla propria stazione ferroviaria. Nella cerimonia svoltasi nella piccola piazza i sindaci delle due città abbattono personalmente le recinzioni. Nascono linee di trasporto urbano tra le due città e si ampliano le iniziative culturali per legare sempre di più le due realtà. I vantaggi economici di una volta ormai sono molti limitati, essendo il prezzo di benzina e sigarette in Slovenia abbastanza vicino ai livelli che troviamo al di qua del confine, mentre mantengono tuttora oggi una buona attrattiva verso i clienti italiani le molte strutture dedicate al gioco d’azzardo. Se il casinò era nato già negli ultimi anni del periodo jugoslavia, fu negli anni novanta, quindi già in Slovenia, che il settore esplose, accompagnandosi ad un intenso movimento legato al mondo della prostituzione.

Fino a pochi mesi fa sembrava impossibile che un qualsiasi tipo di evento potesse riportare tra le due città le divisioni del passato. Italia e Slovenia sono entrambi nell’Unione Europea e nella Nato, e quindi per far tornare le divisioni sembrava necessaria una discreta fantasia in grado di dipingere scenari imprevedibili. Non politici o militari, ma il Covid-19 è riuscito per alcuni mesi a far tornare il muro anche fisicamente, dato che il Piazzale della Transalpina è stato transennato e in tutti i valichi di confine sono stati messi blocchi di cemento o semplici pietre per impedire il passaggio tra le due nazioni. Un solo punto di confine fuori città, il valico di Sant’Andrea, era aperto per alcune categorie di persone nei due mesi centrali della pandemia, con severi controlli. Anche il centralissimo valico di San Gabriele, l’antico Check Point Charlie e principale collegamento tra le due città, è rimasto chiuso, facendo tornare la Berlino italiana ad una situazione come quella del dopoguerra. Attualmente tutto si sta normalizzando, ma quello che il coronavirus ci ha insegnato è che i confini all’interno di Schengen, come quelli tra le regioni italiane, sono confini dormienti pronti a tornare a fare il loro lavoro e a incidere su una libertà di movimento che non immaginavamo potesse essere messa in discussione.

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