Giulio Giustini: fase uno e fase due tra mura scrostate, terrazzi assolati e terapie d’arte

La creatività durante la pandemia, un lenzuolo e un tetto di Roma per raccontare l'isolamento dal mondo

Giulio Giustini

«I miei disegni potrebbero essere disegnati su qualsiasi supporto o materiale, come i geroglifici egizi, i pittogrammi maya o indios. I miei disegni vogliono attivare una superficie e diffondere energia. E trasformare una superficie neutra, anonima, dandole una personalità». Questa fulgida affermazione di Keith Haring sembra ben adattarsi alla poliedricità di una personalità come quella di Giulio Giustini, classe ’81, esploratore di luoghi e superfici, creatore di opere che possono rivelarsi al contempo mortali ed eterne.

Cresciuto nella piccola e suggestiva Citerna, dove è cominciata la sua attività artistica, si sposta nella stimolante metropoli di Berlino, centro culturale e focolaio intellettuale tra i più vivaci e freschi d’Europa, per proseguire ed arricchire il suo operato: lo spazio pubblico e privato in cui ci si trova a vivere necessariamente apporta tra le più svariate e variabili influenze, specialmente se in un determinato spazio circoscritto si è costretti a passare il proprio tempo, durante un più o meno temuto isolamento sociale, nel corso delle varie fasi che hanno scandito e continuano a scandire un’emergenza sanitaria nazionale e mondiale. «Credo che il contesto nel quale vive un artista», afferma Giustini, «è già un fondale per la sua tela. La sua era, il suo territorio, e le sue idee sono le linee più profonde del suo tratto, e non credo si possano scindere le idee dell’artista dal suo operato. Io ho vissuto in Valtiberina per la maggior parte della mia vita, poi cinque anni a Berlino e ora sono bloccato a Roma con una pandemia in corso. Sicuramente c’è un filo che collega questo percorso. Mi trovo in un ambiente dove le mura parlano, basta saper ascoltare con gli occhi, abito momentaneamente in un palazzo di Roma centro, risalente agli anni ‘60, non ti dico quanto è affascinante parlare con il portiere la mattina prima di uscire per fare la spesa. La mia abitazione è all’ultimo piano adiacente alla terrazza condominiale, dove ho potuto divagare con la mente ogni giorno di questi due mesi e mezzo. La creazione è cominciata in uno stato mentale diverso dal passato, senza grandi ambizioni, si trattava più di una terapia d’urto per la mente, riuscire a dare un senso al tempo. Ho unito alcune tecniche che conoscevo e sono passato all’azione».

Torneremo

Con queste parole Giustini descrive la sua opera Torneremo, colori acrilici su un lenzuolo di 245 cm x 185 cm. Un titolo a dir poco emblematico per una creazione datata fase uno: «La mia opera racconta, attraverso un lenzuolo ed un tetto di Roma, il mio isolamento dal mondo. Mi trovo in una situazione molto particolare, vivo e lavoro a Berlino da circa cinque anni, ma al momento del lockdown ero in vacanza a Roma, e da allora qui sono rimasto. Superato il momento iniziale di euforia da quarantena, è arrivata successivamente la parte più dura. Sono riuscito a racimolare del materiale in questa abitazione, quali un lenzuolo e dei colori per il legno, ed è qui che mi sono approcciato alla pittura in modo molto istintivo. Con un linguaggio primitivo ho immortalato il passato e come vedo il futuro, mai così lontani dal presente. Un’opera in movimento, mossa dal vento, allietata dal sole di un terrazzo, la solitudine nel momento della creazione era scomparsa, e in quell’attimo ho dimenticato tutto».

Per una personalità fertile e talentuosa come quella di Giustini, però, la costrizione del tempo nello stesso spazio della quarantena non significa annullamento dell’evoluzione, ma anzi generazione di nuovi impulsi e propositiva spinta verso un sempre auspicabile cambiamento grazie ad un saper osservare e sfruttare la realtà circostante. «Nella seconda fase creativa», afferma ancora, «ho cambiato supporto: ho deciso che la tela dovesse avere caratteristiche più “essenziali” quindi ho deciso di eliminarla per sfruttare le mura che mi circondano (terrazza e seminterrato), che trasudano storia, e il passare del tempo, gli stucchi, le numerose vernici stese negli anni si scoprono e rendono le pareti come pagine aperte di un libro. Ho scelto di affrontare i primi graffiti con totale libertà e senza che fossi rincorso dalle forze dell’ordine come nella normale prassi della street art: in questo caso ero autorizzato dall’amministrazione del palazzo. Le prime prove erano più forti con il colore e con il linguaggio, sono dei lavori con tecniche miste, quali spray con tecnica stencil, pennarello e pittura spugnata. Unire tre mondi con ere differenti è quello che cercavo. Successivamente nei lavori ho cominciato a togliere invece di aggiungere e sono arrivato in un mondo più leggero, più sostenibile, più lento e più libero, un mondo che mi assomiglia di più, e che assomiglia più alle mie idee di chi sono oggi».

Nel pieno di questa seconda fase artistica che inevitabilmente coincide con quella, concettualmente quasi opposta, dettata dalle regolamentazioni sanitarie e governative, l’invito che queste opere di Giustini sembrano offrire è quello di assaporare con leggerezza ed operare con sostenibilità. Al contempo eteree e leggiadre eppure contraddistinte da un’imponente carica emotiva, ci esortano ad osservare con attenzione tanto esse stesse quanto lo spazio in cui si trovano (e dunque ci troviamo), qualunque e ovunque esso sia: saperne cogliere la globalità dei bianchi, dei neri e di tutte le sfumature di colore che possiamo scorgervi nel mezzo per generare e vedere mondi da cui, come quegli uccelli in quelle mura scrostate, si possa volare via e a cui si possa fare ritorno, in un’ottica di necessaria sperimentazione, affascinante evoluzione e cambiamento che pure non esclude un ancorarsi, come una fenice che risorge dalla cenere e torna al fuoco per quanto la si possa uccidere.

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