Opere d’arte, cultura, musei sono tra le principali ricchezze dell’Italia e del nostro territorio. Un patrimonio inestimabile in cui dobbiamo “tuffarci” per ripartire e per valorizzare nel modo migliore ciò che da sempre caratterizza la storia del nostro paese. L’emergenza Coronavirus ha colpito pesantemente questo settore, ma adesso è per fortuna il momento di rimettersi in moto, con le restrizioni obbligatorie in tema di tutela della salute, ma anche con una rinnovata consapevolezza, con ritrovata passione, con il necessario senso civico, con la voglia di tornare ad ammirare le eccellenze che costituiscono il nostro patrimonio. L’Italia è il paese dell’arte e della bellezza, valori che possono segnare una nuova rinascita. Questi alcuni degli spunti affrontati nell’intervista a Gabriele Mazzi, il direttore del Museo della Battaglia e di Anghiari e del Museo Casa Natale Michelangelo di Caprese. Una chiacchierata che ha scaturito interessanti riflessioni.
Turismo e cultura sono tra i settori che maggiormente hanno dovuto fare i conti con l’emergenza Coronavirus. Un danno enorme e non solo a livello economico.
“La chiusura per legge dei musei ha determinato il riposizionamento di una necessità: dare continuità alla protezione e conservazione dei beni culturali, proprio come stabilisce la Costituzione. In quei primi giorni continuare a svolgere i servizi minimi uscendo di casa non era piacevole, ma ora, pian piano, si ripartirà e purtroppo sappiamo molto bene quanto è andato effettivamente perso in termini economici”.
I musei di tutto il mondo, dai più grandi a quelli del territorio, si sono attrezzati sfruttando, nel periodo di massima emergenza, internet e i social per arrivare nelle case delle persone. Il fare di necessità virtù ha portato riscontri positivi in questo caso?
“Dal punto di vista delle competenze sul mondo digitale i musei, grandi e piccoli, ne hanno tratto beneficio, ma bisognerà vedere se questo porterà risultati misurabili all’atto pratico. Nelle scorse settimane si è parlato molto di un mondo che sarebbe cambiato per sempre, della necessità incontrovertibile di sostituire l’esperienza “dal vivo” con quella digitale “on demand”. Un cambiamento netto delle nostre abitudini, per poi ri-scoprire, con calma, che la necessità dell’uomo è molto più istintiva, cioè quella di provare esperienze “sulla pelle”, di vivere in prima persona i desideri e le passioni. Non c’è molta differenza in questo caso fra uno sportivo che vuole praticare il suo sport preferito e l’amante dell’arte, del teatro e della musica, il quale anela, di nuovo, la visita o l’esperienza. Anzi, mi aspetto un pubblico più consapevole all’interno dei luoghi della cultura italiani”.
In questo periodo di emergenza si è parlato forse troppo poco della cultura e di tutto il mondo che ad esso è collegato, rispetto invece ad altri settori. Come mai secondo lei?
“Generalmente si tende a pensare, nella società, che la cultura non porti con sé denari. Questo è vero se pensiamo all’immediata redditività di altri settori economici e a quanto sia precario il settore, ad esempio, sulle tutele dei lavoratori, artisti, ecc. Inoltre è drammaticamente vero quando si pensa alla frustrazione di moltissimi bravi giovani e adulti che non hanno la possibilità di esprimere il loro talento. Ma è altresì vero che l’Italia non è una gran consumatrice di cultura. Il generalista entusiasmo per il passato, radice di tutto, si è dissolto come il mobile industriale ha sostituito quello fatto a mano dall’artigiano di paese. Inoltre è una certa idea di “consumo” della cultura che frena un appassionato ritorno al ricordo. Una passione spuria, superficiale, sospettosa, ma che dovrebbe invece liberarsi e aprirsi alla bellezza, al sentimento e soprattutto al cuore. L’arte è tutta qui, va messa in relazione con noi stessi, nel profondo. Per questo l’umanità, da sempre, la cerca, la trova, ci si riconosce e anche oggi, quando molte cose della vita sembrano aver perso senso, ha un valore per lo spirito”.
Ripartenza e linee guida. Ci sono indicazioni chiare in tal senso?
“Come sempre, con le situazioni nuove, ci sono dei momenti dove tutti noi ci domandiamo se è giusto fare in un modo oppure nell’altro e questi mesi di emergenza non sono stati da meno. Dagli esperti al cittadino, passando per le istituzioni, timori e slanci in avanti si sono susseguiti, ma ritengo sia naturale. È la costante ricerca dell’irraggiungibile perfezione che ci rende così critici verso noi stessi. Oggi posso dire dal mio punto di vista che le regole per una riapertura dei musei ci sono tutte e che le istituzioni le hanno fornite ufficialmente. Ora si tratta di applicarle, ma per farlo serve la collaborazione delle persone. Collaborazione, quindi senso civico! Non si tratta di credere o meno che sia un virus da laboratorio, ora è il momento della responsabilità civile. Il numero delle vittime di questi mesi ce lo dovrebbe aver insegnato. Per questo i musei saranno aperti con accortezze necessarie affinché si possa visitare in sicurezza, fra le quali la misura che fa più male ad un servizio pubblico: il contingentamento degli ingressi. È come se, ad esempio e per assurdo, i canali televisivi RAI dovessero essere visti solo da poche persone alla volta”.
È giusto parlare di musei in generale, unendo nello stesso ragionamento strutture di vario genere e di differenti dimensioni?
“Facciamo sempre riferimento al nostro patrimonio, così diffuso, bellissimo e al contempo fragile, anche nella memoria di chi ci abita dentro, ma preferiamo delle pratiche di gestione che non appartengono all’Italia, per il semplice fatto che altrove funzionano. Da alcuni anni il leitmotiv è quello dell’economia di scala che giova sì al saldo economico, ma che offre il fianco ad alcune problematiche, fra di esse quella di accentuare la differenza fra città e periferia, fra metropoli e provincia. Sapete che in un passato non troppo remoto questa differenza era meno evidente di oggi nel centro-nord Italia? Noi italiani siamo diversi da francesi, tedeschi, inglesi, americani e fino all’altro ieri abbiamo avuto sempre bisogno di avere accanto a noi, vicinissime, immagini, storie, che ci raccontavano chi fossimo stati, nel particolare, proprio perché siamo stati parte della storia, di una grande storia. La ricetta del “miracolo italiano” non era forse questa? Oggi competere economicamente con i popoli della terra, avendo smarrito noi stessi, cosa ci sta portando? Per questo il valore dei luoghi simbolo non è solo economico, è la nostra vita”.
Come cambieranno il modo di visitare i musei ed il settore cultura nel futuro prossimo?
“Sicuramente nel futuro prossimo la visita sarà più personale e memorabile, per la necessità di distanziare e rarefare gli ingressi. Vi svelo un mio innocente sogno: visitare la Basilica di San Francesco ad Assisi in solitudine. Non per misurarmi con la conoscenza sugli affreschi di Giotto, bensì per essere dentro alla storia di quell’uomo, indisturbato e solo con la potenza del messaggio umano di Francesco. Ecco, forse in questa situazione il problema sarà che avrò poco tempo, perché ci saranno altre persone che vorranno fare lo stesso! Struggersi in solitudine di fronte ad una pittura di Piero della Francesca o meravigliarsi nello scoprire la scultura di Niccolò dell’Arca sarà certamente possibile, ma probabilmente dovremmo farlo velocemente! Quindi, combattendo contro la nostra innata necessità di feticci, non facciamo subito una foto. Prima immergiamoci nel sentimento dell’arte, perché solo quello rimane per sempre nella nostra vita. Anche e soprattutto di fronte a conosciutissimi capolavori”.
La storia ci insegna che anche dalle situazioni più drammatiche si possono trarre indicazioni per ripartire e per migliorare il futuro. Cosa si può imparare da quello che stiamo vivendo?
“Tanto. La fragilità ad esempio, non solo delle nostre vite, ma di quella corazza che si chiama io e che ci mettiamo addosso ogni mattina per ritagliarci il nostro pane quotidiano. È una corazza di carta velina. Spogliandoci del nostro orgoglio saremo tutti migliori. Il massimo? Vestirci con un sincero e cordiale sorriso”.