La rubrica Valtiberini nel mondo ospita oggi Francesco Panerai, ingegnere meccanico di Sansepolcro, classe 1982, che ormai da molti anni sta portando avanti una brillante carriera professionale negli Stati Uniti. Nella conversazione con il nostro giornale ha raccontato il proprio percorso e gli aspetti positivi e negativi della vita lontano dall’Italia.
Dove ti trovi attualmente e di cosa ti occupi?
Sono all’Università dell’Illinois, che si trova in due cittadine vicine, Urbana e Champaign, due ore a sud di Chicago, in mezzo ai campi di granturco e di soia del Midwest. Sono professore al dipartimento di ingegneria e come succede in America per la maggior tempo ci occupiamo di ricerca. Il mio settore è l’ipersonica, cioè lo studio dei sistemi che volano ad alta velocità, quindi veicoli spaziali che rientrano nelle atmosfere dei pianeti e altri sistemi di difesa. Più nello specifico ci occupiamo soprattutto di materiali ad alte temperature: si tratta di un campo dell’aerodinamica in cui le strutture vengono esposte a temperature molto elevate e uno dei problemi principali è proprio il comportamento dei materiali in condizioni estreme. L’altra parte del mio lavoro è quella classica di insegnamento e mentorship per gli studenti.
Qual è stato il percorso che ti ha portato all’Università dell’Illinois?
È stato un percorso non programmato, per lo meno inizialmente. Ho fatto ingegneria meccanica a Perugia, era il primo anno del 3+2, quello cioè del passaggio dalla laurea vecchio stile alla formula triennale più magistrale. Alla fine della magistrale cercavo un’opportunità di tesi e il mio relatore aveva un contatto con un centro di ricerca in Belgio, il Von Karman Institute, specializzato nella meccanica dei fluidi. Dovevo andare a studiare turbine, ma il primo giorno del mio stage quello che doveva essere il mio referente mi ha detto che il progetto non c’era più, ma che un collega probabilmente ne aveva un altro a disposizione. Così sono finito in maniera abbastanza casuale a lavorare nel dipartimento di ingegneria aerospaziale, in un ambito di cui non avevo assolutamente idea, cioè lo studio dei plasmi e dei materiali ad alta temperatura. Alla fine ho fatto la tesi magistrale per sei mesi, dopo la laurea sono rimasto per un master after master e ho iniziato sempre lì in Belgio il dottorato, rimanendo in contatto con l’Università di Perugia. In quella fase ho iniziato a fare sempre più ricerca sul campo in cui sto lavorando ancora adesso, e uno dei contatti principali era il centro della Nasa in California che si occupa del rientro in atmosfera. Alla fine del dottorato mi hanno assunto lì con una borsa di dottorato dell’Università del Kentucky, anche se potevo stare sempre in California. Alla Nasa ho fatto due anni di post-dottorato e quasi cinque anni da ricercatore. Poi ho deciso di cambiare e seguire la carriera accademica.
Quali sono state le tue principali soddisfazioni professionali?
Alla Nasa, lavorando su missioni rilevanti dal punto di vista dell’esplorazione spaziale, abbiamo introdotto un nuovo metodo di studio dei materiali che ora stanno adottando in molti. Introdurre un nuovo approccio che poi viene applicato su larga scala è sicuramente una grande soddisfazione. E poi una delle cose più belle è vedere gli studenti che crescono, che iniziano con idee poco chiare ma tanta voglia di fare e di scoprire, che fanno i primi passi in laboratorio e poi arrivano a realizzare cose eccezionali.
Cosa ti piace di più e cosa di meno della tua vita negli Stati Uniti?
Parto da quello negativo: per chi è cresciuto in Italia, in Valtiberina ma un po’ il tutto il Paese, probabilmente più di tutto manca un certo stile di vita e di cultura, l’interazione con gli altri, la socialità, tutte cose che si danno per scontate quando ci si è immersi, senza rendersi conto del loro valore. Quando ci si sposta all’estero, col passare degli anni questa cosa si sente sempre di più. La parte più bella è invece quella professionale: in Italia e in Europa ci sono realtà eccezionali per fare ricerca però penso che qua la si possa fare a un livello più avanzato, ci sono molte più opportunità, quindi di fatto la scelta di vivere negli Stati Uniti è molto determinata dall’aspetto lavorativo. In generale comunque il modo in cui si vive dipende molto dalle persone di cui ci si circonda, alla fine all’estero uno tende a crearsi la sua comunità di europei, di italiani, per cui il posto conto ma relativamente.
Di solito ogni quanto torni in Italia?
Pandemia a parte, in genere tornavo due volte l’anno. Dalla California era un po’ più complicato per motivi logistici perché il volo è abbastanza lungo, ma in genere ho sempre provato a tornare almeno due volte l’anno. Quando stavo in Belgio naturalmente era semplice e tornavo molto più spesso, ogni due o tre mesi. Quest’anno sono tornato solo una volta a Natale e spero di riuscire ad agosto, però in effetti questo è anche un periodo abbastanza impegnativo dal punto di vista professionale.
Progetti per il futuro?
Per ora sono qua con la mia compagna Laura, collega nel dipartimento: ci siamo conosciuti in Belgio e poi abbiamo fatto più o meno lo stesso percorso. Penso che rimarremo per lo meno un’altra decina di anni, poi non si sa mai, perché negli Stati Uniti ci sono spostamenti frequenti fra varie istituzioni, quindi non posso garantire che sarò qui a tempo indeterminato. Per la verità sia io che Laura stiamo provando a intensificare i rapporti con l’Europa per vedere se ci sono possibilità per riavvicinarci, ma per ora l’idea è quella di rimanere.