Federico Cenci, editore di opere dimenticate

Da Anghiari a Roma per amore, pubblica libri fuori catalogo o mai tradotti, rimettendo in discussione i canoni del passato attraverso la sensibilità del lettore odierno

In fiera

Federico Cenci è nato nel 1978, ha vissuto prima ad Anghiari, poi a Santa Fiora di Sansepolcro, e durante l’università di nuovo ad Anghiari. Ha fatto lo slalom fra tante possibili professioni, da quella del pilota d’aereo (ha frequentato l’Istituto tecnico aeronautico di Forlì come altri anghiaresi della sua generazione), al pizzaiolo, all’informatico, ma poi ha trovato la strada a lui più congeniale nello studio e nell’elaborazione di testi scritti di narrativa.
Si è laureato ad Arezzo in Lingue e Letterature Moderne con specializzazione in Editoria, e già durante l’università ha iniziato a lavorare come traduttore, prima di manuali di scacchi (altra passione di “scuola anghiarese”), poi di narrativa, per Mondadori e altri editori. Finché nel 2015 non ha fondato Cliquot, la sua casa editrice.

Come sei finito a Roma?

A Roma ci sono finito per amore. Sono già dieci anni che condivido la mia vita romana con Marina, traduttrice come me. Lei è di Bari, e stare vicini è stato al principio un po’ movimentato (con somma gioia di Trenitalia). Per fortuna lei aveva vinto un concorso come traduttrice al Ministero della Difesa, per cui quando ha iniziato l’incarico, nel 2010, ci siamo trasferiti insieme in uno di quei tipici appartamentini dell’Esquilino che da fuori ti strizzano l’occhio, nel loro splendore Savoia, ma non appena varchi la soglia ti ritrovi nel Quattrocento come Benigni e Troisi, e senti all’orecchio la stessa musichetta medievale.
All’epoca facevo traduzioni una dietro l’altra, e arrotondavo il magro stipendio scrivendo sotto pseudonimo racconti d’amore per riviste femminili (questo dettaglio non l’ho mai raccontato a nessuno, prima d’ora…), quindi potevo spostarmi tranquillamente: mi bastava un computer e qualche dizionario e potevo scrivere ovunque.

Raccontaci come è nata, poi, l’idea di Cliquot

Per due o tre anni le cose sono continuate così, fra traduzioni e raccontini d’amore. Chi stava meglio di me? Il da fare non mi mancava: appena finita una traduzione me ne arrivava subito un’altra. Mi divertivo, e potevo contare su un lavoro creativo e appagante, anche se poco pagato. Poi però ho deciso di complicarmi la vita…
Questo è quello che racconto sempre, scherzando. La verità è che, alla lunga, mi sono reso conto che ciò che stavo facendo, benché mi piacesse molto, mi andava un po’ stretto. Avevo voglia di espandere le mie conoscenze, volevo approfondire le dinamiche del mondo del libro. Stavo sempre chino sul computer a macinare pagine di traduzione, senza neppure i sabati o le domeniche liberi nelle settimane a ridosso delle consegne, e mi sentivo come schiacciato dalla macchina editoriale: mi pareva d’essere un ingranaggio inutile, e per di più senza alcuna prospettiva.
Così, quando il destino, incarnato in una mia ex compagna di università, mi fece conoscere nell’estate del 2013 il Corso principe per redattori editoriali tenuto da Oblique Studio, visto che si svolgeva vicino a casa decisi che valeva la pena vedere cosa avrei potuto imparare.
Non mi aspettavo nulla, men che meno avevo in mente che sarebbe stato un nuovo battesimo, un passaggio dall’altra parte della barricata, quella degli editori avidi e cattivi che si arricchiscono grazie al sudore dei poveri traduttori «sfruttati, malpagati e frustrati».
Il fatto è che il Principe era davvero un corso eccezionale per apprendere le dinamiche della filiera del libro (e lo è tuttora! Lo consiglio con tutto il cuore!), e in più, frequentandolo, mi sono anche accorto che tutto sommato avevo quella scintilla interiore che mi avvicinava al lavoro dell’editore: possiamo chiamarlo talento se vogliamo, perché il talento alla fine non è altro che il riuscire a fare bene le cose quando siamo immersi in un ambiente che sentiamo “nostro”. Un po’ come il giovane Holden, che nell’ultima pagina del libro dice: «Come fai a sapere quello che vuoi fare, finché non lo fai?», io mi ero ritrovato d’improvviso a fare – seppur nella simulazione di un corso – quello che volevo fare.
E poiché mi stavo accorgendo che, nascoste dentro di me (nascoste perfino a me stesso!), c’erano alcune idee imprenditoriali legate all’editoria, ecco che, proprio durante il Corso principe, venne fuori l’idea di Cliquot. La casa editrice poi è nata nel marzo 2015, dopo una lunga preparazione.

Dicci qualcosa della casa editrice. Qual è il progetto editoriale?

L’idea di base di Cliquot è il repêchage di belle opere del passato dimenticate. Vogliamo (io e i miei tre soci) riscoprire libri fuori catalogo da tempo, o mai tradotti prima in Italia, che siano attuali, piacevoli e significativi per il lettore odierno. Dal punto di vista culturale, l’operazione non è quindi preservare la memoria storica di un’opera che appartiene a un tempo remoto (già lodevolmente svolta dalle biblioteche, da Project Gutenberg o da Google books), ma intercettare una sensibilità diffusa nei lettori odierni, per rimettere in discussione i modelli e i canoni del passato: lavoro fondamentale che dovrebbe sempre procedere di pari passo con la produzione di letteratura nuova.
Abbiamo 4 collane cartacee: Biblioteca è quella dal taglio più letterario (è appena uscito il bellissimo La vita involontaria di Brianna Carafa, finalista al Premio Strega nel 1975 e fuori catalogo da quarant’anni); Fantastica (in doppia versione Classica e Deluxe a tiratura limitata) è quella dedicata alla narrativa dell’immaginario; poi c’è Ajeeb che tratta di manualistica di scacchi (e qui sono io che faccio buon uso delle mie esperienze); infine Segni riguarda il fumetto e l’illustrazione per bambini.

Occupando il tempo durante la pandemia

Parlaci di un libro di Cliquot di cui siete particolarmente fieri.

La riscoperta che finora ci ha dato maggior soddisfazione è stata senza dubbio quella delle opere di Carlo H. De’ Medici, oscuro scrittore friulano attivo fra le due guerre, di cui abbiamo ripubblicato nella collana Fantastica il romanzo Gomòria (originariamente uscito nel 1920) e la raccolta di racconti I topi del cimitero (1924). I libri di De’ Medici (che contengono anche bellissime illustrazioni realizzate dall’autore stesso) possono essere definiti narrativa gotica, e forse è stato proprio l’essere stati pubblicati quando il gusto decadente si era già spento da diversi lustri, rimpiazzato da correnti e idee legate al modernismo e alle avanguardie, a decretarne l’oblio totale fin dalla loro uscita.
A leggerli oggi, tuttavia, la loro potenza letteraria ci è subito apparsa evidente. Sono libri carichi di una forza magnetica oscura, in cui si fondono affanni divini e terreni, misticismo e concretezza materiale, spirito e carne. Attingono alla tradizione di Poe o Huysmans, ma contengono anche elementi inediti e personali, frutto delle ricerche interiori dell’autore, del suo cammino iniziatico, del lungo studio di antichi testi di occultismo.
In alcuni ambienti legati allo studio del fantastico si è addirittura detto che la riscoperta dei libri di De’ Medici è importante al punto da «ridisegnare i confini del gotico italiano». Questa sì che è una soddisfazione!
Fra l’altro, la cosa bella è che anche dell’autore si sapeva pochissimo: quando un libro viene dimenticato, spessissimo la stessa sorte tocca a chi l’ha scritto. E così ci siamo messi anche alla ricerca di informazioni biografiche: ripubblicando un libro di un autore dimenticato, oltre al contenuto dei libri, parallelamente sgomitoliamo anche una seconda narrativa, che è quella reale e umana.

I topi del cimitero

Qual è la salute dell’editoria in Italia?

Lasciando la pandemia a parte, che sta aprendo un nuovo significativo capitolo nel mondo dell’editoria (e del commercio tutto), i cui scenari ci diverranno chiari solo fra un po’, è risaputo che già da prima l’editoria non fosse un settore particolarmente felice, né la strada maestra per chi ambisce alla ricchezza e alla gloria!
Non starò a citare l’Istat che ci ricorda come ogni anno in Italia comprino libri soltanto un’infima percentuale di italiani (i mitici “lettori forti”), sempre di meno a ogni nuova indagine. Perché fortunatamente sono ottimista di natura, e quello che riesco a vedere è che comunque c’è una possibilità di ricavarsi uno spazio per chi lavora sodo, con amore, passione e competenza. Anche se occorrono anni e anni! Abbiamo festeggiato il nostro quinto anniversario da poco, e ancora tutti i soci hanno un secondo lavoro accanto a quello per la casa editrice (io, per esempio, proseguo con le traduzioni, benché in misura molto più blanda di prima), perché uno stipendio continuo e di tenore accettabile è ancora un’utopia, per quanto mese dopo mese i miglioramenti si vedano sempre.
Il vero problema, a mio avviso, non sono i pochi lettori, ma i troppi libri! Senza entrare troppo nel dettaglio per non annoiare, c’è una sovrapproduzione che non dipende dal fatto che ci siano troppi autori, ma è una conseguenza di un sistema di filiera malato, dove tutta la catena, dall’editore alla libreria passando per la distribuzione, è controllata da due o tre colossi, e tutto l’apparato segue le logiche che costoro impongono: logiche finanziarie che mal si accordano con la realtà del commercio di un piccolo o medio editore.
Noi stiamo cercando di tenerci fuori da tutti questi meccanismi strani, perché siamo convinti che siano modelli antiquati e senza futuro. Solo che la strada, quando te la devi costruire a colpi di machete, è ben più tosta da percorrere.

Hai accennato alla pandemia Covid-19. In che modo ha influito nella vostra attività?

Certamente nell’immediato il danno è stato, ed è tuttora, tangibile. Le librerie sono state chiuse per due mesi e, anche quando hanno potuto riaprire, sono state per settimane ancora più deserte di prima. Un altro danno davvero molto, molto significativo è l’impossibilità di fare fiere. Sono saltati appuntamenti fondamentali come il BookPride di Milano e il Salone del libro di Torino, e chissà se riusciremo a fare Più Libri Più Liberi a Roma a dicembre (e, se si farà, quante persone avranno l’ardire di entrare). Per un piccolo editore le fiere sono essenziali perché, quando vanno bene, sono il modo più semplice e immediato di racimolare quel minimo di liquidità necessaria per portare avanti il progetto editoriale.
Disastri a parte, però, devo dire che questa pandemia è stata anche un’occasione importante, per i piccoli editori e le librerie indipendenti, di parlarsi di più (il famoso “fare rete”) e sono partiti alcuni progetti molto interessanti come Libri da Asporto, un sistema in cui editori e librai indipendenti si sostengono economicamente a vicenda per spedire i libri a domicilio ai clienti che non vogliono esporsi andando fisicamente in libreria.
Anche ora che l’emergenza seria (incrociando le dita) pare finita, il progetto prosegue: la pandemia ha spostato il fulcro, anche per le librerie indipendenti, dal fisico all’online (o quantomeno alla consegna a domicilio) e sono convinto che, almeno in parte, da questo cambiamento di prospettiva non si tornerà più indietro.

Sei anche un amante dei viaggi. Vuoi raccontarci una tua esperienza?

Con Marina, da quando stiamo a Roma, ci siamo dati una regola: visitare un Paese nuovo ogni anno (chissà se ci riusciremo anche quest’anno, ahimè!). Dieci anni fa, da trentenni squattrinati, amavamo i viaggi avventurosi: cercavamo (dovrei dire “cercava”, perché è Marina l’esperta in questo campo) i voli su internet, e compravamo quelli che costavano meno, indipendentemente dalla destinazione! Così, per esempio, ci capitava di atterrare a Praga e riprendere l’aereo due settimane dopo da Budapest, e ci costruivamo il viaggio improvvisando giorno dopo giorno, spostandoci coi mezzi pubblici e dormendo nelle case (talvolta stamberghe) di chi ci ospitava su Couchsurfing.
Oggi devo dire che non disdegniamo, almeno qualche volta, le comodità degli alberghi prenotati in anticipo, anche se le vacanze devono sempre essere un viaggio da un luogo a un altro, in continuo spostamento, e rigorosamente coi mezzi pubblici per penetrare il più a fondo possibile nella quotidianità degli abitanti dei luoghi che visitiamo.
Perché poi sta qui la parte bella del viaggio: coi mezzi pubblici certe volte capitano avventure proprio divertenti. In Albania, per esempio, non ci sono molti servizi di corriera riconosciuti, e la gente si sposta sui furgon privati, degli scarcassoni indecenti che partono la mattina presto a un’ora imprecisata, che può essere anche alle cinque di mattina, o più tardi (non si sa: partono quando si sono riempiti di passeggeri!), e neppure è ben chiaro da dove partano: solo i locali lo sanno, e scoprirlo se non sai la lingua è spesso un’impresa che mette a dura prova la tua sanità mentale.
Ti può anche capitare di imbatterti in qualche furbacchione che ti convince a partire sul furgon di un suo amico (spillandoti il doppio del costo normale della corsa, ma questo lo scopri dopo!), assicurandoti che al tuo arrivo, sul cucuzzolo di una montagna, troverai un altro furgon che ti permetterà di svalicare. E poi l’altro furgon non c’è, e l’unica cosa che puoi fare è… ingaggiare un ragazzino del posto che carichi sul suo mulo gli zaini e ti faccia strada, fino al paesello successivo, per dieci ore ininterrotte di cammino. A piedi. Sui monti.
Nei viaggi fatti in questo modo ne succedono di tutti i colori, e se c’è una cosa che ho imparato dal viaggiare così è che è proprio quando i tuoi progetti vanno a rotoli, e sei costretto a improvvisare, e ti sale l’ansia perché non sai dove dormirai stasera e cosa farai domani: ecco, è proprio in quei momenti che le cose acquistano un’anima e, alla fine, diventano degne di essere ricordate.

Marina e Federico backpackers

Il tuo futuro lo vedi lontano dalla Valtiberina?

Ogni volta che scendo alla stazione di Arezzo e prendo la Sita per tornare in valle, le chiome degli alberi sulle colline, verdi o marroni a seconda della stagione dell’anno, è come se a un certo punto per magia si sollevassero da terra e s’ingrossassero, si ingigantissero e mi venissero incontro: e in quei momenti lo Scopetone – oppure la Libbia: le amo entrambe allo stesso modo – d’improvviso smettono di serpeggiare davanti ai miei occhi e il verde, o il marrone, riempie ogni spazio e mi spalanca il cuore.
La cosa buffa è che, finché abitavo in Valtiberina, non avevo mai fatto caso alla natura. Oggi è ciò che più mi manca.
E mi mancano, nelle giornate d’estate, le pietre antiche dei muri d’Anghiari, infuocate dal sole, con le lucertole immobili. Ma forse questa è nostalgia del bambino perduto.
Adesso, se torno in Valtiberina di tanto in tanto, è per fare visita ai parenti. Non credo che tornerò mai per viverci, ma anche se un giorno non dovessi più avere legami con le persone care, ce l’avrò sempre col verde, col marrone, con le pietre roventi e le lucertole.

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